Rivista "IBC" IX, 2001, 4

pubblicazioni, storie e personaggi

Caterina Vigri: la santa e la città

Francesco Sberlati
[docente di letteratura italiana presso la Facoltà di lingue e letterature straniere dell'Università di Bologna]

Tra le figure più interessanti della cultura religiosa del primo Quattrocento c'è sicuramente Caterina Vigri, nata a Bologna l'8 settembre 1413 da Giovanni, gentiluomo ferrarese al servizio dei marchesi d'Este, e dalla nobildonna bolognese Benvenuta Mammolini. Pur non dimostrando fisionomia di particolare complessità dal punto di vista intellettuale, Caterina, ascritta nell'albo dei santi da Clemente XI il 22 maggio 1712 dopo un processo di canonizzazione iniziato nel 1646 (ma l'iscrizione al martirologio risale al 1592), resta tuttavia presenza di grande forza spirituale, indirizzata non tanto alla vocazione pastorale, quanto piuttosto all'indagine intima dello slancio mistico e devoto. Il suo anelito riuscì a dar luogo a una nuova forma di fede, rendendo il monastero del Corpus Domini, di cui fu badessa, un centro particolarmente vivace di vita intellettuale e spirituale, integrato nel tessuto sociale della città. La sua appassionata vicenda di scrittrice religiosa ha finalmente ricevuto l'attenzione che merita grazie all'edizione filologicamente sorvegliata delle sue opere, dovuta a due studiose di valore. Antonella Degl'Innocenti ha curato la stampa del più noto trattato di Caterina, Le sette armi spirituali, mentre Silvia Serventi ha investigato a fondo l'archivio della Santa, conservato presso l'Archivio generale arcivescovile di Bologna, per trarne testi finora inediti, dati alle stampe col titolo di Laudi, trattati e lettere.1

La novità della produzione di Caterina consiste innanzitutto in una meditata e appassionata adesione alla devotio moderna, ovvero ad un particolare tipo di meditazione spirituale che suppone il ricorso a mezzi metodici di preghiera. In tal senso Le sette armi spirituali rappresentano il contributo più cospicuo della Santa, la quale lo pensò in primo luogo per le sue consorelle clarisse, ma che, per il fatto di essere steso in volgare, raggiunse una più ampia schiera di lettori. In effetti anche il trattatello di Caterina rientra nel filone dei manuali che aiutavano il semplice cristiano ad ordinare le conoscenze acquisite dalle prediche e dalle omelie. Questa letteratura edificante aveva dato vita ad opere come la Totius vitae spirituali summa dell'olandese Enrico di Caester, o in Francia il Doctrinal de Sapience di Gui de Roie. Ma fu soprattutto in Catalogna che il movimento della devotio moderna si manifestò in una grande compilazione letteraria, vale a dire il Tractat de contemplancio di Francesco Eiximenis, opera di considerevole importanza, poiché fu imitata da Cisneros, che a sua volta influenzerà Ignazio de Loyola. L'opera di Caterina da Bologna appartiene a questo filone di manuali che costituiscono un riassunto della dottrina cristiana con fini divulgativi o apologetici, offrendosi al lettore non colto come una raccolta di preghiere e una meditazione dei peccati intesa come primo esercizio della via purgativa. Pertanto tutte le componenti culturali delle opere di Caterina vanno ricondotte a questa sfera specifica, che si colloca all'interno di un paradigma essenzialmente devozionale e ascetico. Vedere in esse elementi analoghi a quelli della nascente cultura umanistica è ipotesi improbabile, e va dunque sottoposta alla verifica dei dati storici e documentari.

