Rivista "IBC" XII, 2004, 4

musei e beni culturali / mostre e rassegne, storie e personaggi

Alla Loggetta Lombardesca - Museo d'arte della città di Ravenna una mostra ripercorre l'itinerario artistico di Alberto Giacometti dagli esordi alle opere della maturità.
L'uomo "a dieci passi"

Alberta Fabbri
[Museo d'arte della città di Ravenna]

Nell'ambito del programma espositivo che la Loggetta Lombardesca, dal 2002 Istituzione del Comune di Ravenna, ha avviato con la mostra dedicata a Roberto Longhi e all'idea del moderno, dal 10 ottobre 2004 al 20 febbraio 2005 il museo, di concerto con Fondation Maeght di Saint-Paul e Fondazione Mazzotta di Milano, propone una rassegna in omaggio a un protagonista del Novecento, Alberto Giacometti, a cura di Claudio Spadoni e Jean-Louis Prat. Tra le esposizioni che in Italia abbiano mai documentato il percorso dell'artista, si tratta della raccolta di opere più importante per numero e per declinazione tecnica, dagli olii ai bronzi, fino alla ricca varietà di carte, incisioni, matite litografiche, con l'apparato fotografico dell'amico Ernst Scheidegger, e l'intervista concessa dallo stesso Giacometti alla televisione svizzera.

Quando la valorizzazione corre lungo l'attività espositiva occorre pur chiedersi quale sia il senso su cui si innestano i percorsi di ricerca. Nel caso di Giacometti, da cui non ci si possono attendere inediti, e che ha goduto anche in Italia di importanti mostre - si ricordino fra tutte quella di Milano a Palazzo Reale nel 1995, e poi a Bologna al Museo Morandi nel 1999, e ancora a Milano presso la Fondazione Mazzotta nel 2000 -, le ragioni della mostra riposano su una domanda significativa, fondatrice di senso, ovvero quale sia l'urgenza che un secolo esprime di sé attraverso l'opera di uno degli artisti più celebrati. Una domanda che istituisce fondamenti storiografici, grazie alla cura della memoria e alla necessità di riconoscere che a tutt'oggi la sua opera continua a imporsi alla nostra attenzione.

Passato da poco il centenario della nascita e superato lo svincolo del millennio, Alberto Giacometti (Borgonovo, 1901 - Coira, 1966) si presenta a noi con tutto il carico di un umanesimo insultato dagli orrori di un conflitto in cui l'Occidente si scopre, come mai prima d'allora, con un cuore di tenebra. Un umanesimo ridotto a un filo di vita, e tuttavia asserragliato attorno a un'esiguità ultima e inalienabile, che si fa per noi pietas. Che cosa sia l'uomo dopo tutto questo orrore, quale antropologia sia ancora possibile, sono le domande che restano di fronte alle opere della maturità. Oggi risuonano come una memoria fatta di strazio e dignità, carica di intensità emotiva ancora provocante e scabrosa. L'enorme Grande Femmedavanti a noi, nell'allestimento dei curatori, veglia imperturbabile L'Homme qui marche, proiettando l'ombra di un corpo scolpito, scarnificato, deprivato di attributi, dei capelli, pietrificato in una lontananza remota nelle due opposte direzioni del tempo, e oltre, in anticipo sull'eternità. Il diaframma cronologico che ci separa da Giacometti ora è breve ma forse già sufficiente per guardare le sue figure come emblemata del Novecento, un secolo cominciato tardi, con una guerra mondiale, e terminato presto, con la caduta della frontiera istituita dalla seconda guerra.

A sentir lui, Giacometti, la ricerca è un atto di identità, di libertà, anteriore per bisogno alla preoccupazione della riuscita, del consenso e del riconoscimento, un gesto assertivo e dunque libertario. Nei suoi Scritti ci lascia una dichiarazione appassionata in risposta a un'inchiesta condotta da Pierre Volboudt, che aveva per titolo A chacun sa réalité:


Certo, io faccio pittura e scultura e questo da sempre, dalla prima volta che ho disegnato o dipinto, per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso, per diventare più grosso; diventare più grosso per difendermi meglio, per meglio attaccare, per fare più presa, per avanzare il più possibile su ogni piano in tutte le direzioni, per difendermi contro la fame, contro il freddo, contro la morte, per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare - coi mezzi che oggi mi sono propri - di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, capire meglio per essere più libero, più forte possibile, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per correre la mia avventura, per scoprire nuovi mondi, per combattere la mia guerra, per il piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e quello di perdere.1


