Rivista "IBC" X, 2002, 2

musei e beni culturali / corrispondenze

Dalla nostra corrispondente di New York il racconto dei possibili inconvenienti di un'alleanza sempre più invocata anche in Italia: quella tra finanziatori privati e musei pubblici.
Pubblico-privato: lezioni americane

Franca Di Valerio
[museologa]

Le controversie riaccese definitivamente dalle determinazioni contenute nell'articolo 22 della legge finanziaria 2002, inerenti la "concessione a soggetti privati dell'intera gestione del servizio concernente la fruizione pubblica dei beni culturali unitamente all'attività di concorso al perseguimento delle finalità di valorizzazione [...] dell'uso dei beni culturali oggetto della concessione", hanno di nuovo riproposto, come archetipo di riferimento per un tale inedito approccio alla gestione del patrimonio culturale in Italia, il cosiddetto "modello privatistico americano" su cui è strutturata l'attività, e dunque l'esistenza, della maggior parte del sistema museale statunitense. Esso viene ritenuto "il migliore dei mondi possibili" che si possa auspicare per la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale (dove ormai "valorizzazione" è chiaramente sinonimo di reddittività economica).

Ma se si provasse a colmare l'ignoranza che aleggia intorno alla storia e alle problematiche che agitano l'universo museale nordamericano, conosciuto solo attraverso reiterati stereotipi ed echeggiati "sentito dire", e se gli inutili pellegrinaggi in questa sponda dell'oceano non si limitassero alla visita alla Statua della Libertà o, ultimamente, alla morbosa curiosità per ground zero, ci si renderebbe conto di quanto complesso e contraddittorio, e non di rado acutamente conflittuale, possa essere il rapporto tra denaro privato e fruizione collettiva del patrimonio culturale, nonostante un contesto di consolidata tradizione in tal senso.

La letteratura in proposito è abbondante (ma a quanto pare poco conosciuta in Italia), e dunque ci limiteremo qui a ricordare sinteticamente come la nascita dei grandi musei americani, specialmente quelli d'arte, sia senza dubbio indissolubilmente connessa a grandi figure di capitalisti filantropi che, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, in un clima di grande impeto di affermazione dell'identità nazionale post Guerra Civile (1861-1865), impegnano le proprie risorse per dare vita ad istituzioni quali il Metropolitan Museum of Art di New York, il Boston Museum of Fine Arts, o il Philadelphia Museum of Art, istituzioni che essi organizzano per essere governate da un consiglio d'amministrazione (board of trustees) e per essere finanziate da fondi privati. Ovviamente John Pierpont Morgan, Henry Clay Frick, William T. Blodget, Charles Long Freer, John H. Hirshhorn - citando solo i nomi a noi più familiari - attraverso le loro donazioni, sia di fondi che di collezioni in senso stretto, perseguivano uno status ed un riconoscimento personale tanto nel presente quanto nella memoria futura del Paese, ormai non piu' "società di frontiera", ma nuovo baluardo della civiltà occidentale.

A queste iniziative private collaborano presto le autorità pubbliche (municipali, statali o federali) che contribuiscono o con l'erogazione di fondi o, più spesso, con la disponibilità di siti o edifici in cui ospitare le collezioni: ad esempio, il comune di New York costruisce, nel pubblico Central Park, l'edificio sede definitiva dal 1879 del Metropolitan Museum, edificio che appartiene alla città ma il cui contenuto (le collezioni) è posseduto e controllato dal consiglio di amministrazione del museo. La istituzione della Smithsonian Institution a Washington, con una legge del Congresso del 1846 che utilizzava un lascito di fondi privato, creava il più grande complesso museale del mondo che comprende, tuttora, i musei nazionali statunitensi. Il Congresso ne elegge tuttora il Board of Regents ed il segretario, e lo finanzia per il 70% del suo bilancio, mentre il resto proviene da finanziamenti privati.

