Rivista "IBC" XII, 2004, 2

Dossier: Rappresentare la storia - Musei e contemporaneità

musei e beni culturali, dossier /

Il racconto del Risorgimento

Massimo Baioni
[docente di Storia contemporanea all'Università di Siena, sede di Arezzo]

In una lettera del 14 novembre 1891 Francesco Crispi scriveva: "Il richiamare dunque le origini della rivoluzione, vale richiamare la ragione della nostra esistenza. Noi non abbiamo altre tradizioni. L'unità ha la vita di 20 anni e la monarchia di 30 anni. L'una e l'altra sono giovani ed i governi che si sono succeduti dal 1860 in poi nulla hanno fatto per rendere forte e rispettata l'unità, gloriosa la monarchia".

Crispi, la cui adesione alla monarchia coesisteva con l'abito mentale mazziniano e garibaldino nel quale si era formato, dava voce all'urgenza di definire una coscienza unitaria che al Risorgimento guardasse come al mito fondativo dello stato nazionale. In realtà da oltre un decennio l'assillante imperativo del "fare gli italiani" era stato riempito di sforzi finalizzati a nobilitare il nuovo Stato anche sul piano simbolico. Dopo l'ascesa della Sinistra storica al governo (1876), la scomparsa di Vittorio Emanuele II (1878) e di Garibaldi (1882), si era fatta più consapevole l'esigenza di dare sostanza a un'identità nazionale in grado di superare i particolarismi e i localismi ereditati dal passato. In concomitanza di alcuni mutamenti rilevanti nella vita del paese (nuova legge elettorale, trasformismo, crisi economica, polemica antiparlamentare), l'appello alla memoria del Risorgimento diventò un dato sempre più frequente nel dibattito politico e culturale, amplificato dai circuiti della scuola e dell'esercito (si pensi al successo di Cuore). Dai monumenti alla toponomastica urbana, dalle commemorazioni patriottiche alle ricorrenze festive, il periodo delle lotte per l'indipendenza fu proiettato in una dimensione mitica, il cui originario impianto rigidamente dinastico lasciava ora spazio a una nuova oleografia di tipo "conciliatorista": l'immagine ecumenica dei padri della patria raffigurati "a braccetto" nel cammino verso l'Unità fungeva da simbolo di ricomposizione delle divisioni, agevolando la saldatura tra gli intenti celebrativi e i propositi di educazione nazionale.

Non è dunque casuale che in quegli anni il "racconto" dell'epopea risorgimentale fosse trasposto anche sul piano della rappresentazione museale. L'Esposizione nazionale di Torino del 1884 costituì il punto di partenza. La grande mostra storica allestita al suo interno rivelò le potenzialità connesse all'esibizione pubblica di documenti e cimeli e ne incentivò la raccolta sistematica. Le amministrazioni municipali di alcune città italiane, spalleggiate da società di reduci, sodalizi massonici, eruditi, promossero l'istituzione di propri musei del Risorgimento, vanificando sul nascere l'ambizione torinese di allestire nell'ex capitale del regno un unico grande museo nazionale. Con queste istituzioni la costruzione del mito risorgimentale si arricchiva di un nuovo e originale strumento: ne risultarono dilatate le potenzialità "pedagogiche" dell'immaginario risorgimentale (il Museo di Milano toccò punte di oltre centomila visitatori annui) e al tempo stesso si inasprì la contesa che divideva gli schieramenti politici di fronte alla lettura del passato recente e alla sua funzione nel presente.

