Rivista "IBC" XI, 2003, 4

territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / immagini, interventi, pubblicazioni

Gli stemmi delle città esprimono per immagini il desiderio e la sostanza dell'identità che unisce i cittadini: un volume pubblicato dal Consiglio regionale e dall'IBC raccoglie il patrimonio araldico dell'Emilia-Romagna.
Il primo linguaggio di una cittadinanza

Omar Calabrese
[docente di Semiotica delle arti all'Università di Siena]

Da Gli stemmi dei Comuni e delle Province dell'Emilia-Romagna - pubblicazione ideata e promossa dalla Presidenza del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, realizzata dall'Istituto regionale per i beni culturali con i tipi dell'Editrice Compositori di Bologna, e coordinata sotto il profilo scientifico da Alessandro Savorelli, ricercatore universitario alla Scuola Normale Superiore di Pisa - abbiamo tratto il saggio di uno degli esperti invitati a inquadrare l'araldica dal punto di vista storico, letterario, sociologico e artistico. Il volume raccoglie gli stemmi di tutti i Comuni divisi per provincia, appositamente ridisegnati con uno stile omogeneo secondo i dettami delle blasonature contenute nei decreti ufficiali (riportate in appendice, insieme alla bibliografia).

 

Chissà se al giorno d'oggi il tifoso di una squadra di calcio si rende ancora conto dello spessore storico e culturale che spesso si cela dietro il simbolo della propria squadra, e se riesce a capire il significato - per carità, magari del tutto posticcio - che si crea con la combinazione di colori, figure geometriche, sintassi topologica, icone figurative che compaiono in quello stemma. È probabile che quel tifoso nemmeno si ponga la questione, e che lo "legga" globalmente come un rinvio astratto all'oggetto della sua passione sportiva. Esattamente come gli capita per il logo di un'azienda, per il marchio di un prodotto commerciale, per l'insegna di un negozio o di una banca, per il segno politico sul quale mette la croce alle elezioni, e magari per l'intestazione del suo Comune di residenza, o della sua Provincia, o della sua Regione.

Le cose, invece, sono molto più complesse di quanto l'uomo contemporaneo - in questo senso forse malato di alfabetizzazione e di cultura verbale - non creda. Perfino nell'araldica moderna, anche in quella più banalizzata, si nasconde infatti una "scrittura visiva" densa di contenuto, illeggibile per il profano e spesso poco decifrabile per l'esperto, ma che affonda le sue radici nella storia. Con una paradossale funzione inversa: che un tempo quella medesima "scrittura visiva" era comprensibile agli illetterati, e anzi a volte costruita proprio per loro. Recita, ad esempio, Gregorio Magno addirittura a proposito di tutte le immagini: "Pictura quasi scriptura [...] ut hi qui litteras nesciunt, saltem in parietibus videndo legant quae legere in Codicibus non valent" ("La pittura è una specie di scrittura, fatta perché coloro che non sanno di lettere, a volte guardando sulle pareti leggano quel che non riescono a leggere nei Codici", Epistulae, l. IV, ep. III). Il visivo, insomma, viene convenzionalizzato dalla cultura medievale per compiere una funzione comunicativa che è tipica del linguaggio, coi suoi segni arbitrari e immotivati. Gregorio Magno, certo, esagerava un po' nella sua concezione antiestetica, pedagogica e rigidamente segnica delle immagini. Non sbagliava, tuttavia, nel pensare che molte delle rappresentazioni iconiche vigenti nella sua epoca (ma ovviamente anche nel mondo classico, che le aveva inventate) servissero da abbecedario per la vita civile e materiale della popolazione.