Questa ibridazione pubblico-privato origina conflitti che, come vedremo, arrivano a minare l'attività e la credibilità scientifica delle istituzioni museali coinvolte.

Proseguendo per grandi linee possiamo dire che a questa prima fase di mecenati, conoscitori e collezionisti essi stessi, interessati all'arte per sé, fa seguito, verso la metà del XX secolo, l'ingresso delle grandi società commerciali e finanziarie, per le quali sponsorizzare istituzioni o iniziative culturali pubbliche rappresenta una diversificazione nel conseguimento del profitto. Profitto che in questo caso si realizza in termini di legittimazione e miglioramento della propria immagine, pubblicità e consumo per i propri prodotti: insomma, nel marketing.

Ne è conseguito, e ne consegue, non un pacifico e scontato rispetto dei ruoli, da una parte il museo con la propria autonoma attività e programmazione culturale, e dall'altra lo sponsor che si limita alla donazione, quanto piuttosto una costante e pressante ingerenza di quest'ultimo nella scelta e nell'impostazione delle attività pubbliche e nell'orientamento del museo.

 

Lo confermano, appunto, le vicende che da circa due anni squassano i musei della Smithsonian Institution, da quando nel gennaio del 2000 ne è stato nominato segretario Lawrence Small, un banchiere senza alcuna esperienza in materia di gestione del patrimonio culturale. Primo segretario non accademico nella storia dell'Istituzione, Small ha immediatamente affermato la propria strategia tesa a "modernizzare" e "valorizzare", ossia a sfruttare economicamente (e non è questo che intendono anche i legislatori italiani?), l'eredità della più prestigiosa e significativa istituzione culturale americana. Primo passo: la ridefinizione del ruolo e delle competenze dei direttori di ciascun museo esclusivamente in base alla capacità di raccogliere fondi e portare quanta più gente possibile nelle sale, attività che - come ha puntualizzato uno di quei direttori, Milo Beanch - "procurano una grande soddisfazione personale quando utilizzate per promuovere le collezioni e l'attività di ricerca di un museo, ma che non hanno alcun senso nel contesto museale quando praticate per se stesse".1

Le iniziative promosse da Small per una tale "valorizzazione" si sono concretizzate, oltre che nella proposta di chiudere tre centri di ricerca,2 nell'aggiunta del nome del costruttore californiano Kenneth E. Behring ad entrambi gli ingressi principali del National Museum of American History (NMAH) in cambio di cento milioni di dollari: la denominazione completa del museo è ora "National Museum of American History - Behring Center". Avendo l'uomo d'affari finanziato anche una mostra itinerante sui presidenti americani, il segretario sta addirittura valutando la possibilità di coinvolgere direttamente Behring nella progettazione del nuovo percorso espositivo del NMAH.

La stessa offerta è stata avanzata nel luglio del 2001 alla General Motors: nel medesimo museo, in cambio di una "donazione" di dieci milioni di dollari, il nuovo spazio espositivo dedicato ai trasporti ha assunto la denominazione di "General Motors Hall of Transportation". E per finire, proprio nelle ultime settimane ed in totale sordina, la sala proiezioni dell'Air & Space Museum è stata intitolata alla Lockheed Martin Corporation in cambio di una donazione di dieci milioni di dollari, rimuovendo così il nome del pioniere dell'aviazione Samuel P. Langley al quale era precedentemente dedicata, mentre si sta cercando uno "sponsor" per il planetario, per il momento ancora dedicato ad Albert Einstein.

