Rivista "IBC" XII, 2004, 2

Dossier: Rappresentare la storia - Musei e contemporaneità

musei e beni culturali, dossier /

Mostrare la storia contemporaneaà

Giovanni Leoni
[docente di Storia dell'architettura al Politecnico di Bari]

Il tema dell'allestimento si presta assai poco a generalizzazioni e teorie che non siano di natura tecnica o impiantistica. Tra le occasioni progettuali, infatti, l'allestimento è quella che più di tutte richiede, o dovrebbe richiedere, un atto di servizio, una scelta di silenzio della architettura espositiva a favore dei materiali esposti. È un principio indicato con chiarezza dalla migliore tradizione espositiva italiana del secolo scorso, in un arco di differenti atteggiamenti progettuali che va dalla silenziosa intensità di un Albini, visibile in opere magistrali come il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova (1952-1956), alle ricche narrazioni in prima persona di Carlo Scarpa, personalissime e tuttavia capaci di interpretare magistralmente le ragioni proprie degli oggetti esposti. Ogni buon allestimento, dunque, è, o dovrebbe essere, una vicenda a sé, non generalizzabile, condizionata dalle ragioni interne del materiale esposto.

Il tema si fa ancor più sfuggente se ciò che si deve esporre non è tanto un oggetto d'arte, dotato di un valore e di un'aura che ne giustificano la musealizzazione, ma una narrazione, di eventi più o meno recenti, che si avvale magari anche di oggetti materiali scelti a testimonianza, e tuttavia sfuggente e complessa quanto può esserlo un racconto ricostruito in prospettiva storica rispetto a un oggetto che, in sé e per sé, ha valore testimoniale e originale. Il tema dell'allestimento subisce, in questo caso, una tensione che lo porta, forse, persino al di fuori della tradizione espositiva e museale, avvicinando, in un gioco di ruoli non semplice da definire, l'attività espositiva a quella della narrazione storica.

Il fiorire recente di "musei" storici, e in particolare di musei della città, dovrà forse portare a una riflessione metodologica che consenta di distinguere chiaramente tra l'allestimento di un museo in senso proprio, di una struttura didattica e di documentazione in prospettiva storica o, ancora, di un luogo d'identità voluto da una comunità in divenire; naturalmente senza escludere che queste e altre logiche possano coesistere in uno stesso intervento. Se le relazioni tra allestitore e conservatore, nel caso del museo vero e proprio, hanno una storia e delle metodologie consolidate, nonché delle figure professionali e dei referenti ben chiari, nel caso di strutture espositive dedicate alla narrazione storica i ruoli sono meno definiti. In altre parole, per allestire un museo di storia contemporanea occorre un narratore della storia, presumibilmente uno storico, la cui scelta non è univoca e scontata come lo è la scelta, o meglio l'obbligo, di riferirsi al conservatore deputato dell'oggetto d'arte o archeologico, e occorre una figura di progettista in grado di costruire un supporto materiale a tale narrazione. Le due figure non possono agire autonomamente e nemmeno in semplice successione cronologica, perché la storia non può essere raccontata senza sapere con quali mezzi e i mezzi non possono essere costruiti senza conoscere la storia. Una collaborazione è anch'essa insufficiente, occorre qualcosa di più, occorre la condivisione del racconto. In un certo senso si potrebbe dire che si tratta di compiere un esercizio di stile, una doppia narrazione, condotta a parole dallo storico e, da parte del progettista, narrata per mezzo di strutture materiali.

Per inciso, si potrebbe notare che nel gran fiorire di corsi universitari interdisciplinari, master e scuole di specializzazione, più o meno utili, questo potrebbe essere un buon tema didattico: la messa a punto di strumenti, metodi e professionalità necessarie a raccontare la storia in una società che, se non ha relegato il libro a un ruolo secondario, certo mostra una predilezione, fortissima nelle nuove generazioni, per la visualizzazione e anche per la fisicizzazione del racconto, sia esso storico o di fantasia.

Rimanendo all'ambito metodologico, del resto, si pensi a quanto ancora sia incerto l'uso di strumenti multimediali per la narrazione storica. Dopo una prima fase in cui ricercatori e autori, per antica abitudine, concepivano lo strumento multimediale come un libro trasportato in altro supporto, senza cogliere a fondo le diversità della nuova forma narrativa, e si appoggiavano, per la realizzazione tecnica, al mondo della grafica e della pubblicità, si è poi andata diffondendo una nuova alfabetizzazione tra gli operatori del settore dei beni culturali che ha portato a un processo di compenetrazione tra competenze tecniche, man mano rese più accessibili dalla progressiva semplificazione dei software, e competenze scientifiche. Tuttavia, la breve vita del supporto stand alone, rapidamente soppiantato dalla dinamicità della rete, ha aperto questioni delicate e tutt'altro che risolte.

