Rivista "IBC" XII, 2004, 2
musei e beni culturali / progetti e realizzazioni, storie e personaggi
Il 17 aprile 2004, sulle colline parmensi, si sono riaperte al pubblico le porte del Museo di Ettore Guatelli. Erano chiuse da quattro anni, da quando era scomparso l'uomo che aveva dedicato gran parte della sua vita a raccogliere le storie e le testimonianze materiali della sua terra, fino a fare della sua casa un misterioso "bosco delle cose", popolato da più di sessantamila oggetti, molti dei quali disposti ad arte in ogni stanza e su ogni parete. Tornano dunque a rivivere, negli occhi e nelle mani dei visitatori, la camera delle scarpe, quella dei giocattoli, quella delle scatole, quella dei vetri, quella degli orologi...
La gestione è oggi affidata alla Fondazione appositamente creata (fondatori: Provincia di Parma, Comune di Collecchio, Comune di Fornovo, Comune di Sala Baganza, Fondazione Monte di Parma, Università di Parma) con la quale, per l'accoglienza del pubblico, collabora l'Associazione Amici di Ettore Guatelli. Tra i frutti di questa gestione, oltre alla riapertura, ci sono i progetti che mirano ad aprire ulteriormente gli orizzonti del museo: il coinvolgimento del Teatro delle Briciole nell'esperienza dei visitatori, per accompagnarli nel loro atto di guardare gli oggetti e di fotografarli; la sinergia con i parchi regionali del Taro e dei Boschi di Carrega, con un programma comune di iniziative a tema: dalla cura della terra all'arte del pane. Per informazioni sulle visite al museo (che si trova in Via Nazionale 130 a Ozzano Taro, Collecchio - Parma) ci si può rivolgere alla Fondazione (telefono: 0521333601; e-mail: [email protected]). Da non perdere, prima o dopo la visita, una navigazione nel documentatissimo sito web: www.museoguatelli.it.
A noi di "IBC", che abbiamo ascoltato i racconti di Ettore Guatelli dalla sua viva voce, che con lui abbiamo condiviso l'intento di metterli su carta nel volume La coda della gatta, e che sulla rivista abbiamo seguito le varie fasi della rinascita del museo, piace festeggiare a modo nostro questo evento. Pubblicando uno scritto inedito che risale al luglio del 1978, quando Guatelli organizzava nel Castello di Bardi una mostra intitolata: "L'arte di arrangiarsi. Ammaestratori d'animali per spettacoli: testimonianze degli emigranti dell'Appennino Parmense". Ringraziamo ancora una volta Ettore per avercelo affidato, e sua figlia Annalice per averci autorizzato a pubblicarlo.
Reclamizzare una località con gli spettacoli nei castelli, come fa l'Ente
provinciale per il turismo, perché almeno per l'occasione vi sia chiamata
gente che altrimenti non sognerebbe di andarci, a tanti potrebbe anche sembrare
interesse soltanto di pochi albergatori ed esercenti. Ma se il conoscersi è
prima condizione per capirsi e quindi rispettarsi, se non proprio per amarsi, il
farsi conoscere, assieme alle nostre cose, risponde a un elementare bisogno
umano che si può facilmente capire riflettendo al piacere che si prova nel
mostrare la nostra casa, i nostri campi, i nostri mobili e, naturalmente di più
i nostri figli, specialmente se dalla persona che chiamiamo a dare un giudizio
sulle nostre cose otteniamo un consenso che l'amore che abbiamo per esse ci fa
sperare di avere. [...] Così per Bardi si è scelto uno spettacolo di clown, che
fanno parte della tradizione circense, cioè dei circhi. O comunque degli
artisti e dei giocolieri viaggianti, di piazza, in relazione anche al fatto che
figli di Bardi si erano dati a questi spettacoli portandoli in tutta Europa,
dalla Russia alla Finlandia e Scandinavia, alla Germania, all'Ungheria, alla
Francia, all'Inghilterra, fino in Turchia e in Egitto. Perché, allora, in
relazione allo spettacolo "chiama gente", non allestire anche una
mostra che, minima, carente, incompleta, affrettata e perciò anche senza
presunzione, dia l'idea di questi artisti modesti o grandi che (dopo una
parentesi di quasi irrisione, per via del cinema e della facilità di vita) oggi
si amerebbe tanto di rivedere?