Sin dalle sue origini l'operazione museale nasceva con alcuni tratti specifici: una distribuzione geografica nettamente sbilanciata nelle città del Nord (tra cui Torino, Milano, Bologna, Modena, Brescia, Pavia, Mantova, Ferrara, Udine), con qualche ramificazione al Centro (Firenze, Macerata) e l'assenza pressoché totale al Sud, dove il primo vero museo del Risorgimento sarebbe stato inaugurato a Palermo nel 1918; lo stretto legame con gli orientamenti politici dei settori della società locale che con più passione si erano battuti per la formazione del museo (a parte Torino e Milano, in provincia la spinta dominante venne soprattutto dagli ambienti del liberalismo democratico, radicale e massonico, che trasferirono sui musei forti accenti laici e anticlericali); la convinzione che i musei fossero parte integrante di un arredo urbano attraversato da un reticolo di richiami al Risorgimento, inteso quale deposito dei valori primari della nazione; lo scontro inevitabile con gli ambienti del cattolicesimo intransigente, che colsero la sfida insita nelle tante manifestazioni di "religiosità laica" su cui si reggevano la costruzione del mito risorgimentale e l'occupazione simbolica degli spazi urbani. Insidie doppiamente seducenti, in quanto affidate a registri di comunicazione che attingevano al modello collaudato dei riti e delle liturgie propri della Chiesa cattolica; nel caso degli allestimenti museali l'esibizione di reliquie laiche e il ricorso alla categoria del "martirologio" patriottico miravano infatti a suggerire un accostamento al Risorgimento di tipo essenzialmente sentimentale, in grado di destare rispetto religioso, venerazione, spirito di emulazione verso il sacrificio consumatosi nei campi di battaglia.

Era un'ottica che rispondeva in pieno alle sollecitazioni dei politici liberali più attenti alla funzione dei cerimoniali e all'estetica della politica: riferendosi al grande pellegrinaggio romano al Pantheon tenutosi nel 1884 nel sesto anniversario della morte di Vittorio Emanuele II, Cesare Correnti aveva avvertito che tali solennità "se non parlano ai sensi ed insieme al cuore sono una facchinata e una fanfullata". Non sorprende che fosse anzitutto l'epica garibaldina ad essere vestita di linguaggi e di rappresentazioni imbevuti di quel pathos religioso che meglio si adattava alle finalità del culto laico: Garibaldi diventò il "santo laico" per eccellenza, sia che fosse visto nella chiave moderata del "rivoluzionario disciplinato" (Depretis) sia che restasse il campione della polemica antimonarchica e democratica nei rituali e nelle liturgie dell'universo repubblicano (e in parte poi anche di quello socialista).

Il Risorgimento - la storia contemporanea dell'epoca - entrava dunque nelle sale dei musei sull'onda di una pressante esigenza di educazione nazionale, che conferiva loro quella fisionomia di templi laici del patriottismo destinata a segnare per lungo tempo le strategie espositive. "È una questione di sentimento", replicò significativamente Lodovico Corio (il direttore del museo di Milano) a quanti, intervenendo nel 1906 al primo congresso di storia del Risorgimento, avevano criticato l'assenza di rigore scientifico e la disorganicità degli allestimenti. Tale approccio sentimentale e "drammatico" alla rappresentazione museale della storia riassumeva la posizione prevalente all'epoca: è infatti probabile che il visitatore medio, poco o nulla sensibile ai richiami alla maggiore sobrietà scientifica, finisse per rovesciare in positivo l'immagine icastica del museo come "bottega di rigattiere" o "santuario di pinzocchere" (secondo la definizione di Alessandro Luzio). Quasi trent'anni dopo, nel 1934, Antonio Monti, il più autorevole esponente della museologia storica durante il ventennio fascista, avrebbe constatato la longevità di una filosofia espositiva che valorizzava, "sub specie di cimeli, i capelli, le unghie, i frammenti di ossa, i sigari fumati per metà da patrioti, le bende insanguinate, le divise costellate di buchi prodotti dalle tarme, ma che al pubblico si lascia volentieri credere siano stati prodotti dalla mitraglia nemica, i cappelli di Garibaldi forati da palle che non hanno mai colpito l'Eroe alla testa, i letti dove dormirono i loro sonni agitati o placidi i grandi uomini del Risorgimento"; e così via, in una galleria infinita di varianti più o meno colorite.