Pensare l'architettura di un sito internet o intranet equivale a immaginare un flusso di informazioni totalmente immateriale, che può essere temporaneamente e in ogni momento fissato su un supporto, ma che nasce per essere costantemente e infinitamente modificabile oltre che realmente e totalmente interattivo nel rapporto tra elaboratori e utilizzatori, distinzione che, del resto, tende sempre più a dissolversi. Ciò implica la necessità di fronteggiare alcune difficoltà, non tecniche ma concettuali. La pubblicazione e diffusione di un'opera informatica chiusa, ad esempio un CD o DVD, instaura tra autore, editore e utilizzatore un patto sostanzialmente analogo a quello che sottende la pubblicazione di un libro; un patto che presuppone verifiche di attendibilità e scientificità. Il flusso di informazioni della rete, la sua celebrata democraticità, indebolisce tale patto, sottoponendolo a un enorme spostamento di informazioni, date e prese, che sostanzialmente rende impossibile, e forse inutile, il principio della verifica. La verifica nasce dal confronto, consentito dalla rapidità e abbondanza del flusso di informazioni, per cui si presuppone che il ricorrere di una notizia, di un dato, di un giudizio, ne ispessisca l'attendibilità.

È evidente quanto la struttura della rete possa essere attraente in relazione alla narrazione storica, poiché sembra offrire una ricchezza di racconto impensabile con lo strumento del libro. Un libro non può essere divulgativo e specialistico al tempo stesso, non può rivolgersi, contemporaneamente, agli adolescenti, agli studenti universitari e agli studiosi, un sito internet può farlo. Ma la non univocità del racconto, il moltiplicarsi e confondersi delle ragioni narrative, è anche fonte di grandi rischi, perché a chiunque è consentito, nello sterminato testo collettivo della rete, introdurre il proprio racconto, che si affiancherà a ogni altro con valore nei fatti paritetico, in quanto una minima percentuale di ricettori è in grado di valutarne la attendibilità. Ciò può apparire, e forse talvolta è, una rottura delle "strategie d'esclusione" così ben analizzate da Foucault, ma al tempo stesso elude alcune domande che, per la narrazione storica, non sono eludibili. A che titolo racconta chi sta raccontando? Quale la sua identità? Quali le sue fonti? Quale la sua ragione narrativa? Non si tratta certo di un problema astratto e, per una prima risposta, attendiamo, non più per molto ormai, di osservare la capacità critica e la consapevolezza storica delle generazioni che conducono le proprie rapidissime ricerche scolastiche su internet con la tecnica del copia e incolla, avendo accesso, con la tempistica di un videogioco, a una decina di giudizi critici su La coscienza di Zeno senza doversi sobbarcare l'onere di leggere il testo e con una fondata speranza che la fonte critica cui si è attinto possa sfuggire al docente.

Tutto ciò è in relazione molto stretta con il problema del mostrare la storia contemporanea, da un lato perché la rete sta profondamente modificando le modalità della produzione e ricezione del racconto, anche storico, e tali strumenti stanno diventando ineliminabili da qualsiasi allestimento che si proponga di presentare un racconto storico, dall'altro perché le questioni metodologiche ora esposte, che vogliamo continuare a considerare solamente metodologiche, sottendono un tema culturale più profondo. Il tema è quello della co-produzione di valori culturali.

L'Italia, al di là delle disfunzioni gestionali di cui spesso ci si lamenta, ha una rispettabile e ricca tradizione nell'ambito della conservazione dei beni culturali. Sarebbe difficile affermare lo stesso se al termine "conservazione" sostituiamo quello di "gestione" o, ancor più, di "valorizzazione". Rimanendo nell'ambito della recente storia italiana, diciamo a partire dalla fase di recupero dei patrimoni danneggiati durante l'ultima guerra, a una lunga fase di gestione statalista che, salvo rari casi, non ha nemmeno contemplato l'ipotesi di un confronto tra conservazione e necessità della economia di mercato, sembra ora rapidamente sostituirsi una mentalità pericolosamente mercantile. Proprio l'architettura risente profondamente di tali estremismi e, come si sa, l'azione di tutela esercitata dalle soprintendenze è per lo più vista dagli operatori del settore come una fastidiosa limitazione da combattere, il progetto è spesso visto dalle soprintendenze come una pericolosa minaccia al patrimonio storico e, in un duello combattuto da entrambe le parti con armi spuntate, vince alla fine troppo spesso la più brutale economia reale, come dimostra l'ennesima, violenta ricomparsa del condono edilizio.