Ma quello che poi è esploso come "il caso Reynolds" è assolutamente paradigmatico. Catherine Reynolds, una self-made woman multimilionaria, ispirata dall'amico Kenneth Behring, ha espresso l'intenzione di donare trentotto milioni di dollari per realizzare, sempre presso il National Museum of American History, una "Hall of Fame of American Achievers", una mostra permanente costituita dalla presentazione di una serie di biografie relative ad americani di successo, della quale ha già deciso il contenuto (ne devono far parte personaggi come Michael Jordan, Steven Spielberg, Oprah Winfrey, e naturalmente sé stessa) e come deve essere allestita: "Vogliamo avere un ruolo attivo" - ha dichiarato - "e non limitarci solo a firmare assegni". I curatori del museo hanno fermamente replicato che il compito di un museo storico nazionale, e dei suoi curatori, è quello di indagare ed illustrare la complessità e multiformità del passato collettivo ai visitatori, e fornire loro strumenti per riflettere criticamente su di esso, e non celebrare individualità già ampiamente omaggiate dalla società contemporanea. L'epilogo ovvio è stato che, in seguito a questa presa di posizione, quasi tutto l'ammontare della donazione è stato ritirato, dato che la "filosofia" dei curatori era così in contrasto con le vedute personali della Reynolds sulla mostra da finanziare.

Al processo di "modernizzazione" di Small non sono sfuggiti neanche il National Museum of Natural History - costretto tra l'altro a pubblicizzare sulla propria guida l'attività di estrazione del petrolio della Phillips Petroleum Company che prevede trivellazioni nel parco naturale dell'Arctic National Wildlife Refuge, in Alaska (attività al centro di un asprissimo scontro, anche politico, in tutto il Paese) - e nondimeno la rivista dell'Istituzione, "Smithsonian Magazine", il cui numero del giugno 2001 è apparso con la copertina completamente occupata dalla Ford Motor Company, in particolare dalla citazione di alcune frasi del suo presidente Bill Ford sull'attività della società.

Finora questa inedita e completa apertura ai finanziamenti delle grandi corporazioni, la possibilità offerta loro di usare il nome e gli spazi dei musei a scopi commerciali e a beneficio della propria immagine (trasformando la Smithsonian in uno "shopping mall"), nonché l'aver permesso di influenzare sia la natura che il contenuto delle mostre in violazione di principi dell'etica e della pratica museale unanimemente riconosciuti e praticati, hanno prodotto:

- le dimissioni di tre direttori: Robert Fri del National Museum of Natural History, Milo Beanch della Freer Gallery of Art e della Arthur Sackler Gallery (le sezioni di arte orientale ed asiatica della Smithsonian), e Spencer Crew del National Museum of American History;

- due lettere pubbliche al Congresso degli Stati Uniti sottoscritte da studiosi, accademici e curatori di ogni parte del Paese in cui si denuncia la politica del segretario Small e se ne chiede il licenziamento;

- una più che critica campagna stampa riecheggiata nei titoli di tutti i più importanti quotidiani nazionali: History for $ale [Storia in vendita, ndr] sul "Washington Post"; Gifts that can warp a Museum [Donazioni che possono alterare un museo] sul "New York Times"; The Enronification of a museum near you [La "enronificazione" di un museo vicino a voi] sul "Wall Street Journal"; Commercial interruption: Small appears to be selling bits of Smithsonian to top bidder [Interruzione commerciale: sembra che Small stia vendendo pezzi della Smithsonian al miglior offerente] sul "Chicago Tribune"; A heritage for sale [Un patrimonio in vendita] sul "Los Angeles Times".

 

Nemmeno l'archetipo per eccellenza del museo "privato", il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, con le sue filiazioni sparse per il mondo, sembra sfuggire alle distorsioni ed ai condizionamenti insiti nelle donazioni o nelle sponsorizzazioni; anche se in questo caso l'appiattimento dell'attività museale ad una logica commerciale è una politica scientemente perseguita, con buona pace della "promozione e dell'educazione all'arte" affermate al momento della fondazione da Solomon R. stesso.