Nei primi due decenni del Novecento i musei continuarono a respirare il clima agitato della lotta politica e culturale: mentre il revisionismo storiografico sfiorò appena il loro impianto, più significativi furono gli effetti della contesa sulla memoria del Risorgimento, che si arricchì di nuove declinazioni. Il mondo cattolico, in un clima di crescenti alleanze con il liberalismo moderato, cominciò a rileggere in termini più sfumati e non più integralmente antagonistici la storia nazionale: e una visione del Risorgimento sempre più disancorata dal suo contesto ottocentesco fu proposta dal nuovo movimento nazionalista, secondo il quale il mito mazziniano e giobertiano della "missione" imponeva all'Italia mete di grandezza e di espansione imperiale. La guerra in Libia del 1911, coincidendo con i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario dell'Unità, amplificò l'immagine di un legame "necessario" tra Risorgimento e colonialismo: immagine che fu legittimata e rilanciata anche da alcuni musei, nelle cui sale i cimeli africani andarono a integrarsi con quelli delle lotte per l'indipendenza.

In realtà, privilegiando la chiave di lettura della "continuità', si inaugurava una tendenza destinata a caratterizzare per un lungo periodo la rappresentazione museale della storia italiana contemporanea. Nel 1915 i musei furono in prima fila nell'esaltare l'intervento dell'Italia come sbocco fatale delle guerre del Risorgimento: i musei di Genova e di Bergamo, inaugurati rispettivamente nel 1915 e nel 1917, fecero della congiunzione tra passato e presente, scandita dal topos della lotta al "secolare nemico" austriaco, il tratto dominante della loro identità. Ed è oltremodo significativo che nel dopoguerra, tranne rare eccezioni (tra cui quella importante di Rovereto), alla costituzione di specifici musei dedicati alla Grande guerra fosse preferita l'apertura di nuove sale nel tracciato consolidato dei musei del Risorgimento. Il fascismo stesso, condannando l'incapacità dell'"Italietta" liberale di realizzare l'integrazione delle masse nello stato nazionale, volle presentarsi quale coronamento e inveramento del Risorgimento (si pensi alle opere di Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe). L'immagine del legame Risorgimento-guerra-fascismo poté contare sull'apporto fornito dai manuali scolastici, da una vasta pubblicistica storica e dal controllo totale dei mezzi di comunicazione di massa: va precisato però che il richiamo al Risorgimento fu vissuto in modo tutt'altro che univoco, riflettendo le diverse posizioni interne alla cultura fascista. Se un robusto filone puntò a enfatizzare il ruolo centrale del Piemonte (la storiografia sabaudofascista), ci fu anche chi cercò di recuperare nel Risorgimento "minoritario" ed eretico quei tratti che potevano prefigurare le istanze sociali dello stato corporativo. Non mancarono inoltre gli sforzi volti a rimarcare l'originalità assoluta del fascismo e la sua "modernità" di esperienza politica, le cui radici non andavano oltre la Grande guerra: la Mostra della Rivoluzione fascista del 1932 costituì la "messa in scena" più eclatante di questa autorappresentazione modernista del fascismo, in larga parte debitrice di matrici futuriste.

Il clamoroso successo della Mostra (quasi quattro milioni di visitatori in due anni) rianimò il dibattito sulle forme della rappresentazione storica, sollevando il problema dell'ammodernamento - estetico e politico - dei musei del Risorgimento. In realtà il loro allineamento alla revisione fascista della storia non fu automatico né scontato, risultando infine condizionato dalle diverse realtà geografiche e dagli equilibri politici locali. Il Museo nazionale del Risorgimento di Torino, riallestito nel 1938 nella prestigiosa sede di Palazzo Carignano, fu il laboratorio della rappresentazione sabaudo-fascista voluta dal quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento); altrove invece le sollecitazioni che venivano da Roma, tra cui quella che puntava ad imporre la periodizzazione 1706-1918 cara a De Vecchi, entravano in rapporto con una serie di variabili locali, che ne rendevano più sfumata e incerta l'applicazione. La persistenza delle tradizioni risorgimentali municipali, il prestigio e l'attivismo dei singoli direttori, la carenza endemica di sedi adeguate e di risorse economiche: tutto ciò poteva contribuire a lasciare molti musei nelle condizioni originarie, con il risultato di farne talvolta luoghi di resistenza "inerziale" alle più invadenti esasperazioni nazionalistiche della cultura fascista.

