Rivista "IBC" XI, 2003, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne

Dopo Cesena, Cesenatico, Faenza e Imola, tocca a Rimini concludere le celebrazioni dell'anniversario leonardiano con una mostra sul contesto storico, artistico e scientifico romagnolo tra Quattro e Cinquecento.
Le arti in Romagna al tempo di Cesare Borgia

Pier Giorgio Pasini
[storico dell'arte]

La mostra "Leonardo, Machiavelli, Cesare Borgia. Arte, storia e scienza in Romagna" - organizzata a Rimini, Castel Sismondo, dall'1 marzo al 15 giugno 2003, grazie alla collaborazione tra i Musei di Rimini e l'Associazione culturale Erasmo - chiude un anno di mostre, eventi teatrali e artistici, cicli di conferenze e iniziative didattiche, tutte dedicate al ricordo del passaggio di Leonardo da Vinci in Romagna. Un calendario di celebrazioni progettate e promosse dalle varie Amministrazioni comunali coinvolte (Cesena, Cesenatico, Faenza, Imola e Rimini), con il sostegno e il coordinamento dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (www.ibc.regione.emilia-romagna.it/leonardo/). Per gentile concessione dell'autore e dell'editore, pubblichiamo uno dei testi che compongono il catalogo (Leonardo, Machiavelli, Cesare Borgia. Arte, storia e scienza in Romagna, Roma, De Luca Editore, 2003).


Intorno al 20 settembre del 1502 un illustre cronista cesenate scriveva: "El duca a Imolla stava in festa e gratava el celo con le unghe, insatiabile di regno, e danzava in maschara e schoperto, fortunato, contento e di gran bona voglia; e volea fare a Cesena: palazo, canale, rota, studio... piaza in forteza, agrandare Cesena, fontana in piaza, duchessa, corte a Cesena, fare el porto Cesenatico et finalmente farse re de Toschana et poi imperator de Roma con castello santo Angello". Il cronista è Giuliano Fantaguzzi; con questo passo - giustamente tante volte citato - ci dà un compendio esatto dei progetti di governo e di conquista, di breve e di lunga durata, di Cesare Borgia all'inizio dell'autunno del 1502; inoltre, registrando la sua soddisfazione per come andavano le cose ("gratava el celo con le unghe"), ne sottolinea un aspetto importante della personalità e della psicologia ("insatiabile di regno"). Ma subito dopo ci sorprende, "contraddicendosi, con un'aggiunta apparentemente del tutto ingiustificata: "ma, non abiando bene ferma la rota, de' volta e trabucollo col capo di sotta che prima". Se non si tratta di un'interpolazione, questa considerazione ha davvero del profetico. Non è comunque casuale, perché nella riga successiva ritorna lo stesso tema: "A di 6 de otobre grandissimo infortunio ocorse al duca Valentino che la rota de' volta e getollo al fondo e Dio, mostrando la potentia sua, lo fece commo la ciucha sparere".

Da cosa il cesenate - disincantato e perspicace e curioso quasi come Nicolò Machiavelli, che in quei giorni stava osservando da vicino le vicende romagnole, ma assai più preoccupato di lui - arguisse che già fra il settembre e l'ottobre del 1502 la ruota della fortuna del Valentino stava "dando di volta", non sappiamo: forse in Romagna cominciavano a circolare voci sinistre sul "tradimento" di alcuni condottieri (Vitellozzo Vitelli, Gian Paolo Baglioni, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini) e sulle prime ribellioni delle genti urbinati; il 6 di ottobre (data della seconda notazione del cronista) è esattamente il giorno in cui la fortezza di San Leo veniva tolta al Valentino dai fautori del ritorno di Guidolbaldo da Montefeltro nei suoi stati: e questo potrebbe essere "l'infortunio" a cui si riferisce il cronista. Ma era ancora presto per prevedere il tracollo del duca, che arrivò solo un anno dopo, e improvvisamente, e per un'altra ragione: la morte di Alessandro VI, come a suo tempo lo stesso cronista ebbe a registrare: "Alesandro papa VI questo anno [1503] a di 18 de d'agosto morì, fo atosicato inseme con lo cardinale da le Brette el quale moritte. E la Rota del Duca comenzò a calar giuso al basso".