Quando Caterina arriva alla corte ferrarese di Niccolò III d'Este, tra il 1422 e il 1424, come dama di compagnia della figlia Margherita, Ferrara non è ancora diventata un centro di cultura umanistica. A quell'epoca l'aretino Donato degli Albanzani, precettore e cancelliere di Niccolò III, era già morto (1411); come pedagogo dei figli di Niccolò troviamo Guglielmo Capello, editore delle Vite di Plutarco, commentatore di Plinio e Lucano, oltre che del Dittamondo di Fazio degli Uberti. L'altro intellettuale di spicco della cerchia estense è Pietro Andrea de' Bassi, autore di un pregevole commento al Teseida di Boccaccio e di un apprezzato poema, Le fatiche di Ercole (sul modello di Seneca), del quale si ricorderà l'Ariosto. Le grandi personalità dell'Umanesimo ferrarese, tuttavia, non sono ancora giunte: Guarino Guarini arriva a Ferrara solo nel 1429 su invito di Niccolò III, lo stesso anno in cui approda alla corte anche il grecista Giovanni Aurispa, che vi si tratterrà sino al 1459. Caterina ha già abbandonato la corte verso il 1426, in concomitanza con le nozze di Margherita, per unirsi al gruppo di pie donne nato dall'iniziativa di Bernardina Sedazzari e coordinato in quegli anni da Lucia Mascheroni. Il suo legame con l'Umanesimo, dunque, non va dato per scontato, ma neppure sottostimato. La biografia di Caterina composta da Sabadino degli Arienti all'inizio degli anni Ottanta dimostra l'ampiezza di un orizzonte culturale composito, al quale le menti più avvertite dell'epoca guardano con ammirazione.

Si può avere talvolta l'impressione che i modelli espressivi adottati da Caterina siano attenti a sottolineare gli apporti di una cultura al contempo cristiana e umanistica. A ben guardare, Caterina ebbe il dono raro di saper costruire la propria esistenza in una rete sociale assai mobile, nella quale le dinamiche antropologiche della devotio assumevano caratteri propri della cultura collettiva quattrocentesca. Tuttavia, di fronte alle suggestioni retoriche delle Laudi, non si può fare a meno di richiamare la robusta tradizione duetrecentesca, ed in particolare le soluzioni di marca iacoponica o più latamente francescana. Del resto, attraverso i risultati delle proprie ricerche, Caterina aveva maturato una formazione fondamentalmente filologica ed erudita, già capace di integrare nella lettura dei testi sacri l'analisi di documenti poetici volgari, sia pure di evidenti implicazioni religiose. Non di disinvoltura si tratta, ovviamente, bensì al contrario di mediazione credibile e mentalmente elevata, messa a disposizione di un impegno volto a descrivere accuratamente il sapere religioso coevo. L'esercizio della poesia è anch'esso un modo efficace per disciplinare il temperamento e la disposizione ascetica entro un codice intellettuale saldamente acquisito da Caterina, e anzi divenuto, dopo il rientro a Bologna verso il 1456, oggetto di studi specifici. Vero è che i componimenti caratterizzati da strutture metriche particolarmente elaborate siano ascrivibili alla Vigri con ampio beneficio di dubbio, e senza dubbio da escludersi sono quelle testure modellate sugli schemi della cobla capfinida, del sirventese, del sonetto caudato, per altro ormai caduti in disuso nelle cerchie più avanzate dei cultori di poesia. Nondimeno essi invitano a prestare maggiore attenzione alla provenienza delle componenti di una cultura monastica in trasformazione, non facili da valutare e soprattutto ardue da collocare nella gerarchia dei saperi contemporanei.

Per questa ragione si è dibattuto a lungo sull'influsso esercitato su Caterina dall'ambiente universitario bolognese, con il quale il monastero del Corpus Domini avrebbe intrattenuto un dialogo a distanza, affidato alle carte vergate da un'elegante grafia minuscola corsiva appresa dalla santa negli anni giovanili passati alla corte estense, dove fiorirono alcuni dei più prestigiosi scriptoria del XV secolo. Anche su questo versante la centralità della figura di Caterina sollecita ad accertare i dettagli cronologici, a riconoscere l'eventuale presenza di incroci o intersezioni. Nella prima metà del Quattrocento lo Studium non annovera ancora nel suo organico le grandi figure di Codro e Beroaldo. Il timido rinnovamento operato da Giovanni Toscanella, motivato interprete del Panormita, risale ai primissimi del secolo, nell'auspicato intento di fare di Bologna una nuova Atene. Negli stessi anni, mentre Caterina si trova ancora a Ferrara nel sicuro ricovero delle clarisse, dopo la scissione dal gruppo agostiniano capeggiato da Ailisia de Baldo, si situa l'insegnamento di Lapo da Castiglionchio il Giovane, magister di retorica e filosofia morale. Nel 1449, dunque almeno sette anni prima del rientro di Caterina in città, Giovanni Lamola lascia il suo incarico all'Università, ricoperto dal '35, e l'anno successivo sale in cattedra Niccolò Perotto da Sassoferrato, restandovi sino al 1455. Alla lista si possono aggiungere Galeotto Marzio, all'epoca già trasferito in Ungheria presso la corte di Mattia Corvino, di cui fu bibliotecario e astrologo, e infine, per certi aspetti, Francesco Puteolano. Di questi autorevoli docenti solo Perotto dimostra interessi parzialmente affini a quelli di Caterina, in particolare nella veste di traduttore del De invidia di San Basilio e del De invidia et odio di Plutarco, testi con ogni probabilità noti all'autrice delle Sette armi e dei Trattati in cui si espone la "doctrina che debeno tenere quelli che desiderano tenere la vita apostolica".