D'altronde, si trattava di uno strumento fondamentale per la rinascita della vita associata dopo il periodo di frammentazione immediatamente succeduto alla fine dell'Impero Romano. Era con le immagini, infatti, che si potevano perseguire i fini del riconoscimento reciproco di appartenenza (casata, città, compagnia militare o religiosa, corporazione, eccetera), dell'affermazione di giurisprudenza (il segno del comando e della legge), dello stabilirsi della legalità (sigilli e moneta): tutto ciò che costituisce un ordine sociale. Ne fa fede il testo regolativo più autorevole della cultura medievale, risalente addirittura all'VIII secolo, i Libri Carolini, sive Caroli Magni capitulare de imaginibus (siamo attorno al 794), che prescrive gli usi anche laici della raffigurazione, anche se, come nel caso di Gregorio Magno, ci troviamo alle prese con la generalità delle rappresentazioni visive, e all'interno di una tematica particolare, quella della risposta occidentale all'iconoclastia bizantina. Rimane, tuttavia, il fatto che vengono sancite una volta per tutte le linee direttrici di una funzione comunicativa del visivo con forti connotazioni sociali. Non è un caso, in conclusione, che l'araldica (nobiliare, religiosa, laica-cittadina, e persino commerciale) si affermi con il Sacro Romano Impero, e si consolidi fra l'XI e il XIII secolo, con le Crociate prima e con il periodo comunale poi.

Come si è detto, si tratta di una pratica che ha origine nel mondo classico, e addirittura nelle civiltà dell'Oriente antico, e, aggiungiamo, si avvale di strumenti molto sofisticati come quelli della retorica e della simbolica. Il Medioevo, tuttavia, consolida le sue leggi, e le fa diventare una grammatica e una sintassi. Nel senso, cioè, che la forma dello stemma è considerata il contenitore nel quale è possibile "scrivere" delle icone (tratte da una lista finita di segni), collocate in certe posizioni (anch'esse scelte all'interno di un paradigma), dotate di connettori astratti (barre, strisce, circoli, eccetera) e valorizzate da colori (anche questi selezionati da un rigido paradigma iniziale di sette fondamentali). Quelle che chiamiamo "icone" sono selezionate a partire da un principio interessante ancora una volta dal punto di vista linguistico. L'immagine - che per sua natura è polisemica - si riduce a simbolo: è un'unità del piano dell'espressione che corrisponde a una sola unità del piano del contenuto, e pertanto diventa inequivoca. Si possono, tutt'al più, costruire immagini complesse mediante la combinatoria di più simboli, e in questo caso l'immagine finisce col somigliare a una proposizione, ma l'interpretazione rimane certa (ovviamente, qualora si conoscano le correlazioni espressione/contenuto di ciascuna figura). I già citati Libri carolini, in questo senso, raccomandavano l'inserimento, sopra o sotto le raffigurazioni, di tituli o subscriptiones, e questa pratica permane anche nell'araldica, ad esempio con l'inserimento di parole o frasi, che progressivamente diventeranno motti.

Quest'ultima osservazione ci dice che l'aspetto linguistico dell'araldica, dunque, non si conclude nell'elaborazione di un sistema di segni. Il significato viene esso pure articolato secondo schemi precisi - potremmo quasi dire secondo una semantica - che sono inizialmente più semplici (ad esempio, le figure zoomorfe e fitomorfe esprimono un contenuto prestabilito dai bestiari e dagli erbari medievali), e si fanno sempre più complessi col trascorrere del tempo, fino a diventare configurazioni esplicitamente enigmistiche, magari con la combinazione con motti verbali destinati a completare (o complicare, secondo il gusto vigente) l'originario segno visivo. La semantica dell'araldica, insomma, è un effetto di stile, esattamente come accade nella lingua poetica. Alois Riegl (Stilfragen, Berlin, 1893) ha per primo elaborato una teoria, ancor oggi abbastanza soddisfacente, del processo che conduce alle sue stilizzazioni bloccate. In una prima fase, alcune figure valgono come simboli, allegorie o come metafore stereotipate, e si riproducono con alta variabilità formale pur nella fissità del contenuto. In seguito, esse assumono, come si è detto, una funzione di riconoscimento condiviso e di conferma di legalità. Devono essere, pertanto, ripetibili all'infinito e senza possibilità di errore: anche la forma espressiva, pertanto, si cristallizza, e le varianti individuali si riducono enormemente.