La preoccupata attenzione del cesenate per ciò che avveniva al Valentino (anzi alla sua "fortuna") era giustificata; infatti tra le città romagnole Cesena era la più degna e la più sicura di diventare la capitale del suo futuro stabile dominio, perché mentre Imola, Forlì e Rimini potevano essere rivendicate dai loro vecchi signori, essa era già da diversi decenni libera, cioè sotto il diretto governo del pontefice, e il duca ne aveva ricevuto una regolarissima, legalissima investitura a vicario. Naturale, dunque, che i cesenati fossero lusingati da una promessa non esplicita, ma preannunciata dalla logica dei fatti, di ritrovarsi come città capitale con una corte fastosa e autorevole; e naturale che temessero di perdere una sorta di futuro predominio su un territorio assai più vasto di quello dominato dal loro ultimo, veneratissimo signore, Malatesta Novello.

Comunque gli ultimi tre mesi di quel 1502 furono gli ultimi (e forse i più esaltanti) mesi romagnoli del Valentino, pendolare fra Imola e Cesena, apparentemente occupato in feste e balli, in realtà impegnato in complessi e faticosi maneggi politici e militari e in saggi provvedimenti annonari, amministrativi e giudiziari, questi culminati nel breve processo al suo primo ministro e governatore Ramirro de Lorqua (Ramigero dall'Orca, storpiavano i forlivesi), "esemplarmente" giustiziato a Cesena proprio il giorno di natale. Con la sua corte lasciò Cesena il 26 di dicembre; il 28 era già nelle Marche a compiere le prime vendette contro i condottieri traditori; ben presto si dirigerà verso la Toscana e, malvolentieri, verso Roma, chiamato dall'insistenza del padre pontefice. In Romagna era atteso dopo qualche mese; non tornò più.


L'unica cosa che lasciava dietro di sé in Romagna, insieme a molti progetti e a qualche ammodernamento alle strutture viarie delle città e delle rocche che si andavano fortificando "alla franciosa", era la nostalgia per il suo governo. Più di un secolo e mezzo dopo uno storico forlivese (si tratta di Sigismondo Marchesi, nel 1678) riconosceva che "passavano sotto il dominio d'un solo Signore assai meglio le cose di Romagna". Il Valentino era apparso e si era dileguato come una meteora, paurosa e fulgida. Non c'era stato tempo per una vera, reciproca conoscenza; ma sembra che alla Romagna il Valentino fosse piaciuto.

Anche al Valentino la Romagna era piaciuta, forse più per la pronta adesione e la cordialità dei suoi abitanti che per il resto. L'aveva trovata divisa, mal governata, dilaniata da fazioni e sostanzialmente povera, stretta com'era fra potenze ben più grandi (Milano, e soprattutto Firenze e Venezia) che la concupivano insidiandola e soffocandola; e povera, se non di risorse, di strutture e di ingegni, con città modeste, diroccate e inquiete, e in alcuni periodi affamate. Era modesta, naturalmente, anche per quanto riguarda la vita culturale e artistica, che le piccole corti - più per mancanza di mezzi che per avarizia - negli ultimi cinquant'anni non avevano potuto alimentare in maniera adeguata.