Il rapporto con l'erudizione tardomedievale è un aspetto essenziale della cultura della Vigri, apprezzabile proprio nello spazio fondamentale della conoscenza mistica. La descrizione delle pratiche devote, documentate benissimo dai Trattati, rispecchia le articolazioni teorizzate in opere come il Livre de sainte meditacion di Ciboule o The Scale of Perfection di William Hilton, veri e propri manuali di comportamenti spirituali, in cui l'estremo grado di precettistica rammenta il cristianesimo enciclopedico del Viridarium consolationis. La funzione esplicativa che simili libri sono chiamati ad assolvere trova analogie di primo piano con gli scritti cateriniani dedicati all'agire mistico, i cui modelli di orazione ed obbedienza si ricollegano inoltre alle istruzioni impartite dal Buch des Gehorsams, composto in onore delle cinque piaghe. Insomma: le teorizzazioni di "un" metodo di preghiera sono una costante nella letteratura religiosa del primo Quattrocento, derivando in parte riflessioni dal filone del socratismo cristiano; e trovano nella produzione di Caterina i presupposti debitamente utilizzati affinché gli scopi perseguiti rendano anche conto di tecniche e perizie avvalorate da precise rispondenze pratiche. È il caso, ad esempio, del Trattato VII, che si offre al lettore bisognoso di istruzioni per la preghiera come un efficace manuale da cui derivare non solo atteggiamenti mentali, ma anche posture fisiche: "Qualunca persona vole cum devotione dire la corona de la matre de Cristo, debe in prima dipartire la mente sua de le cosse terrene et levandola a Dio e ponendo le genochia in tera et col segno della sancta croce signandosi, dire el Pater noster e poi dire, cum le debite e devote inclinatione overo genuflexione, la prima Ave Maria contemplando".2 Non è solo il fattore emozionale a produrre pensieri di ordine superiore: il fedele deve essere in grado di garantire al suo corpo continui adattamenti ai nuovi compiti che l'anima si propone.

Attraverso la poesia delle Laudi Caterina cercava di fare i conti con una tradizione letteraria di cifra elevata, che aveva segnato nei secoli precedenti la vicenda minoritica e mendicante. Testimonianza di una fedeltà tenace, capace di sopravvivere alle esperienze profonde della cultura umanistica, il minuscolo ed irregolare laudario della Vigri rappresenta, aldilà del suo mosaico di citazioni in exergon da Iacopone a Tommaso da Celano, un esercizio spirituale a cui si affidano le immagini più inquiete ed intense di un tipo di letteratura ormai decisamente sorpassato. Eppure è proprio lo sguardo retrospettivo di Caterina, rivolto all'indietro verso le vecchie istanze di ordine edificante, a restituire nella continuità di un registro retorico i motivi remoti di un "genere" codificato in schemi e istituti topici, non secondo ragioni rigorosamente tecniche ma nell'illusione di finalità militanti. La mano più abile di Illuminata Bembo, mossa da desiderio di correzione, ha forse contribuito al labor limae che si scorge nei momenti formalmente più complessi, ma non ha del tutto obliterato la patina volutamente imperfetta in sintonia con le radici della cultura di Caterina, disposta per genuina vocazione a discutere e rivedere. Prima ancora che i Trattati o le Sette armi, le laudi rivelano, sotto la superficie coagulata intorno agli elementi di convenzione, gli indicatori di un cammino individuale a proposito del quale si potrebbe parlare di Umanesimo, almeno là dove si auspicava l'avvento di una renovatio spirituale dominata dall'utopia di una religiosità sensibile e sapiente, vivificata dal rapporto con le forme e le figure della tradizione francescana. I venticinque anni trascorsi all'interno del monastero ferrarese, dal 1431 al 1456, non hanno lasciato traccia nella documentazione superstite, ma è lecito ritenere che a quegli anni schivi di contatti pubblici risalga la prima gestazione dei componimenti poetici, elaborati in un'atmosfera adeguata alla riflessione sull'uso del passato in funzione del presente. Lo strenuo esercizio interpretativo dei testi offerti alle novizie si immagina pur esso funzionale al contatto diretto con l'eredità medievale, dalla quale il presente doveva ormai necessariamente affrancarsi, eppure complementare, anche nella sua alterità, alle discussioni sul classicismo che non risparmiavano neppure i testi sacri. Non a caso quando Giovanni Antonio Flaminio approntò la sua traduzione latina delle Sette armi spirituali, edita a Bologna nel 1522, si trovò sul tavolo da lavoro un testo steso in una lingua docile alla riscrittura dell'interpres, come se fosse stato sin dalla sua origine predisposto per la futura traslazione nell'idioma della sacralità.