Nella lunghissima e mai terminata ricerca di oggetti che documentano le condizioni e l'ingegno della gente del nostro Appennino, era capitato di avere dal signor Corti Giuseppe di Cavignaga quasi tutta l'attrezzatura da lui utilizzata come ammaestratore di scimmie fino al 1939, anno in cui a causa della guerra cessa quasi per tutti l'attività, anche per quelli che, pur giovani, come lui, avrebbero potuto continuarla. Disporre questi oggetti, didascalizzati magari anche in maniera sbagliata, purché divertente, fa sorridere, da spettatori, le persone in visita. Ma i Bardigiani (e i Bedoniesi che con Bardi dividono il primato di addetti ai lavori) nipoti e figli dei protagonisti, che conservano le memorie dei loro avi, con quella modestia propria di coloro per cui è naturale ciò che per noi è straordinario, che cosa avrebbero detto?
Nella ricerca di documenti, ricordi, fotografie, memorie e aneddoti, a intuizioni e a fatti si aggiungono comprensione e certezze che tendono a spostare l'accento dalla storiella e dalle notizie sulle scimmie, alle condizioni del tempo e dei luoghi, alla personalità, al carattere degli stessi protagonisti, che si fanno considerare più per la motivazione che li ha spinti ad arrangiarsi, che, si direbbe, al modo, all'estrosità, pur importantissimi, con cui lo facevano. E dovevano farlo. Con godimento, con piacere trascinante e giovanile, da clown, come è il caso di Bruzzi da Bruzzi, di Musile Tanzi da Pellegrino, di Vaccari da Dogara ecc.; o con rassegnata necessità, come Giuseppe Corti, che a ogni volta, prima dell'esibizione in pubblico, doveva vincere la timidezza con un Martini.
Gente che non si dava per vinta, come Bruzzi che, mortagli la scimmietta intelligentissima, e non riuscendogli di ammaestrarne un'altra, testarda, a ogni inverno tornava in Spagna, con "il battello a vela che per otto giorni avanzava, per il vento in favore, e per gli altri otto tornava indietro" per quello contrario, e così ci impiegava un mese e andava a suonare la piva fino a quando si è sposato, poi ha continuato a casa, in occasione dei matrimoni, fin tanto che è stato vecchio e ha avuto fiato. E non si è arreso neanche allora, come dice la figlia, che non faceva più niente, come lei adesso, ma fabbricava continuamente strumenti-giocattolo a fiato, che suonava per i bambini o glieli faceva suonare, lasciando in loro un ricordo di gioia di vivere, di gaiezza, che non sempre si associano a quell'età. O come Basini da Boccolo, che già vecchio, per aiutare il figlio in difficoltà, a 70 anni tornò in Inghilterra a far ballare la scimmia da solo, spedendo a casa abbastanza da permettere una vita senza miseria al figlio e ai nipoti. Dovette andarlo a prendere il figlio, perché si era ammalato e morì a casa di un colpo, più che ottantenne, qualche anno dopo. Il nipote c'è ancora, e il pronipote, Antonio, commercia di legna e carbone.
A Cavignaga i Corti son tanti che per distinguerli ancor oggi adoperano soprannomi. Di ammaestratori di animali o suonatori ambulanti ce ne erano tanti, ma quelli di cui siamo in grado di dare qualche notizia sono della stirpe "Zanòn" (da "Giovanni", in francese "Jean, Janòn"), perché Giuseppe e Camillo sono ancora viventi e parlano volentieri della loro vita, e ci han dato tanto materiale e fotografie. Il loro padre, Bartolomeo, figlio appunto di Giovanni, classe 1878, nato in Francia e morto a Bedonia nel 1960, non si curava di animali ma, come si autodefinisce anche in quella cartolina che lo ritrae a Losanna quale "uomo orchestra" con 7 strumenti che suona da solo, faceva "l'artista di musica" (musik Künstler) e, dice suo figlio Camillo, sapeva trar soldi dai sassi: lui che suonava tutto a orecchio prestava soldi ai professori di musica.
Sapeva lavorare per dodici e più ore filate, quando era il momento, e non si dava mai per vinto, ma sapeva anche godersi la vita e stare poi in baracca per giorni sia all'estero che quando tornava. A questo proposito gli amici ne raccontano una che a Bedonia è diventata un detto. Fra amici di emigrazione e di lavoro si trovavano spesso a far baracca nei bar, che però a una certa ora chiudevano. Corti era solito portarli allora a casa sua e continuare la festa fino al mattino, offrendo vino e salumi serviti da tutti in famiglia, la madre e i ragazzi, chiamati dal letto a collaborare. Una volta a un compagno scappò detto che la prossima volta si sarebbe andati a casa sua. E Bartolomeo: "Ma sei sicuro di poterlo fare?" - "Certo!". Quando quello si azzardò a chiamarla dal letto, la moglie si affacciò e dalla finestra gli gridò: "Vagabondi, poco di buono, andatevene a letto: cosa fate a quest'ora?". E Corti faceto: "Vedo che a casa tua..." - "Ce l'ho fatta con orsi e con scimmie ma in casa non ce l'ho fatta" fece l'altro salvandosi con prontezza.
