Rivista "IBC" XIV, 2006, 3

Dossier: Facile a dirsi - Come divulgare la cultura

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Riflessioni sulla forma festival

Michelina Borsari
[direttore scientifico della Fondazione Collegio San Carlo di Modena]

I festival sono sicuramente una forma tutta contemporanea di produzione e trasmissione della cultura, che non si pone in continuità con le politiche tradizionali e anzi ne mostra le crepe e il logoramento. Parlo dei festival cosiddetti culturali, quelli in cui la parola festival è seguita da un'altra parola che identifica un campo del sapere: festival filosofia, ma anche festival letteratura, festival scienza, festival economia, dove la doppia denominazione segnala il tentativo di uscire da un dato ascetico della cultura e portarlo in una situazione festosa, in una dimensione collettiva.

A partire dalle grandi riforme scolastiche si è sempre pensato che fossero le scuole di stato e le università i luoghi in cui il sapere veniva prodotto nella ricerca e dispensato attraverso la didattica. Oggi questo meccanismo di trasmissione non funziona più. D'altra parte la televisione ha cessato di svolgere quel ruolo di formazione dell'opinione e di divulgazione dei saperi che era stato suo per alcuni decenni. Nel frattempo, soprattutto negli ultimi 15-20 anni, il mondo è terribilmente cambiato, al punto da dare a ciascuno di noi il senso che il proprio sapere è logorato, non più in grado di affrontare il presente, né tanto meno di prospettare il futuro. L'unico modo a disposizione degli individui per continuare a sapere è quello dell'approfondimento individuale.

I festival indicano che questo approfondimento ha da essere piuttosto un fatto condiviso, collettivo. Questo non significa che i festival possano prendere il posto dell'aggiornamento collettivo, ma ne segnalano l'esigenza, segnalano cioè la necessità di un mutamento nelle politiche complessive della formazione. Le scuole e le università fanno il loro lavoro, ma lo terminano a 25-27 anni e noi ci lamentiamo che è anche troppo tardi. La nostra vita media ne dura molti di più e chi ha voglia di continuare ad aggiornarsi o chi vuole accostare saperi nuovi non trova più un luogo disponibile. Le biblioteche offrono servizi, ma i servizi da soli non bastano, è necessaria anche l'elaborazione. Come Fondazione Collegio San Carlo di Modena ci occupiamo di diffusione della cultura da 35 anni e ci siamo accorti per tempo che una domanda in questo senso stava crescendo e insieme cresceva l'attenzione per una pedagogia pubblica, per una formazione in uno spazio pubblico.

 

Utilità dei soggetti intermedi

I grandi festival non vedono gli enti pubblici deputati alla promozione e diffusione della cultura in prima fila, ma dietro, a sostegno. Raramente i gestori di un festival sono soggetti pubblici: sono fondazioni private, come è il nostro caso, sono associazioni costituite ad hoc che comprendono anche i poteri pubblici, soprattutto locali, ma mai il potere centrale. I festival sono l'espressione di una volontà locale di mettere le mani nel sapere, la volontà di un territorio di darsi una modernizzazione anche in termini di strumenti culturali. Sono i Comuni, le Province (le Regioni si ritagliano un ruolo più distaccato di facilitatori): ma per lo più sono gestori nuovi, intermedi. Possiamo spendere per i festival la vecchia parola "sinergia". In realtà si tratta di molto di più, perché non si mettono semplicemente insieme dei pezzi per risparmiare denaro, ma si mettono insieme energie per comunicare, attraverso la cultura, saperi e valori. Cosa non proprio ovvia.

 

Festival/territorio/identità

È chiaro che i festival si fanno con i professori universitari. La ricerca si espone di fronte a migliaia di persone e per farlo cambia linguaggio, senza per questo banalizzarsi. Ma è altrettanto chiaro che il festival - che è festa, non convegno - è antiaccademico. I festival non sono una lista di nomi, ma il modo con cui un intero territorio, compresi gli uffici postali e l'ospedale, si mette al lavoro culturale. Sono cartelloni molto complessi che per funzionare hanno bisogno di tecnologie, capacità di realizzazione, competenze comunicative. Ci vogliono dei manager. Non a caso l'accademia lo ha capito e in moltissimi atenei, ormai, i curricoli formativi per operatori culturali si stanno moltiplicando, anche troppo. Prima di questa stagione festivaliera c'erano gli assessorati che gestivano la cultura intesa essenzialmente come valorizzazione del patrimonio e come spettacolo (musica, cinema, teatro). Festival di quel tipo sono sempre esistiti. Oggi parliamo di un modello completamente nuovo che non è soltanto un calendario festoso, ma, lo ripeto, un calendario in cui tutto il territorio viene interpretato attraverso una focalizzazione di carattere culturale.

La cultura è un bene strategico per le comunità locali perché è in grado di mettere in moto e integrare segmenti di società che normalmente viaggiano separati, funzionalmente distinti. Succede così a Mantova, Modena, Trento. A Modena per il "festivalfilosofia" lavorano insieme commercianti, imprenditori, grandi servizi, musei, biblioteche. E la città, che aveva nella sua immagine-marca il lambrusco, la Ferrari e Pavarotti, adesso ha anche il festival [l'edizione 2006, dedicata al tema dell'"umanità", si è svolta dal 15 al 17 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo; per maggiori dettagli: www.festivalfilosofia.it, ndr]. La cultura è in grado oggi di dare identità locale tanto quanto una volta l'impresa, e la competizione tra città di medie dimensioni si gioca in larga misura proprio sulla capacità di raccogliere sfide che non sono più solo produttive.