I pochi mesi romagnoli del Valentino sono stati in massima parte mesi di conquista, di guerra guerreggiata, durante la quale poco poteva importare della cultura e dell'arte; gli artisti e i letterati servono a guerra conclusa per giustificare le conquiste, per far dimenticare le necessarie crudeltà e le immancabili ingiustizie, per esaltare il vincitore. Certo il Valentino non si occupò d'arte, che non fosse bellica, in quei mesi, anche se al suo seguito stava per giungere un grande artista: Leonardo da Vinci, però assoldato in veste di ingegnere e non di artista, soprattutto perché suggerisse come rendere atte alla guerra moderna le arcaiche difese delle città conquistate e come realizzare macchine belliche efficaci. Conosciamo la patente rilasciata a Leonardo dal Valentino (il 18 agosto 1502), ma non conosciamo le intenzioni di questo nei confronti dell'ingegnere-artista una volta realizzato il suo sogno di conquista ("re di Toschana et poi imperator de Roma"?) e consolidato e ordinato il suo dominio; poteva anche aver pensato, se non promesso, per lui un ruolo di pittore e di "animatore" di corte, analogo a quello già sostenuto a Milano.

Il duca era tutt'altro che un condottiero incolto solo "instancabile di regno". Più che il fatto di avere ingaggiato come ingegnere Leonardo, ce la dice lunga su questo punto la breve annotazione del cronista cesenate, quando afferma che nel suo programma c'era anche l'intenzione di fare "studio" a Cesena. Del resto doveva essere sensibile ai richiami della cultura: aveva compiuto felicemente i suoi studi a Perugia e a Pisa, aveva molto letto e molto viaggiato, e aveva molto visto soprattutto a Roma, dove aveva passato i migliori anni della sua vita prima come figlio di un cardinale importante, poi come cardinale egli stesso, e infine come figlio prediletto del pontefice; dunque molte delle iniziative artistiche romane erano nate e cresciute sotto i suoi occhi attenti. A Roma la renovatio di Sisto IV non si era certo conclusa con la morte di quel pontefice, ma aveva dato impulso ad altre sistemazioni urbanistiche e fornito l'occasione per altre grandi imprese architettoniche e artistiche; Antonio da Sangallo e il giovane Bramante avevano già cominciato a dare la loro impronta al linguaggio artistico romano, avviato alla conquista di forme sempre più robuste, più solide e imponenti; e anche Michelangelo si era già affacciato sulla scena artistica romana con un'opera eccezionale, la Pietà per San Pietro (finita nel 1499). In quegli anni di fine secolo la cappella Sistina ostentava sulle pareti, ancora nuovi, i dipinti dei maggiori artisti italiani; e molte chiese romane sfoggiavano nuovissimi affreschi di Melozzo da Forlì, di Antoniazzo Romano e del Pinturicchio; e Santa Maria Maggiore un nuovo superbo soffitto, dorato con il primo oro giunto dalle Americhe.

In Vaticano, anzi nell'appartamento del padre, il Valentino deve aver visto e ammirato particolarmente, avendone seguito direttamente i lavori tra il 1492 e il 1495, le pareti e i soffitti fioriti di sontuosi ornati e di gentili figure ad opera del Pinturicchio e della sua squadra di pittori. Soprattutto sulla ricchezza decorativa e sulle seducenti, esotiche narrazioni di quei dipinti si deve essere formato il gusto del Valentino; di cui conosciamo un solo intervento in favore di un pittore (il Pinturicchio appunto) e una grande e costante attenzione per tutte le forme di eleganza. Raffinati e gentili per molti aspetti, come quando era un affascinante giovane cardinale, rimasero i suoi modi anche dopo l'improvvisa metamorfosi in condottiero energico e spietato; un condottiero che, come già il cardinale, amò sempre l'eleganza e il lusso, le donne belle, gli animali belli, le cose belle.