Il medesimo destino accomuna in questo senso gli stemmi, gli emblemi, le imprese, le divise, i sigilli, le bandiere, gli stendardi e le monete. Un esempio assai significativo di questo "destino comune" può essere trovato nel famoso affresco di Simone Martini a Siena, la Maestà, realizzato nel Palazzo Pubblico come grande affermazione del potere cittadino, che nella cornice e nella figurazione presenta, insieme, la balzana senese (stemma del Comune), il grosso (la moneta), l'emblema del Capitano del Popolo, e l'insegna della Casa d'Angiò (alleanza di riferimento per la Repubblica). Tutti quei segni hanno un conio, un corso legale, regolamenti di produzione, sanzioni contro la falsificazione. Il loro valore simbolico si è fatto valore economico e giuridico, e durerà per l'intera storia dell'Occidente. La proposizione di uno stemma - ancora oggi - dipende del resto da una "concessione", autorizzata da un'istituzione alla quale si fa universalmente riferimento: lo stato, una confederazione di stati, un organismo sovranazionale. Perfino i marchi di fabbrica, e addirittura i nomi dei prodotti, seguono la medesima regola: devono essere accettati come "originali" da un registro internazionale al quale un richiedente chiede l'accettazione e il riconoscimento.

Ma torniamo, adesso, alla branca che più ci interessa dell'araldica, quella politica e sociale, quella che riguarda gli stemmi delle organizzazioni civili. Se ne osserviamo bene la struttura, vediamo che il loro significato ha una formazione particolare, più semplice - se vogliamo - di quello delle famiglie o delle casate o delle associazioni religiose, ma al tempo stesso più specifico. La semplicità dipende dal fatto, già segnalato, che lo stemma ha un valore giuridico, la sua produzione deve essere pertanto seriale ma non falsificabile, e la sua interpretazione immediata, efficace, non ambigua. La specificità concerne, invece, il fatto che l'origine dei simbolismi che lo compongono richiama un sapere condiviso e accettato da una popolazione, coincide con la sua identità. In altri termini, uno stemma esprime una serie di concetti collegati in rete fra loro, e gli conferiscono un potere di rappresentazione della comunità di riferimento. È una sorta di "enciclopedia" locale delle conoscenze civili che uniscono i singoli individui appartenenti a quell'organismo. Parte di queste conoscenze riguardano spesso l'origine, storica o leggendaria, di una città. Storica: le mura, le porte, le torri, ad esempio. Leggendaria: la derivazione celeste, o la formazione d'epoca romana, sempre fra le molte possibili. Un'altra parte ha spesso a che vedere con un sistema di valori di riferimento, che possono essere le virtù, la fede, l'orgoglio, la forza. Si possono aggiungere anche elementi più propriamente politici, come l'ordinamento repubblicano o l'appartenenza imperiale o quella religiosa. Ci si può riferire ad alleanze militari, o a imprese decisive compiute nella storia. Insomma, il "valore" giuridico ed economico (il simbolo "vale per" qualcos'altro) si accompagna al "valore" interpretativo (il simbolo ha una sua "validità" di contenuto altamente condivisa).