 

A proposito dei nuovi saperi

È come se ci fossero due diverse velocità: quella della scienza e del sapere, e quella del paese che fatica, rincorre, ma a un certo punto resta fermo. Il paese non si autoaggiorna immediatamente, non si autoaggiorna da sé. Bisogna che quello che una volta avveniva spontaneamente oggi lo otteniamo per via artificiale, per via di forza applicata. I festival possono svolgere un ruolo importante: non fanno libri, ma fanno lettori, e gli editori (vedi il Mulino o Laterza) se ne stanno accorgendo. A seguito dei grandi festival, che non a caso tra i promotori cominciano ad avere gli editori, la saggistica in Italia è ripartita e cominciano a comparire titoli di divulgazione: titoli in cui il progresso della scienza, della tecnica, della filosofia, della biologia, dell'etica, viene dispensato con linguaggi non gergali, non specialistici, per un pubblico non accademico: qualcosa di intermedio tra il bestseller e il libro universitario.

Tutto questo, è ovvio, non può bastare: manca in Italia un luogo strutturale di diffusione e aggiornamento dei saperi, qualcosa di simile alle Open Universities del mondo anglosassone. Il problema che i festival segnalano, e non risolvono, resta: non so quale sarà l'uscita dai festival verso qualcosa di più sistematico e strutturato, ma credo che di nuovo le risposte saranno locali. Saranno le singole comunità locali che si daranno poco per volta degli strumenti elastici. A questo proposito ricordo che il festival di Modena non è neppure un'associazione, è un patto tra gentiluomini e ci sta bene che rimanga in questa forma magmatica. Però non c'è dubbio che questo resta un tema forte. Le Regioni strutturano e governano la formazione professionale, che è altra cosa rispetto a quello di cui ci stiamo occupando: ossia, in sintesi, la capacità di leggere il presente.

 

Non è mai troppo tardi

Il nostro pubblico, 104.000 presenze nell'edizione 2005, è trasversale per ceto, titoli di studio, generazioni. Per un 30% si tratta di persone al di sotto dei 25-30 anni. Non sono "deportati", perché abbiamo scelto di non andare più nelle scuole. La metà del pubblico ha tra i 30 e i 50 anni. Questo è importante perché l'idea che il sapere sia dispensato solo ai giovani non mi piace, dato che sono gli adulti ad averne più bisogno. È quel lifelong learning, quell'apprendere nell'intero corso della vita di cui tutti si riempiono la bocca, ma su cui nessuno fa nulla perché non si capisce quali possano essere gli attori. L'università fatica a svolgere il proprio ruolo con i giovani, figurarsi se le diamo anche un ruolo per gli adulti. Attenzione, però: il rischio è che agli adulti si finisca per fornire un sapere di serie B. Al contrario, mediamente, noi mettiamo loro di fronte i migliori del mondo. Che peraltro sono anche i più efficaci e i più semplici.

 

Spettacolarità/condivisione

La dimensione spettacolare ha sicuramente il suo peso, ma sono convinta che a prevalere sia l'elemento di condivisione. Nessun festival usa gli spazi tradizionali, si usano spazi extra-vaganti cioè esterni: spazi pubblici, piazze. L'elemento happening, spalla a spalla, pelle a pelle, seduti per terra, grandi e bambini, la condivisione di qualcosa, è sicuramente più forte del rapporto con il personaggio famoso. Non farei del moralismo sul personaggio. Che poi siano tutti noti non è vero. Sono così conosciuti Bernard Stiegler o Philippe Descola? In Italia i filosofi noti sono meno di dieci, in ogni caso. Alcuni nomi circolano perché scrivono per i quotidiani. Per tutto il resto le persone si fidano. Da noi i filosofi non sono maitres à penser, da noi sono accademici. È difficile anche per loro. Le persone vengono con le domande pronte e sono domande vere, che spesso mettono in difficoltà il relatore. Ci sono filosofi che non vogliono andare in piazza e sono comunque tutti terrorizzati. Sanno che il loro mestiere si svolge in una riserva di caccia. Qui la riserva non c'è. C'è l'agorà.

 

Il ritorno dell'oralità

Alla fine di un arco dell'umanesimo che ha avuto nel libro la sua origine e il suo destino, i festival rappresentano un ritorno alla parola orale. Questo è per me l'elemento di condivisione maggiore: non la personalità che fa le battute, ma l'oralità. Fra i due grandi sensi, la vista e l'udito, gli unici che la filosofia ha dichiarato nobili, non c'è dubbio che l'Occidente si è costruito sulla vista. La vista è la scrittura e l'individualismo dell'Occidente è fondato sulla lettura silenziosa. Cosa significa oggi questa domanda crescente di un ascolto condiviso? Si chiamano in causa la solitudine, la crisi della comunità. In questo ritorno all'oralità c'è in effetti il senso di una comunità elettiva che non è la comunità di paese, quella che non scegli, in cui sei gettato, ma una comunità di elezione. Quelli che sono al festival condividono con te non tutta la vita, ma alcune cose. L'oralità ricostruisce il senso di una comunità d'elezione.

[a cura di Isabella Fabbri]

 

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