Certo in Romagna trovava ben poco del clima artistico di Roma e delle bellezze artistiche romane, e anche ben poche opere moderne di una qualche importanza. In Romagna solo i Riario-Sforza avevano lavorato bene, almeno nel campo dell'urbanistica e dell'architettura civile e militare, ma perché dietro a loro c'era stato un grande papa (Sisto IV). A chi veniva dall'Urbe alla fine del secolo comunque dovevano sembrare decisamente modeste e acerbe anche le pur eleganti architetture imolesi che riecheggiavano blandamente motivi toscani, chiaramente percepibili anche nella biblioteca malatestiana di Cesena, orgoglio del convento francescano e di tutta la città. E doveva sembrare strana e forse un po' pretenziosa a Rimini l'incompiuta, marmorea chiesa di San Francesco (il Tempio malatestiano), all'esterno composta da elementi dell'antichità assemblati e miniaturizzati, e all'interno decorata con troppa elegante minuzia e senz'ordine; se ebbe occasione di visitarla, il Valentino vi avrà riconosciuto facilmente gli stessi temi che Alessandro VI aveva scelto per la decorazione del suo appartamento privato in Vaticano: le sibille, le virtù, i segni zodiacali, le arti liberali.

Anche a Faenza, città tanto desiderata e tanto difficile da conquistare, la cattedrale voluta dai Manfredi era ancora incompiuta, ma con la sua solenne selva di colonne e la sua chiara copertura a volte già destava più di un commento ammirativo: di architettura "soda" ed elegante, armoniosa e solenne, era una chiesa di tutto rispetto, di un gusto moderno che sarebbe andato a genio anche a Sua Santità. Ma soprattutto a Forlì, la città dell'aspra Caterina, il Valentino trovava un po' dell'aria romana che aveva respirato fin da giovane. Forlì era una città di mattoni, certo, come tutte le altre di Romagna e come tutte le altre città padane, e non di marmi e pietre come Roma; e inoltre mostrava ancora, come Cesena, i danni del rovinoso terremoto del 1483; aveva una rocca ben architettata come quella imolese, e una nuova cattedrale (ancora una volta incompiuta) di gusto toscano come quella faentina; ma soprattutto aveva molti dipinti moderni in cui si sentiva ancora viva l'eredità di Melozzo, il pictor papalis che era stato il maestro dei pittori romani.

Melozzo era morto da pochi anni, e la sua città conservava ben poco di lui. Però vi lavoravano alcuni pittori che ne avevano sentito l'influsso e si vantavano di averne raccolto l'eredità, come Marco Palmezzano: che era nel fiore della maturità artistica, e stava completando in cattedrale un ciclo di affreschi e in studio alcune tavole destinate alla vicina Castrocaro e alla lontana Matelica. Nella periferica chiesa di San Girolamo risplendevano i suoi affreschi della cappella Feo, da poco compiuti sotto la guida di Melozzo su commissione di Caterina Sforza: sontuosi, ingegnosi, eleganti, degni di una cappella papale. Certo il Palmezzano, pittore e architetto, non aveva la solennità di Melozzo, né la gentilezza del Pinturicchio, ma una tavolozza festevole e una diligente capacità di tirare in prospettiva ornate architetture e di aprire squarci luminosi di paesaggio; era anche un minuzioso decoratore e forse un buon ritrattista. Alla fine del secolo si poteva sperare che più avanti negli anni quel tanto di meccanico, di arcaico e provinciale che permaneva nelle sue composizioni si sarebbe sciolto, magari a contatto con i veneti: che premevano anche culturalmente e artisticamente dalla costa e dal ravennate, dove erano saldamente insediati, e che avevano già inviato a Forlì opere di Bartolomeo Vivarini e di un allievo di Giovanni Bellini, Nicolò Rondinelli. Quest'ultimo era di Ravenna, dove operavano diversi pittori locali quasi tutti di formazione e cultura veneta, intraprendenti e attivi in tutta la Romagna.

Rimini aveva una rocca poderosa e un'unica bella chiesa, entrambe dovute alla munificenza malatestiana di mezzo secolo prima; per il resto era povera e decadente, forse più per il cattivo governo degli ultimi Malatesti che per gli esiti del recente terremoto. Dal punto di vista pittorico era quasi una colonia veneta: soprattutto vi operava, insieme ai figli, Benedetto di Bartolomeo Coda. Pittore di Treviso, alunno di Giovanni Bellini come molti pittori romagnoli, il Coda era artista modesto e di poca fantasia, ma duttile: frescante, figurista e decoratore, alla bisogna anche scultore, anzi modellatore, e stava conquistandosi una bella fetta di mercato fra Romagna e Marche.