A Bartolomeo, grazie anche e soprattutto alla gentilezza del figlio Camillo che ci ha generosamente donato tanta documentazione, abbiamo dedicato nella mostra un certo spazio. Lo vediamo nella foto, davanti al suo albergo del Cervo a Losanna con Camillo quattordicenne, prima di lasciare la Svizzera, chiamato dalla prima guerra in Italia, poi, definitivamente artista col suo "taca banda", sempre distinto e lucido, elegante e pulito, che nemmeno dai grandi alberghi avevano il coraggio di mandarlo via, anzi, spesso eran locali a ingaggiarlo, ma lui preferiva essere libero. Camillo ha fatto per molti anni l'artista di piazza con le scimmie. "Nel 1925 avevamo un camioncino Ford col solo chassis su cui abbiamo costruito il vagone, la carovana. Poi vi abbiamo attaccato dietro la roulotte. E si girava dappertutto, specialmente la Francia, la Germania e la Svizzera". Aveva persino tentato di chiudersi sotto il tendone, e far pagare il biglietto, spendendo molti soldi per attrezzarsi. Faceva il giro di dimostrazione con le scimmie, ma la gente diffidava: credeva che poi dentro non avrebbe visto niente. Doveva poi aspettare ore prima di raggiungere un certo numero di persone; in più doveva pagare i diritti di autori ed editori e fu un fiasco. Ma smise subito e riprese all'aperto. Ha avuto persino 25 scimmie ammaestrate. E lo faceva lui stesso.
Era facile. Andavano trattate bene; ci volevano tempo e pazienza, bisognava dar loro soddisfazione, non picchiarle, che altrimenti smettevano anche il già appreso, ma non agivano per affetto. Per tema, più che altro. Conoscevano, sì, ma sono animali: non sono come il cane. Gli dai sempre da mangiare e per forza ti conoscono. Ma non si affezionano. Una mi ha odiato per tanto, perché dopo tanti giorni mi son deciso a strapparle il figlio che si portava dietro e che posava qua e là malgrado fosse morto da giorni e bisognava vedere come era cattiva! Quando son tornato, per la guerra, avevo 15 scimmie. Per un po' attraverso la Protezione degli animali ho avuto le tessere per il mangiare, poi mi hanno scritto che anche loro a causa della scarsità del cibo erano stati costretti a ucciderne.Qualcuna l'ho data a Taddei di Masanti, "Tencio", a cui, se vede, si era bucato un occhio a causa di una scheggia di capsula sparata da un fucile piccolo, ma che caricavano come quelli veri, a salve, e che poi ho dovuto sostituire con quelli a tappo anch'io. Ma ad altri, di scimmie non son riuscito a darne, e ho dovuto ucciderle. Si immagina, dopo che per tanti anni mi avevano dato da mangiare? Non si può capire il dispiacere. Ho riprovato dopo la guerra a prenderne tre, a Milano, ma venivano dall'Africa, e non erano acclimate come quelle che nascevano qui. Intanto, nate come erano in libertà, era difficilissimo addestrarle. "Ma che vuole costui da noi?" sembrava che ti dicessero. Poi, per un po' d'aria appena che prendono, si sono ammalate, e sono morte.
Non ne ho più prese, e così ho rinunciato a tutto. Gli attrezzi? Lasciati lì, i ragazzi ci han giocato e li han dispersi. Come gli strumenti che, prestati per i carnevali, non son più tornati indietro e chissà che fine hanno fatto: si sa come sono i giovani.
Nella mostra si vedranno parecchie foto di Camillo e delle sue scimmie. Ci ha dato anche alcune cose riguardanti i Bernabò, che avevano un circo, e che in
Turchia avevano persino avuto la medaglia dal Sultano. Erano poi stati
sfortunati per incendi e rotture del telone, da dover cedere, in Inghilterra, il
circo a un amatore che a sua volta non ebbe fortuna. Giuseppe Corti ci ha dato
tutto il materiale che vediamo qui, o la gran parte. Lui ha fatto il mestiere
fino al 1938, rimpatriando dalla Francia e tornandovi per prendere l'attrezzatura
nel 1946, con l'idea mai realizzata di ritornare al mestiere. Era più timido
di Camillo e doveva prendere un Martini prima di iniziare lo spettacolo.