Il breve trattato di Caterina è anche un prezioso contributo alla revisione quattrocentesca di categorie spirituali ormai per tanti aspetti inadeguate a rendere conto della mappa della devozione moderna. Un aspetto importante di questa revisione si coglie pure negli altri scritti della Vigri, in particolare nei diversi Trattati ora editi dalla Serventi. Essi sono rappresentazioni fedeli, pur se talora concisi, di un progetto culturale che intendeva giungere ad una conoscenza integrale del mistero della fede e del dogma attraverso un metodo epistemico di sofisticata complessità. E proprio il linguaggio della mistica medievale offre a Caterina un repertorio di modelli, il cui uso sapiente serve all'autrice per illustrare le dinamiche di tipo intellettuale ("exercicio mentale") che presiedono alla costruzione di un'identità spirituale. Così ad esempio nell'operetta, ammesso che sia attribuibile alla Vigri, che porta l'intestazione Como se pò orare secondo li tri basi de l'amore, in cui la teoria dei tre baci (dei piedi, delle mani e della bocca), ripresa dai Sermones di San Bernardo, viene riproposta in forme aperte a suggestioni innovative, perlopiù commisurate alla mentalità popolare e alle sue peculiari modalità di contemplazione. Chiamata a svolgere un ruolo di mediazione, Caterina compie insomma un'accurata lettura delle fonti più preziose, ma dimensionandola entro un'azione volontariamente pedagogica, se non addirittura epidittica, rivolta all'edificazione spirituale di una società sempre più incline ad atteggiamenti di disincanto o scetticismo.

Un aspetto della fisionomia di Caterina attende ancora di essere indagato con gli strumenti opportuni: si tratta della sua opera di pittrice. Ed è un aspetto tutt'altro che secondario se il Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani le ha dedicato uno spazio non spregevole.3 È, quella di Caterina, una storia straordinaria, che si arricchisce di notizie e dati appena si rispolverino le antiche testimonianze ingiustamente trascurate. Che da giovane avesse imparato, nelle operose officine librarie ferraresi, oltre alla tecnica scrittoria dell'elegante grafia minuscola corsiva, anche l'arte della miniatura, è affermazione ribadita sin dai suoi più antichi biografi, a cominciare da Dionisio Paleotti e dal Mansueti. La Biblioteca Ariostea di Ferrara conserva due breviari miniati da Caterina, mentre un altro codice da lei illuminato si trova a Bologna presso il monastero del Corpus Domini. Se si interrogano i documenti più da vicino non si tarda a riconoscere l'effettiva collocazione di Caterina nella vita culturale del suo tempo, individuando un ruolo professionale rivestito con consapevolezza e serietà, attraverso il quale mettere alla prova le ragioni critiche di una vocazione spirituale affermatasi nel travaglio dell'impulso inventivo. Si capisce come nella prospettiva della Vigri la dimensione della spiritualità sceglieva la via di nuove energie vigorose, da utilizzarsi per dare vita ad una libera circolazione delle idee e delle immagini. Le risonanze metafisiche della rivelazione crescono allora entro un canone iconografico forse un poco angusto, ma di ampia circolazione. Ad avvalorare questo incontro della giovane Caterina con la pittura troviamo la presenza non casuale di Lippo Scannabecchi, figlio di un artista di fama come Dalmasio, attivo a Bologna nel primo decennio del XV secolo e codificatore, sulle orme del padre e di Simone dei Crocifissi, di una maniera alla quale si riallaccerà in varie forme la scuola di pittura felsinea della prima metà del Quattrocento, tramite le realizzazioni di Jacopo di Paolo e Pietro di Giovanni Lianori, rivalutati solo dopo lo splendido saggio di Francesco Arcangeli.4