Contrariamente a quella veneta la pittura toscana non aveva lasciato grandi opere nelle città romagnole; qualcosa di interessante esisteva nei paesi dell'Appennino, dove forte era la pressione politica fiorentina, e a Rimini (la bella pala malatestiana del Ghirlandaio), ma soprattutto a Faenza, dove aveva lungamente operato con successo il fiorentino Biagio d'Antonio e dove Giovanni Battista Bertucci ne continuava i modi con maggior dolcezza e pienezza, tenendo conto degli esiti migliori del Pinturicchio. Che forse ebbe ad interessare anche la modesta, gracile pittura di Antonio Aleotti, detto l'Argenta, che cercava di incrociare asprezze ferraresi con dolcezze umbre e con eleganze bolognesi, unico artista degno di qualche piccola considerazione in quegli anni a Cesena.

Le "voci" pittoriche romagnole erano parecchie, e tutte diverse l'una dall'altra; ma confuse, di scarso rilievo e di scarsa originalità, anche quelle attive più o meno stabilmente lontano dalla regione, soprattutto nel bolognese, nel Veneto e in Lombardia.

Il Valentino - è giusto ripeterlo e sottolinearlo - nei suoi brevi e movimentati mesi romagnoli non ebbe assolutamente modo di occuparsi d'arte e quindi di servirsi degli artisti locali; né, tanto meno, ebbe il tempo di "posare" per qualche artista romagnolo. I ritratti in cui un tempo si ravvisava la sua immagine sono tutti spuri e tardi, anche quello già attribuito al Palmezzano nella Pinacoteca di Forlì: suggestivo, ma improbabile anche come ritratto postumo. Commissionò certo labari e insegne, frettolosamente dipinte nelle botteghe locali per le necessità dell'esercito, ma non ebbe nemmeno il tempo di sostituire gli stemmi in pietra dei precedenti signori sulle fortezze conquistate, tranne che in due casi: a Forlì, nella rocca difesa con tanto coraggio da Caterina Sforza, dove a testimonianza e a ricordo del sudore e del sangue che gli era costata la conquista volle che subito "sulla cortina di fuori" fosse "incastrata la sua arme in marmo con queste lettere sotto, che ancor vi sono: C. BORGIA DE FRANCIA / VALENT. ROMANDIOLEQ./ DVCIS AC S. R. E. CONFA./ ET CAP. GENERALIS " (Marchesi); e a Cesena, sulla piazza maggiore, in sostituzione di una targa di Paolo III, per ammonire alla pazienza la popolazione turbata dalle prepotenze delle soldatesche: "L'arma de Papa Paulo molto sontuosa... fo guasta questo anno [1500] del mese de otobre in Cesena che era sopra la porta de la Murata del palazo del signore, e fatolli l'arma del signor duca de Valentino granda de spesa de ducati 30 d'oro e fo doluta assai", ci tramanda il solito cronista.


Durante il periodo dell'occupazione del Valentino si avverte come una stasi nelle commissioni artistiche romagnole: come una sospensione da parte degli eventuali committenti e degli artisti in attesa di chiarimenti, come una diffidenza per un governo senza radici e quindi senza garanzie di stabilità. La troppo rapida conquista non aveva convinto del tutto, e forse era troppo evidente la dipendenza della fortuna del duca dalla vita del suo ultra settantenne padre pontefice.