Un gran centro di gente dello spettacolo viaggiante è Isola di Compiano. Ci sono ancora i Maggi con giostre ecc. che per San Giuseppe vengono ancora alla fiera a Parma. Il signor Ferrari, orefice di Bedonia, ma residente a Isola, ha degli antenati che facevano il mestiere e molte delle foto che vedremo in un pannello saranno sue: non le abbiamo ancora viste e ce le ha promesse per sabato, assieme a documenti, passaporti, lettere. Molti si addomesticavano da soli le scimmie o gli altri animali, come cavalli, cammelli (a Masanti i cammelli riportati a casa allo scoppio della guerra si sono estinti per vecchiaia), cani, pappagalli, orsi (a Carniglia c'è ancora la stanza ove ne tenevano chiuso uno), volpi, capre (che però spesso si tiravan dietro anche per aver latte per i ragazzi), serpenti (che però si limitavano a mostrare), ecc. Ma altri li davano a educare durante l'inverno, quando tornavano dall'estero.
E a Dogara, famosissimi, c'erano i Rossi, veramente bravi, a detta di tutti. L'ultraottantenne Conti da Careseto ricorda che si pagavano 20 lire per ogni gioco insegnato a una scimmia. Dietro la stalla ove si ammaestravano, un sentiero in salita portava fino a livello di una finestra e suo fratello, da piccolo, si divertiva a distrarre le scimmie che così non stavano al comando, facendo irritare l'ammaestratore, che poi finiva per accorgersi del ragazzo. C'erano solitari e c'era gente che, specialmente per suonare, si aggregava, ognuno con uno strumento diverso. A meno che fossero, come Corti, l'uomo orchestra, quello che secondo alcuni poteva suonare persino 14 strumenti da solo: Corti, però, ne suonava 7.
Musile Tanzi Angelo, da Pellegrino, era figlio del Bsòn ("pesone, pesatore") cioè colui che pesava la legna dei mulattieri che, venendo dall'Alta Val Taro (Borgotaro e Bedonia) in file di chilometri, passavano dalla sua osteria per portare il carbone dalla stazione di Fidenza e intanto gli facevano pesare anche il carico. Traevano dalla sua pesata una certezza che li faceva capaci di contestare anche l'eventuale "mal pesata" del compratore, sapendo il Bsòn di Pellegrino robustissimo e risoluto, capace di difendere i suoi clienti. Angelo, comunque, non si sa come abbia intrapreso la carriera del suonatore ambulante. Faceva l'uomo orchestra e, a detta dei suoi figli viventi, come si vede dalle foto, aveva anche campanelli attaccati ai pantaloni, lungo tutta la gamba, e gli strumenti erano sicuramente più di 7. Era un uomo straordinario, la cui storia potete leggere in parte su un numero della "Gazzetta" del 1961, esposto assieme a tante foto di Helsinky, di sua suocera, di lui con la fidanzata, poi con la sposa finnica e il figlio neonato, infine del padrino italiano Calabresi, naturalizzato finnico, titolare di una pelletteria e fotografato, come si usa in Finlandia, nel giorno del suo compleanno, con dietro tutti i ritratti dei propri cari. Musile era il vero clown: lo ricordano tutti a Fornovo, capace di intrattenere, a quasi 90 anni, prima dell'incidente che lo porterà a morire nel 1971.
Altro personaggio vivo ed eccezionale - "distinto, signore" come dice la nuora - è stato Vaccari da Dogara, che parlava il russo, il polacco, il francese e il tedesco. Quest'ultimo così bene che persino gli israeliti rifugiati in una frazioncina del Bardigiano sono andati durante l'ultima guerra a parlare, a conversare con lui. E durante un memorabile rastrellamento, riuscì a farsi ascoltare da un crudelissimo e violento comandante tedesco, mitigandone qualche proposito. Il nipote, trentenne, ricorda che talvolta a Dogara si incontravano il nonno e dei Rossi, e li sentiva parlare in una lingua che presume slava, ma che non può ricordare vagamente per l'età che aveva allora.
Di notizie così ce ne sarebbero all'infinito, come infiniti erano i modi di arrangiarsi. C'era persino chi andava per le osterie, dove c'era un po' di gente, a vendere le pere cotte, tenute in caldo in un recipiente di rame a intercapedine, dentro cui c'era un fornellino con le bracia. Gli animali erano talvolta per attirare gente a cui vendere specialmente roba di maglierie e chincaglieria (i "magliari" in sostanza). Noi in mostra abbiamo anche alcuni pezzi di un prestigiatore, trovati da un amico al quale ci eravamo rivolti per avere documentazione e attrezzature di gente dello spettacolo. Non ci risulta, anche se non abbiamo chiesto, che nella nostra vallata ci fosse qualcuno che lo facesse quel mestiere. La nostra è gente più atta al genuino, al popolare e schietto spettacolo, che alle finezze illusorie che sanno di imbroglio.