Nessuna aspettativa di universalità traspare nel "fare l'uomo". Al contrario, Giacometti farà di tutto per sottrarsi alle lusinghe della critica, alle adulazioni di una fortuna a cui concorsero gli stessi amici, prima i solidali del fronte più iconoclasta del surrealismo, Leiris, Breton, Masson, poi, superata la crisi - un'eclissi lunga un decennio (1935-1945) - gli intellettuali dell'esistenzialismo francese, Sartre, davanti a tutti, Genet, ma anche Beckett, responsabili loro malgrado dei topoi che lo avrebbero lanciato nella leggenda. La solitudine? Alla solitudine non pensa mai, dichiarerà in un intervista rilasciata a Antonio Del Guercio per "L'Unità" all'indomani del conferimento del premio per la Scultura alla Biennale di Venezia, nel 1962. Così la preoccupazione di fare l'uomo, fare una testa, non si chiarisce nella necessità di raccontare l'uomo contemporaneo, "l'uomo sul suo rogo di contraddizioni", come ebbe a dire Francis Ponge nel '51 scrivendo di lui, ma, semmai, nell'ossessione, tutta personale, di arrivare a mettere le mani sul reale.

È su questo che hanno riflettuto i commentatori, qualunque fosse la prospettiva. Quando Giacometti risponde alle provocazioni dell'intervistatore nel documentario del 1963 che la mostra ripropone,2 con quella dichiarazione sorprendente oltre ogni evidenza - "in realtà sono uno scultore mancato. Sono ricerche mancate, unicamente ricerche mancate" - Giacometti è infinitamente sé stesso mentre annuncia l'ipotesi del proprio fallimento. Il tono velatamente irritato, incalzante, sarcastico al limite del contrattacco, è la spia di un temperamento resistente alla più suadente delle lusinghe. Giacometti vuole essere sé stesso, dunque persevera perché "si ha voglia di provare. Non sono riuscito. Continuo". E più si avvicina, più la realtà si dilegua e la distanza si moltiplica, una fatica di Sisifo a cui il desiderio di perfezione non permette di porre fine.

Sartre lo aveva colto: nel rinunciare al canone del classicismo, Giacometti trova la distanza, scopre l'uomo come lo si vede, cioè a distanza. Un uomo "a dieci passi" è e resterà un uomo "a dieci passi", anche al suo cospetto. L'annuncio del proprio fallimento, evidentemente, non poteva lasciare indifferente l'amico Sartre, che dello scacco aveva fatto l'aspetto esperienziale dell'uomo contemporaneo. Esattamente in questo punto il paradosso si compie. Giacometti aspira alla propria individualità, e si scopre, suo malgrado, universale. Si scopre così vicino alla temperie culturale che nell'immediato dopoguerra scuoteva l'Europa con un brivido esistenziale, da ritrovarsene completamente coinvolto. Ma la scabrosità di ciò che appare, per Giacometti, che pure partecipa di un convivio esistenzialista, non ha consistenza intellettuale. La questione è personale. E ben profonda.

Giacometti ne accenna nella prima lettera a Pierre Matisse, quando imposta i lavori per l'allestimento che avrebbe realizzato nel '48 presso il gallerista newyorkese. Parla della testa, della difficoltà a farla:


Impossibile cogliere la totalità di una figura [...]. Ma se al contrario si cominciava con l'analizzare un particolare, ad esempio la punta del naso, si era perduti: Avremmo potuto passarci la vita senza ottenere alcun risultato. La forma si scompone, alla fine non è più che qualche particella in movimento sopra un vuoto nero e profondo, la distanza fra le due ali del naso è come il deserto del Sahara, nessun limite, nulla che possa venir fissato, tutto sfugge.3


L'inafferrabilità di una distanza data, come le narici, un étant donnés infinitesimale e pur ineludibile nel fare il volto, si risolve con un punto che fora la tela e fende lo spazio per far precipitare la testa indietro. Si potrebbe comparare l'esperienza della testa all'inerzia di un cadavere la cui massa dal naso sprofonda per caduta, a ricordarci, caso mai, l'inviolabilità della forza di gravità e l'irreversibilità della morte che cosifica il corpo.