Il passaggio che forse occorre compiere per rendere nuovamente efficace l'azione di chi, su ogni fronte, ha a cuore il patrimonio culturale italiano, è trasformare il concetto di conservazione in quello di co-produzione dei beni culturali. In altri termini si tratta di individuare un terreno in cui il significato astratto di cultura sappia mescolarsi, senza degenerazioni, con i valori sociali, economici, produttivi. Affinché la discussione sui beni culturali non rimanga sterile e teorica, occorre far sì che le risorse culturali divengano gli elementi generatori di potenzialità di sviluppo economico legate alla condivisione di valori culturali. Al concetto di semplice conservazione di un valore culturale si deve sostituire quello di co-produzione del valore ovvero una capacità, da parte dell'amministratore, di analizzare come e perché un valore culturale si afferma e si consolida. Una analisi che deve avvenire, da un lato, senza le pregiudiziali e gli snobismi che spesso caratterizzano gli ambienti accademici e intellettuali; dall'altro lato distaccandosi da pure logiche di mercato che poco si adattano alle ben più complesse dinamiche di affermazione dei valori culturali.

Ma per co-produrre, ovvero per individuare, valorizzare e rendere economicamente attivi dei beni-valori culturali occorrono strumenti di condivisione, strumenti che consentano a tutti una conoscenza precisa, specifica ma non solo specialistica, di tali beni e della loro storia. Una conoscenza adeguata alle necessità di ognuno, dunque fondata su una comune base di rigore storico e scientificità, ma coniugata con un'efficace divulgazione. Un fronte, lo abbiamo accennato, è quello dell'aggiornamento e dell'insegnamento postuniversitario. I "nemici" - progettisti, funzionari delle soprintendenze, amministratori, operatori economici - hanno bisogno di un tavolo comune intorno al quale ricercare un linguaggio e degli obiettivi da condividere, e l'università può avere, nell'allestimento di questo tavolo, un ruolo importante. Un ruolo benefico, del resto, anche per l'università stessa, che trarrebbe, dal confronto con i processi reali di trasformazione, un nutrimento di cui ha grande bisogno. Il secondo strumento è, certamente, l'osservatorio urbano, struttura di cui si stanno dotando diverse città italiane e che, in altri paesi, ha una ormai lunga e gloriosa storia. Il terzo strumento, non meno efficace, può essere appunto il museo di storia contemporanea o istantanea, luogo in cui si elaborano e si rendono evidenti la storia e i valori in cui una comunità si riconosce o che va elaborando.

Ciò pone al progettista di un museo storico questioni ben più rilevanti della scelta di un linguaggio o di una forma architettonica. Bologna, ad esempio, ha un osservatorio urbano la cui struttura esterna, progettata da Mario Cucinella, ha fatto molto discutere e, da poco, ha anche un progetto di Museo della città frutto del concorso internazionale per la ristrutturazione di Palazzo Pepoli. Dovremo certamente attenderne la realizzazione per comprendere se la Torre di Vetro e la Lanterna Magica immaginate da Mario Bellini sapranno raccogliere e dare voce alla memoria, ai valori, alle diverse identità e immagini della città. Osservandolo, è difficile supporre che il progetto di Bellini possa far discutere meno del progetto di Cucinella. D'altra parte gli architetti usano i linguaggi che la modernità ha loro consegnato ed è un fatto che si tratta di linguaggi non amati e non riconosciuti da chi non ha percorso le vie iniziatiche della architettura contemporanea. I due edifici citati sono forse un paradosso, luoghi destinati alla costruzione di una identità cittadina che offrono una immagine in cui la città si riconosce a fatica.

Nei prossimi mesi, ancora in Emilia-Romagna e più esattamente a Ferrara, le questioni ora accennate si ripresenteranno in forma più complessa e urgente. È infatti in preparazione un concorso per la realizzazione di un Museo della Shoah, per il quale lo Stato ha stanziato 15 milioni di euro più 1 milione di euro annuali per la gestione. Il programma scientifico è affidato al Centro di documentazione ebraica di Milano, che indicherà il direttore: dunque la questione più incerta appare la scelta della architettura che, come la legge recita, dovrà dar vita a "un luogo simbolico per conservare nella memoria della nazione le drammatiche vicende delle persecuzioni razziali e dell'Olocausto". Avendo davanti agli occhi, se non altro, il destino di due architetture così diverse come il Museo berlinese di Daniel Libeskind, con i noti problemi di relazione tra architettura e allestimento della esposizione, e il progetto di Peter Zumthor per "Topografia del Terrore", anch'esso a Berlino e di incerta realizzazione, è da sperare che il processo con cui si arriverà alla realizzazione della architettura ferrarese venga condotto senza delegare a una scelta formale e puramente architettonica la definizione e soluzione del tema, facendo precedere il concorso da una fase istruttoria, pluridisciplinare, che offra ai progettisti una riflessione sul senso complessivo e chiare indicazioni sul programma.

Del resto i casi ora citati non sono che estremizzazioni di un normale destino della architettura contemporanea, la quale non ha più la forza di legittimare con i propri linguaggi la trasformazione della realtà e deve quindi ritrovare la volontà di sottoporre le proprie pratiche, comprese quelle linguistiche, alla verifica non del genio individuale, vero o presunto, ma dei processi reali e di tutti i soggetti in essi coinvolti.

 

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