Rivista "IBC" XII, 2004, 4

musei e beni culturali /

"Al pan biáss". Essere contadini nelle nostre campagne, a cura di G. Romani e M. Benozzo, San Cesario sul Panaro (Modena), Associazione Osteria della Graspa, 2003.
Il pane nudo

Francesco Benozzo
[ricercatore in Filologia romanza all'Università di Bologna]

Quella della memoria, oggi lo sappiamo, è un'autentica arte, sempre in bilico tra tentazioni apologetiche e fanatismi nostalgici, e con il rischio, dall'altra parte, di ridurre la molteplicità in un'icona singola, di trovare definizioni di comodo per fenomeni complessi. Si può partire da questa considerazione per provare a inquadrare correttamente questa seconda pubblicazione della collana "La nostra storia" edita dall'associazione culturale Osteria della Graspa, un libro di testimonianze commentate, nel quale il nucleo fondamentale è rappresentato proprio dai racconti concretamente raccolti dai due curatori, i quali li hanno poi sistemati in un discorso per quanto possibile lineare. Lo scopo di questa ricerca, certamente ambizioso, è "parlare della civiltà contadina della prima metà del Novecento per rintracciare in essa le forme di 'sapere', le tecniche di lavoro, le concezioni del mondo, le relazioni, la socialità, i modi di solennizzare l'esistenza, le occasioni di allegria e quelle di dolore. Senza alcun rimpianto per la fatica, gli stenti, le miserie, le ingiustizie; e con un po' di 'nostalgia' per quelle forme di socialità, di condivisione, di solidarietà che permeavano la vita di chi era affratellato da una 'condizione'" (p. 12).

Per far questo, le testimonianze vengono ordinate in otto diversi capitoli ("La civiltà contadina", "La famiglia", "Le usanze", "La malattia, le cure, le donne", "Dal matrimonio alla nascita", "I bambini", "Il lavoro", "L'esodo"), completati da alcune considerazioni conclusive e da una succinta bibliografia. Ogni capitolo si apre con una pagina di premessa (l'unico spazio in cui lo sguardo dei curatori "esce" per un attimo dalla forma neutra e discreta del commento), e si articola in un intreccio di frasi trascritte dal racconto orale, riconoscibili in quanto poste tra virgolette, e frasi che le collegano tra loro. Per avere un esempio di come testimonianza e connessione si intrecciano, si prenda una frase come la seguente: "Ma il padrone, oltre ai controllori ufficiali, aveva una 'spia' assai malvista dai contadini: «al camarant», un poveraccio che riceveva in affitto una stanza che restava vuota, oppure un vecchio 'casotto' disabitato. Per poter continuare ad usufruire di quell'alloggio, «al camarant al srufianèva al padròun», gli raccontava tutto ciò che i contadini facevano. «Lo chiamavano 'al sufioun'», il soffiatore di informazioni, non sempre vere, all'orecchio del padrone" (p. 27).

Le parti raccolte dai sette informatori (Alberto Artioli, Gino Borsari, Augusta Maria Degli Angeli, Zelmira Ferrari, Quinto Gazzotti, Ottavio Trenti), sono sempre presentate in forma anonima, nel senso che vengono mescolate insieme senza l'indicazione, volta per volta, del nome di chi le ha fornite. Questa decisione, che può sembrare a prima vista arbitraria e non scientifica, coincide in realtà con l'idea generale di parlare di una civiltà intera, ben al di là di attestazioni singole. Così come i due curatori sono semplicemente la connessione tra il racconto orale e la sua forma scritta, allo stesso modo i sei informatori diventano dei semplici traduttori della vita reale in racconto.

Gli spunti interessanti sono numerosi, in particolare le connessioni intraviste tra forme di religiosità popolare e riti precristiani e il preziosissimo capitolo sulla medicina delle donne, che getta una luce nuova su fenomeni poco conosciuti da noi, ma piuttosto vivi in forme di medicina popolare di altre zone d'Europa. La conclusione è, a sua volta, una testimonianza rovesciata, nella quale i curatori dicono per una volta lo stato d'animo che li ha accompagnati durante la ricerca: "ma gli occhi delle persone che abbiamo ascoltato, guardavano a ciò che raccontavano, al loro presente ricordato, a un tempo e a un mondo a noi ignoto, certamente più ricco delle parole che ci regalavano, con un sorriso sereno, quasi lo stessero vivendo ora" (p. 89). Il libro, che si apre con una "Premessa" di Lorella Vignali e una "Prefazione" di Loris Roncaglia, è impreziosito da alcune fotografie e da citazioni di proverbi dialettali.

C'è solo da augurarsi che questo libro, con la sua duplice tecnica di raccolta e approfondimento, con il suo modo paziente e talora sorridente di scrutare le figure, i gesti e i pensieri, e con la sua volontà di far vivere in forme discrete ma vitali, non archivistiche, le esperienze di persone che possono ancora raccontare, non resti un capitolo isolato di questa fenomenologia della mentalità contadina. Ai curatori, intanto, va riconosciuto il merito di avere compiuto dei gesti concreti, non accademici, improntati al dialogo e al confronto, in un momento in cui è molto facile parlare astrattamente di fenomeni che scompaiono, senza mettersi in gioco in prima persona. C'è da credere che anche tutta la ricchezza di cui la pubblicazione si fa tramite per il lettore attento non sia che una piccolissima parte di quello che la raccolta dei materiali ha potuto dare loro. In questo senso, oltre che rappresentare un efficace modello di indagine, Al pan biáss sembra dire in primo luogo che è sempre possibile fermarsi un attimo e parlare con le persone, al di là che alla fine ne venga fuori un libro. La vita che vediamo scomparire, in fondo, è anche la nostra; non siamo dei semplici spettatori.


"Al pan biáss". Essere contadini nelle nostre campagne, a cura di G. Romani e M. Benozzo, San Cesario sul Panaro (Modena), Associazione Osteria della Graspa, 2003, 96 p., _ 8,00.

 

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