Entrambi i valori sono determinanti per capire le maniere con cui gli stemmi si evolvono nel tempo. Non deve apparire contraddittorio il principio dell'evoluzione rispetto a quanto accennato in precedenza sulla loro replicabilità e fissità. Infatti, i mutamenti sono lenti nel corso del tempo, e dipendono soltanto dal fatto che uno dei due "valori" suddetti vada ad esaurimento e consunzione. Per cominciare, soffermiamoci sull'aspetto astratto del valore giuridico. La variazione del simbolo si rende necessaria proprio perché questo valore si indebolisce: circolano ad esempio falsificazioni troppo frequenti; il costo e le tecniche di produzione dei materiali di supporto divengono eccessivi; si rende necessaria una semplificazione stilistica per l'avvento di nuovi supporti (l'introduzione della carta stampata, ad esempio); e così via. È chiaro che, in questa direzione, le variazioni sono soprattutto ornamentali e formali. Più radicali, invece, sono quelle che derivano dalla vera e propria perdita di significato dello stemma. Può avvenire, ad esempio, che alcune delle sue parti siano inattuali in una determinata situazione storica (la trasformazione del Regno d'Italia in Repubblica Italiana ha ad esempio comportato l'eliminazione, per chi l'avesse, dei richiami monarchici). Altrimenti, può essersi talmente perduta la memoria di un certo segno allegorico che questo appare desueto, e va sostituito con qualcosa di più universale per la mentalità di una popolazione. La prima serie di varianti dipende, pertanto, dalla necessità di mantenere la garanzia del valore astratto del simbolo da parte del potere che ne esercita il governo. La seconda serie, invece, va fatta risalire alla necessità di mantenere saldo il pacchetto dei contenuti condivisi all'interno di una comunità, e all'esterno, nel rapporto con altre istituzioni di appartenenza. Il principio comune è per l'appunto il concetto di garanzia, che, d'altronde, è il fondamento stesso di un'idea di cittadinanza, e che risale addirittura alla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele.

Non resta che avviarsi, adesso, alla conclusione. Riaffermando che il contenuto degli stemmi cittadini e delle altre organizzazioni civili (araldica sociale) è un elemento decisivo per la comprensione di due fenomeni importantissimi. Il primo è quello della funzione della comunicazione pubblica, che prende le sue mosse da segni minuscoli come quelli che stiamo trattando, ma che già in questi dimostra quanto sia forte e motivato il legame che deve stabilirsi fra cittadini e governo della cosa pubblica, e quanto esso dipenda dalla corretta conoscenza di questa che battezzerei col nome di "grammatica sociale". Infatti, il governo della cosa pubblica si assume il compito di fornire, anche simbolicamente, le garanzie di cittadinanza, e i cittadini quello di riconoscersi in quelle garanzie. Il tutto avviene per mezzo di un linguaggio preciso, forse l'unico che, nel campo delle immagini, abbia propriamente il diritto ad assumere questo termine in maniera non metaforica.

Il secondo fenomeno è quello dell'identità sociale. Se assumiamo come valida la distinzione posta dagli psicologi cognitivi fra gruppo e comunità, dovremo infatti dire che un gruppo si instaura quando individui con valori diversi si riconoscono in interessi comuni; una comunità quando individui con interessi diversi si riconoscono in valori comuni. Una città (ma anche una provincia, una regione, una nazione, un organismo sovranazionale) è per sua stessa natura una comunità. Come tale, deve allora essere capace di comunicare - anche qui: fin dai dettagli minimi, come il proprio simbolo - l'insieme dei valori che la sorreggono, e che sono riconosciuti da tutti gli appartenenti come base identitaria sociale. Che questo fenomeno funzioni è un fatto certo, soprattutto in un Paese come l'Italia, che con troppa superficialità viene anche detto il Paese dei Campanili. Nell'attaccamento al campanile, infatti, si cela una storia civile profonda e di lontanissima origine, rimasta quasi intatta nella "genetica" culturale italiana. Forse è per questo che il tifoso, inconsapevole ahimè dell'aspetto positivo che sta esprimendo, arriva a battersi - incivilmente - per l'affermazione del simbolo della propria squadra (non per nulla coincidente quasi sempre con quello della propria città). Forse è per questo che l'abolizione delle targhe automobilistiche con la sigla urbana è stato un fatto traumatico per gli italiani, tanto che si è stati costretti e reinserirla al lato delle nuove sigle convenzionali. Il desiderio di identità deve insomma avere i suoi simboli, ovviamente accanto alla sostanza di quella identità. Il vero problema è, insomma, insegnarla, come in questo volume della Regione Emilia-Romagna si tenta di fare esemplarmente. I cittadini, per natura desiderosi di essere cittadini, devono sapere come e perché sono cittadini.

 

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