Nella finzione figurativa Caterina trova un ulteriore strumento espressivo che le consente una rappresentazione dei temi fondamentali del suo umanesimo interiore, sostenuto sempre dalla memoria difensiva della storia religiosa. L'evocazione di figure sacre riferisce un insegnamento mobile e creativo, certo tenuto costantemente sotto stretta sorveglianza, eppure capace di propugnare la necessità di rompere i confini disciplinari delle competenze culturali, nel tentativo di approdare ad una visione unitaria degli esercizi intellettuali, e grazie ad essa allargare la concezione di spiritualità. Caterina vi giunge per tentativi e approssimazioni successive, nella piena integrità di un'abitudine al lavoro interrotto solo dalla preghiera. La regola doveva identificarsi in una disciplina mentale e gestuale, che dava coesione alle premesse ideologiche e alle articolazioni pratiche. La notorietà assunta da Caterina come pittrice nei secoli XV e XVI rappresenta una prova ineludibile del suo dinamismo creativo, messo a frutto senza pregiudizi su fondamenti anche sociali. Ed è significativo che a lei siano state attribuite, nel corso dei secoli, tele e pale d'altare che non le possono appartenere per ovvie ragioni cronologiche o stilistiche, eppure con insistenza vincolate alla figura di Caterina, ormai lontana nel tempo e tuttavia sempre affiorante nel flusso incostante degli eventi. Né sarà da passare sotto silenzio che le opere a lei erroneamente attribuite, tra le quali tele oggi conservate nella Pinacoteca di Bologna e nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, ridanno vigore al contatto positivo con i simboli della tradizione iconologica fruiti ai livelli non culti della società, come si può vedere nei quattro pannelli con sante della Sagrestia di San Giovanni in Bragora di Venezia, o ancora più nel Gesù bambino del Corpus Domini, attribuito secolo dopo secolo alla Vigri, ma in realtà opera di un modesto pittore del Quattrocento. Era dunque, quella di Caterina, una cultura che si proponeva di interpretare la referenzialità dei processi di devozione popolare, secondo una logica non dissimile da quella dei predicatori, alla luce di una struttura spirituale persistente nel tempo.

 

Note

(1) C. Vigri, Le sette armi spirituali, edizione critica a cura di A. Degl'Innocenti, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2000 (Caterina Vigri. La santa e la città, 1); Id., Laudi, trattati e lettere, edizione critica a cura di S. Serventi, Ibid., 2000 (Caterina Vigri. La santa e la città, 2). I due volumi, primi frutti di una collana di testi e studi intitolata a Caterina Vigri, sono stati presentati lo scorso novembre nel corso di una giornata di studi tenutasi nella Sala del Consiglio della Provincia di Bologna, in cui sono intervenuti, in qualità di relatori, Gabriella Zarri ("Caterina Vigri e il convento del Corpus Domini"), Carlo Delcorno ("Caterina Vigri tra lettura e scrittura") e Claudio Leonardi ("La mistica di Caterina Vigri"). È stato un interessante dialogo a più voci sulla cultura religiosa della prima metà del XV secolo, reso ancora più accattivante dal suo collocarsi geograficamente in un'area compresa tra Bologna e Ferrara, terra fortemente intrisa di incipienti linfe umanistiche.

(2) C. Vigri, Laudi, trattati e lettere, cit., p. 95.

(3) Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani dall'XI al XX secolo, XI, Torino, Bolaffi, 1976, p. 332.

(4) Pittura bolognese del '300 in San Giacomo Maggiore, in Il tempio di San Giacomo maggiore in Bologna, Bologna, Officine grafiche poligrafici "il Resto del Carlino", 1967. Più recentemente si veda il saggio di Vera Fortunati in: Eucaristia e vita dal Medioevo ad oggi a Bologna, Bologna, EDB, 1988.

 

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