Sono inequivocabilmente da interpretare in questo senso, ad esempio, la "donazione" di quindici milioni di dollari da parte della Giorgio Armani Spa in concomitanza con la mostra, allestita a cavallo tra 2000 e 2001, che ne ha celebrato l'attività, come pure in precedenza aveva fatto la BMW per la mostra "The Art of the Motorcycle". Mentre la mostra "Brazil: Body and Soul", conclusasi alla fine di maggio e recensita come una delle più brutte e pasticciate mai allestite in un museo newyorkese, è più modestamente funzionale alla promozione dell'ennesima nuova sede, di prossima apertura a Rio de Janeiro.

Tutto questo però non ha impedito al museo, all'inizio del 2002, di licenziare novanta persone e cancellare, o rinviare, le mostre di artisti quali Kasimir Malevich, Douglas Gordon e Matthew Barney. E mentre dalle nostre parti il proliferare di edifici marchiati Guggenheim viene interpretato, con il consueto provincialismo, come il segno di una estrema vitalità culturale, nella madrepatria si chiedono le dimissioni di Thomas Krens, il direttore che da quando ne ha preso la guida, nel 1988, ha trasformato questa prestigiosa istituzione in una sorta di McDonald's, o meglio in un "GuggEnron", come lo ha definito Jerry Saltz in un recente articolo, dall'eloquente titolo La spirale in discesa: il Guggenheim Museum ha toccato il fondo, apparso sul "Village Voice".3

Dopo le due nuove sedi europee di Bilbao (costruita a spese del governo basco) e Berlino (partner la Deutsche Bank), nell'ottobre del 2001 sono stati inaugurati due altri nuovi "musei" a Las Vegas: il Guggenheim Las Vegas ed il Guggenheim Hermitage (una joint venture con l'Hermitage di San Pietroburgo) collocati entrambi all'interno del Venetian Resort Hotel Casino, in un trionfo di finte gondole, finti leoni di San Marco e, dulcis in fundo, una riproduzione ingrandita della scena centrale degli affreschi della Cappella Sistina. "I musei sono in crisi" - aveva dichiarato Krens - "Essi devono esplorare fusioni e acquisizioni e capire i vantaggi del management".4

Si tratterà sicuramente di un limite personale, ma resta oscuro come si possano coniugare le collezioni museali con la paccottiglia dei casinò di Las Vegas, mentre si comprende bene il motivo per cui uno dei punti in discussione il prossimo ottobre al meeting annuale dell'ICOFOM (il comitato per la museologia dell'International Council of Museums) nasca dalla domanda: l'istituzione museale - intesa come istituzione senza scopo di lucro, al servizio del pubblico e del suo sviluppo, aperta al pubblico - sta soccombendo alla "guggenheimizzazione"?

La breve e parziale esemplificazione qui offerta sulle contraddizioni che collidono all'interno del "modello" americano rafforza le perplessità sull'abdicazione pubblica in favore di una gestione "global service" privata, perplessità che non derivano affatto da un pregiudizio ideologico verso il privato in quanto tale, come qualcuno ha risibilmente sostenuto,5 ma dall'analisi di esperienze complesse. Un'analisi che ci invita a riflettere profondamente prima di mettere in gioco il nostro patrimonio culturale: nostro nel senso dell'umanità intera.

 

Note

(1) M. Beanch, Why I Think the Smithsonian is Misguided, "The Washington Post", 27 gennaio 2002.

(2) Si tratta del Centro di restauro e conservazione, il Centro di produzione multimediale, ed il Centro di ricerca del National Zoo.

(3) J. Saltz, Downward Spiral. The Guggenheim Museum Touches Bottom, "The Village Voice", 19 febbraio 2002.

(4) Citato in N. Einreinhofer, The American Art Museum. Elitism and Democracy, London, Leicester University Press, 1997, p. 146.

(5) E. Masiello, Gestione privata dei musei: sperimentare si può, intervento nel sito web del quotidiano "Il Sole 24 Ore" dedicato al forum su beni culturali tra pubblico e privato.

 

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