A parlarne è lo stesso Giacometti che nel '46 pubblica per "Labyrinthe", di Albert Skira, Le rêve, le Sphinx et la meurt de T., un racconto lungo scritto sull'onda della necessità di una mitologia delle origini - perfetto al punto da indurre almeno il sospetto che Giacometti l'avesse costruito apposta per un percorso che fosse certificato dall'inconscio -, un racconto disconnesso e ancora sconvolto dove l'io narrante ripercorre l'impatto con la morte. La morte di T. nella stanza accanto, il cadavere nel letto che nel sonno della ragione pare espandersi e come una Medusa impietrire asciugamani, sedie, cose, improvvisamente porta in superficie quello che per Giacometti fu l'incontro fatale, e rimosso, con la Morte. Giacometti non sapeva che il viaggio per il quale il bibliotecario olandese Van M. lo cercò rintracciandolo per azzardo, grazie a un appello al giornale, dopo averlo conosciuto a Paestum nel 1920 tra le colonne del tempio, sarebbe stato l'ultimo, quello del transito. Avvenne al valico, in Tirolo, dove Van M. non riuscì a superare una brutta bronchite. L'appello al giornale era solo l'ultimo dei travestimenti della Morte.

Così Giacometti archiviò l'incontro imperscrutabile della sua vita. L'eco emerge definitivamente nel periodo in cui si risolve la crisi e si libera dei dettati del cubismo prima, del surrealismo poi, quando cioè trova una propria voce, autentica, inconfondibile. È per questo che Giacometti non può essere liquidato sbrigativamente come un artista esistenzialista, perché è stato fedele solo alle proprie ossessioni. È per questo che poteva raggiungere l'Uomo, perché era in anticipo sui fumi di Auschwitz, sul vento di Hiroshima. Ma, soprattutto, era in anticipo sul tabù dell'uomo contemporaneo, il tabù della morte.

La mostra intende restituire il percorso di Giacometti dalle origini agli esiti della maturità, fino agli ultimi giorni, quelli che lo vedranno ancora alle prese con Paris sans fin, un volume di centocinquanta tavole litografiche dedicate a Parigi, la città che lo aveva accolto. Pagine dalla vitalità vigorosa. L'odore della morte rende straziante il profumo della vita, così il ciclo, che esce senza gli ultimi fogli, ha tutto lo struggimento di una partita a scacchi: per avanzare, come diceva lo stesso Giacometti, per guadagnare terreno, per differire il più possibile l'échec, l'ultimo.

La ricostruzione del percorso artistico, documentato da opere "eccellenti" delle diverse fasi, è accompagnata da pagine memorabili di antologia, per ricomporre, pur sommariamente, la fortuna critica. Gli esordi si situano nell'alta Val Bregaglia, ovvero - come ci ha indicato Pietro Bellasi nella mostra milanese del 2000, su cui torna ora con un'ulteriore riflessione - in quel paesaggio dei Grigioni italiani ove lo skyline di vette e voragini, graniti e cedimenti, si configura come un paesaggio che scolpisce l'immaginario. Il primo lavoro, un ritratto, fornisce le indicazioni intorno al clima in cui Giacometti si è formato, un clima caratterizzato dal gusto neoimpressionista del padre, Giovanni, che a sua volta aveva subìto il fascino di Giovanni Segantini. Nel lirismo di intonazione sommessamente intimista Segantini aveva indicato una nuova via alla montagna, ovvero al sublime, lo stesso di cui avevano sentito il richiamo Nietzsche e Hodler, che in anni non lontani avevano scelto la stessa Engadina.

Con le Donne-cucchiaio (1926-29) Giacometti afferma un linguaggio autonomo, maturato a Parigi, dopo che vi si era trasferito nel '22. La frequentazione del cosiddetto Gruppo dei sette, un gruppo di giovani di origine svizzera, a cui aderivano anche Campigli e Tozzi, e che condividevano l'interesse per l'arte egizia, etrusca e cicladica, gli permise di accostarsi alle sculture cicladiche, e, talora, alla statuaria egizia, con una vicinanza di intenti che permise di situare la sperimentazione intorno al primitivismo in una condizione originale rispetto alla via indicata da Picasso. Gli idoli femminili di civiltà arcaiche che nel feticcio ritualizzano la devozione al potere della fertilità saranno i grandi protagonisti anche negli anni surrealisti. Come negli oggetti inutili, le macchine inerti denunciano la frustrazione dell'impossibilità di incontro tra le forme del concavo e del convesso - è il caso di Vide-poche (1930) - introducendo la riflessione sull'incomunicabilità, un aspetto dagli indubbi risvolti sessuali come emergerà compiutamente nelle opere della maturità.