Durante queste ricerche due considerazioni mi hanno particolarmente colpito. Un giovane amico, venuto a trovarmi e vedendo quelle magnifiche casette con intorno poderi e vigne pur piccoli, a metà di quella spalliera una volta sponda del Taro, fra Ozzano e Gaiano, preso da ammirazione mi ha detto: "Non c'è un poderetto a misura di cristiano che vendano da queste parti? Guarda che meraviglia! Dice il proverbio: sfortunato l'uccello che nasce in cattiva vallata. Da noi questa roba non viene!". Eppure si ama anche la "cattiva vallata"! Vaccari da Dogara, ora a Castione, in un poderetto già dei suoi nonni e comprato coi soldi guadagnati all'estero ("A Castione, su cento poderi, trenta saranno di gente di Bardi, Bedonia e Borgotaro") mi diceva: "Tutti a Dogara andavano all'estero. E di miseria là non ce n'era. S'arrangiavano tutti. Si andava a fare di tutto. Specialmente a vendere".
E noi di pianura che spesso diciamo: "Son gente da soldi, da quelle parti!". Sappiamo come sono stati capaci di farseli, anzi di metterseli da parte quei pochi che poi non sono serviti per "fare i signori", ma per comprarsi un pezzo di terra meno ingrato, che rendesse il sudore con cui lo lavoravano?! Eppure la "cattiva vallata", come dice il proverbio, resta sempre la nostra vallata, la nostra terra e giù, spesso, fra la pur buona terra, ci si sente ancora "degli altri", un po'. Anche dopo trent'anni. È anche perché ci si conosce male? Noi, salvo questa presentazione e qualche indicazione a volte probabile a volte certa, non ci sentiamo di dire altro su questi uomini: vorremmo che foste voi, figli, nipoti, amici, vicini o comunque abbiate conosciuto qualcuno di questi protagonisti: vi lasciamo carta e matita: scriveteci il vostro indirizzo e se credete che lo possiamo fare verremo a raccogliere le testimonianze, anche minime, per completare quello che abbiamo e tirarci fuori qualcosa di insolito, originale, vero. E che serva a conoscerci di più, a farci sentire più vicini, sempre meno "degli altri".
Abbiamo esposto alcuni strumenti musicali: se non tutti da spettacolo, chi ce li ha dati, non sappiamo con quali vere ragioni, ci ha assicurato che per tali li ha avuti. Molti sono stati raccolti nella nostra vallata. Se qualcuno li riconosce, parlo dei fatti a mano da chi li usava, come l'arpa e le due chitarre grezze, ci dica per favore chi li ha fatti e per che cosa li ha fatti. Noi, oltre a cercare di rendervi consapevoli dell'orgoglio con il quale dovete considerare questi frutti dell'estrosità e dell'ingegno della nostra gente, cerchiamo di capire gli oggetti stessi, e attraverso di essi, voi, noi, la nostra gente, la nostra civiltà. Per farla capire agli altri, per farci capire di più dagli altri, ripetiamo. E vi chiediamo scusa per quello che non abbiamo fatto o saputo fare, e per quello che eventualmente abbiamo detto o fatto e può dispiacervi. Per noi è un piacere dover dire grazie a tanta gente simpatica, civile, cordiale, gentilissima e consapevole, che ci ha aiutato tanto a trovar notizie e materiale su questa mostra: sarebbe un non piacere esservi dispiaciuti. Se credete in quel che diciamo in queste righe e in quel che abbiamo fatto e facciamo, aiutateci: vogliamo solo notizie, documentazione per essere meno imprecisi, per far meno sorridere o ridere chi trova eventuali involontarie inesattezze.
Ringraziare è dovere a cui si può sempre rinunciare se il farlo non fosse esigenza di gratitudine verso coloro che hanno promosso, permesso, collaborato. Un ringraziamento particolare al signor Marino Marini da Ravenna per le belle e inedite fotografie gentilmente prestate; al signor Mezzetta e a Don Duilio di San Quirico d'Albareto per la xilografia di musa; ai parenti e agli amici degli "orsandi" come qualcuno chiama chi fa ballare l'orso: ma come li chiamavate veramente? Se lo sapete ditecelo. C'è chi dice che non avevano un vero nome, e si diceva soltanto "quelli che fan ballare le scimmie e l'orso". Ma c'è chi crede di ricordare un termine che non affiora però alla memoria.
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