In effetti, superata la drammatica fase della guerra civile del 1943-1945, che fu combattuta accanitamente anche sul piano dei simboli e delle immagini della storia patria, bastò eliminare dalle sale i tributi più ingombranti al regime per riportare i musei al centro di un uso pubblico della storia ridefinito in chiave democratica e repubblicana. La tesi della continuità rifece capolino attraverso l'interpretazione della Resistenza come "secondo Risorgimento". L'innesto dell'esperienza partigiana nel solco democratico della storia patria, e al tempo stesso l'esaltazione della sua più ampia base sociale, fu una grande risorsa simbolica nell'impegnativa ricostruzione dell'idea di patria e di nazione. Si trattò di un'operazione giocata su più livelli, che rispondeva a molteplici obiettivi e che si inserì in una competizione dai toni anche molti aspri, come risultò poi evidente nel corso delle celebrazioni del centenario del 1848. I partiti di sinistra, proseguendo una revisione avviata già nel corso degli anni Trenta, puntavano a legittimare la loro identità di movimenti pienamente inscritti nella storia nazionale: di qui il largo ricorso al nome di Garibaldi, adottato prima dalle brigate partigiane comuniste e poi icona del Fronte popolare alle elezioni del 1948. Per ragioni diverse, la formula del "secondo Risorgimento" trovava adesioni anche in ambito governativo, poiché consentiva di frenare le potenzialità di rinnovamento della Resistenza, smorzandone l'impatto entro i binari rassicuranti della continuità con la tradizione patriottica nazionale.

Di fatto questa lettura della storia fu prontamente trasferita anche sul versante delle istituzioni museali, alcune delle quali la resero esplicita con il cambiamento di denominazione: il Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, il Museo del primo e secondo Risorgimento di Bologna, i Musei del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza e Bergamo. Con questa estensione cronologica e tematica, accompagnata da una più solida sensibilità scientifica verso le molte novità del dibattito storiografico sul Risorgimento, alcuni musei si trovarono a interpretare l'ennesima funzione di supplenza: la rottura dell'unità antifascista del maggio 1947 e lo scontro ideologico della guerra fredda, rallentando l'assunzione della Resistenza a simbolo unificante dell'Italia repubblicana, impedirono infatti anche la costituzione di musei specificamente dedicati all'esperienza partigiana. Occorrerà attendere l'inizio degli anni Sessanta, sull'onda dei cambiamenti profondi indotti dal boom economico, delle manifestazioni di protesta contro i rigurgiti di destra (vicenda Tambroni) e dei nuovi equilibri politici che ne derivarono (il Centro-Sinistra), per assistere al riconoscimento della Resistenza come asse simbolico condiviso della nuova identità nazionale.


Bibliografia

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L'Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, a cura di N. Labanca, Paese (Treviso), Pagus, 1992.

M. Baioni, La "religione della Patria". Musei e istituti del culto risorgimentale (1884-1918), Quinto di Treviso, Pagus, 1994.

I luoghi della memoria, a cura di M. Isnenghi, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, 1996-1997.

E. Alessandrone Perona, La Resistenza italiana nei musei, "Passato e presente", 1998, 45, pp. 135-148.

La Grande Guerra in vetrina. Mostre e musei in Europa negli anni Venti e Trenta, a cura di M. Baioni e C. Fogu, "Memoria e Ricerca", 2001, 7, fascicolo monografico.

 

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