Per Giacometti le tangenze con il surrealismo, che non significarono mai una adesione cieca e incondizionata, presentavano l'indubbio vantaggio di liberare, con la metodica del linguaggio onirico e della libera associazione, il potenziale creativo per una volta svincolato dalla necessità logica della ragione, e ancora gravido del potere oscuro di desideri e paure. In questo senso L'Objet invisible (1934-35) rappresenterebbe, nella lettura di Breton che la mostra ripropone, lo struggimento per l'Assenza dell'oggetto del desiderio, ovvero l'impossibilità del compimento amoroso. La figura femminile ha subìto una metamorfosi già annunciata da Femme egorgée (1932) [1940], un'opera che fino ad ora non era mai uscita dalle Collezioni Peggy Guggenheim di Venezia: la donna-crostaceo-insetto, la donna kafkiana, esprime, nella scultura più violenta che Giacometti abbia mai concepito, un coacervo di pulsioni sadomasochistiche che trovano condensazione in una sequenza simultanea di orgasmo-sgozzamento-vendetta-omicidio.

A documentare gli esiti ultimi delle sperimentazioni cubiste due opere come Ottilia (1934) e Le Cube (1933) [1934-35] centrate sulla necessità di fare la testa, a partire dalla lezione di Picasso. La scomposizione di piani lo porta a ridurre la testa a un poliedro. Poi la crisi, una crisi che dura un decennio e che corrisponde agli anni in cui gli eventi bellici gli imposero di abbandonare lo studio parigino, per un lungo periodo. Il superamento della crisi si compie in quel getto narrativo che fa fuoriuscire l'incubo della morte. La testa comincia ad arretrare in una distanza incolmabile come in Le portrait de la mère de l'artiste (1947), il volto sfugge e dalla punta del naso scala in profondità. È un gesto archetipico - avverte Claudio Spadoni - che ripete il gesto primigenio del ritratto, riflesso della silhouette che si origina dal desiderio di trattenere l'oggetto amato mentre questo si dilegua. Da qui la figura trova luogo di aggregazione in La Forêt (Place, sept figures, tête) (1950), La Clairière (Place, nuf figures) (1950), ipotesi di piazze in cui gli individui non possono incontrarsi; ipotesi di geografie di abetaie, dove l'uomo è un fusto arboreo, a ricordarci il luogo mitico delle origini, fosse una foresta carbonizzata. Perché l'uomo di Giacometti, l'uomo per come appare, a distanza, ha le sembianze tragiche di una mummia contemporanea, svuotata, privata di sesso, ridotta a uno stelo.

Sfogliando gli Scritti si trova un'annotazione su Ravenna. Era in compagnia di Alberto Martini, tra i più promettenti allievi di Roberto Longhi durante gli anni bolognesi, che da poco aveva dato alle stampe La Galleria dell'Accademia di Ravenna (1959), un importante contributo al riordino del patrimonio delle civiche collezioni. Hanno chiacchierato all'uscita di Sant'Apollinare in Classe, seduti al tavolino di un bar. In serata Giacometti era già a Milano, "il cielo uguale a quello visto nei mosaici".4

 

Per informazioni:

Museo d'arte della città - Loggetta Lombardesca,

Via di Roma 13 - 48100 Ravenna

Tel: 0544482041/482760 - Fax: 0544212092

E-mail: [email protected] - Web: www.museocitta.ra.it

 

Note

(1) A. Giacometti, Scritti, Milano, Abscondita, 2001 (edizione originale: Paris, Hermann, 1990), p. 109.

(2) Sono uno scultore mancato, Intervista con S. Genni, regia di S. Genni, Radiotelevisione svizzera di lingua italiana, Stampa 1963.

(>3) A. Giacometti, Scritti, cit., pp. 70-71.

(4) Ibidem, p. 253.

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