Certo si continuò a lavorare in alcuni cantieri che erano già a buon punto. Però di imprese artistiche nuove, di una certa rilevanza s'intende, fra il 1500 e il 1503 non pare ne siano state iniziate. Un po' in tutte le città romagnole si registrano quasi solo o soprattutto modeste fondazioni di cappelle votive e funerarie e di nuovi sepolcri; doveva essere funeraria anche la cappella costruita nel 1500 nella chiesa dei frati dell'Osservanza di Cesena dall'ormai anziano Maltosello Malatesti, un bastardo dell'ultimo signore di Pesaro, già pupillo ed erede di Malatesta Novello.

In quanto al conquistatore, dovettero cominciare presto ad arrivargli sollecitazioni e importune richieste di finanziamenti e di sussidi per restaurare e abbellire le chiese della zona; del resto era regola che il signore promuovesse nuove opere, o vi collaborasse finanziariamente; ma il duca non era certo disposto, né pronto, a trasformarsi in mecenate, anche perché il pagamento degli stipendi alle truppe, gli apprestamenti bellici e l'ammodernamento delle difese delle città e delle rocche conquistate già impegnavano duramente le sue finanze e quelle del pontefice. Certo non fu lui ad assumersi la commissione e il pagamento delle perdute pitture che ornarono nel 1503 alcuni edifici pubblici di Cesena ("la sala granda a corte e loco per la rota e consiglio"), unico intervento noto che potrebbe in qualche modo essergli riferito.

Però qualcosa poteva fare come figlio del pontefice: convincere il padre a concedere indulgenze che fruttassero quattrini da utilizzare per il completamento o per il restauro delle chiese romagnole. E infatti nel 1502 ne ottenne per la chiesa dei francescani riminesi, che così poterono iniziare la costruzione di un'abside più dignitosa; e soprattutto ne ottenne per Imola, Forlì e Cesena con un giubileo straordinario che temporaneamente estendeva alla Romagna le indulgenze dell'anno santo di Roma: graziosa concessione pubblicata nell'aprile del 1500 e motivata, secondo il cronista Giuliano Fantaguzzi, "per li beneficii fatti al duca Valentino suo fiolo nella oppressione della città de Imolla e Forlì, et adi 23 d'aprile [a Cesena ...] intrò el perdono e Jubileo per 15 giorni de colpa e pena plenario liberante li pecatori da la pena del purgatorio".

Lo stesso cronista cesenate tira le somme economiche di quel giubileo per la città di Cesena: "El Vescovato fece de contanti libbre 625 et credenze libbre 300, de cera libbre 10; santo Augustino fece de contante libbre 300, de cera libbre 10; li Servi fece contanti libbre 484 credenze libbre 402, de cera libbre 10; san Francesco fece contanti libbre 485 credenze libbre 300, et in cera libbre 40, che fonno insomma libbre 3432". Una cifra cospicua, che diede lavoro e pane a non pochi braccianti e artigiani e artefici, e che permise di riattare gli edifici sacri più importanti della città e rimettere in moto il meccanismo delle committenze artistiche. Ma all'alba del giorno di santo Stefano del 1502, quando il Valentino montò sul suo cavallo bianco per imboccare la strada delle Marche, non se ne erano ancora visti i frutti. E pochi ne videro anche i suoi governatori nei dieci mesi successivi, gli ultimi del suo effimero dominio. Toccò al suo grande avversario Giulio II raccoglierli, dopo aver cancellato o abbattuto parecchi Leoni di San Marco nel frattempo disseminati in molte zone della Romagna dai Veneziani, ed essersi definitivamente sbarazzato dei piccoli signori che pretendevano di rientrare nei loro vecchi possedimenti.

Intanto, insensibili a tanti rivolgimenti e chiusi in pratiche di bottega presto antiquate, Marco Palmezzano a Forlì, Benedetto Coda a Rimini, Antonio Aleotti a Cesena continuavano a dipingere le loro tavole festosamente ornate per le confraternite e i conventi, e per i nobili locali (soprattutto per le loro vedove) che avevano ripreso la bella tradizione - sospesa durante il breve governo del Valentino - dei reciproci ammazzamenti.

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