Rivista "IBC" XIV, 2006, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / storie e personaggi

L'IBC ricorda il geografo Lucio Gambi, uno dei suoi padri fondatori, il suo primo presidente.
L'uomo e lo spazio

Andrea Emiliani
[presidente dell'Accademia Clementina di Bologna]

Nel pieno degli anni Settanta l'insegnamento di Lucio Gambi nell'università bolognese è apparso subito fondamentale. Del resto non erano mancate le notizie a proposito del suo lavoro scientifico. Esse seguivano il mondo editoriale e specialmente i lavori di fondazione e di organizzazione della Storia d'Italia dell'editore Giulio Einaudi. Ma poi c'era un'altra strada dove i passi di Gambi si muovevano con l'affinità morale e insieme il piacere del conterraneo attento a ricostruire il vecchio mondo delle forme di civilisation secondo le pagine indimenticabili e per lui ancora vicine dell'introduzione a Les Annales di Marc Bloch e di Lucien Febvre. Era una ricostruzione che aveva il piacere della partecipazione tecnica e accademica, della presenza ai convegni allora frequenti della Società di studi romagnoli e anche della non sopita ammirazione che Gambi portava a scrittori e a scienziati della periegetica e della ricerca positiva nelle diverse province che, da Toscanella di Dozza alle Siligate pesaresi, si allineavano tra fiume e fiume, tra città e città.

E credo che ognuno sappia quanto tutto questo sentimento del luogo sia stato forte nella Romagna a cavaliere e dopo la guerra e il 1945. La Romagna, la strada che va da Forlì a Ravenna, e poi le sue biblioteche preferite (ha lasciato tutti i suoi libri, minuziosamente annotati come un archivio, alla Classense). E poi la Firenze che stava di là dall'Appennino e oltre il passo della Calla, col trenino di Borgo San Lorenzo: l'Istituto geografico militare e i rapporti universitari. Ancora le iniziative storiche sulle dimore rurali di Le Monnier, dove presto apparve disegnata nelle forme mezzadrili proprio la modesta casa dei contadini in Romagna (1942): un'icona insostituibile del paesaggio pascoliano e di Renato Serra. La sua predilezione, diceva con forza, batteva dalla parte della storia. Poi, da buon geografo, aggiungeva che si trattava comunque d'una storia dell'uomo!

Nacque presto la nostra comune attrazione verso la costruzione scientifica d'una dottrina che gradualmente disegnava la storia dello spazio. Nel dopoguerra, avviati come eravamo a conoscere e riconoscere le caratteristiche creative di un ineguagliabile Paese, anche per noi, storici dell'arte e dell'architettura, Gambi sembrava davvero sceso dal cielo per sostenerci in una dimensione conoscitiva che ritenevamo insieme sperimentale e operativa, nonché politica. Francesco Arcangeli e poi Ezio Raimondi, e le loro pagine, erano nati dentro forme viventi e non accademiche.

La sua dottrina ci aiutò infatti nella costruzione di un ordito ideologico e concettuale che fosse capace di sostenere ruolo e presenza dell'uomo nella creazione dei suoi spazi organizzati: il che voleva poi incoraggiare un modello forte e progressivo della tutela del patrimonio artistico in quegli anni problematici. La sua storia umana, nelle diverse espressioni creative e soprattutto nel paesaggio, grazie alla sua scienza e anche nella sua interpretazione, rivelava la necessità di dare un'attenzione primaria e profonda al ruolo dell'uomo nel suo ambiente. Dalla sua disciplina ricavammo l'idea operante di un'antropologia sulla quale si profilavano anche gli eventi dell'arte. Che cosa mancava per raggiungere i livelli della creatività che noi, fieri della nostra storia figurativa e delle arti, venivamo identificando e affermando in un paese di arte diffusa, in un reticolo di parrocchie e di dipinti, di sculture e di affreschi?

Lucio Gambi è stato il nostro grande scienziato parallelo, d'una vivacità tecnica e scientifica - diceva lui stesso - piuttosto romagnola. Ricordava sorridendo, e neanche tanto, i primi anni della guerra, nel 1940, quando profittava dei suoi viaggi facendo da ventenne la staffetta di "Giustizia e Libertà" tra Roma, Firenze, Bologna e la Romagna. Il suo rigore morale era rimasto intatto nei decenni di studio. Lo ammirammo dapprima per il suo libretto dedicato alla Casa rurale in Romagna. Più tardi, come abbiamo già ricordato, diede collaborazione strutturale alla Storia d'Italia Einaudi (atlanti finali compresi), dove si studiarono le nuove problematiche della storia, e numerose vere e proprie fondazioni didattiche. Per noi - e dunque sempre dalla parte, che gli era peraltro cara, dell'urbanistica e delle arti in genere - la sua attività confluiva nella formazione dell'Istituto per i beni culturali della Regione, fondato nel 1975, in parallelo alla riforma delle Belle Arti, erette in Ministero da Giovanni Spadolini.

Il libretto della Piccola Biblioteca Einaudi che tuttora circola e che io scrissi, appunto con le collaborazioni di Lucio Gambi, Pier Luigi Cervellati e Giuseppe Guglielmi, sotto il titolo di Una politica dei beni culturali, alla fine, sotto il peso dei tempi e delle necessità, divenne una specie di breve codice dedicato ai problemi di organizzazione di una nuova amministrazione. Chiamare quest'ultima "decentrata" sarebbe stato troppo, ma almeno che fosse cosciente, di fronte al centralismo imperante, dei problemi che in Italia si collocano tra centro e periferia, tra mostruosi insediamenti urbani e i vitali spazi territoriali. In questa costruzione di libertà nacque il senso moderno dell'ambiente, e cioè del paesaggio. Poi appassì, fino a scomparire insieme a quell'idea della vita che sola può reggere l'analisi urbanistica e delle stesse forme del territorio.

Gambi amava passionalmente questo problema così attuale, tanto che affidammo a lui, nonostante la sua renitenza, la prima presidenza dell'Istituto regionale. Mi ricordo alla perfezione il suo primo incontro con il governo regionale: "Bisogna rimettere l'acqua nelle valli comacchiesi da cui è stata tolta". Fu questa l'intuizione precoce dello scienziato che sapeva come sarebbero andate nel futuro prossimo le cose. Già da quel momento, mentre il libro-progetto che ho prima ricordato continuava la sua fortuna, l'Istituto fu presidiato da un certo, riconoscibile ossequio politico (che non era stata davvero l'intelligenza del suo politico fondatore, Guido Fanti) e la sua capacità di iniziativa vigilata assai. E spesso ridotta ai livelli consueti dalla banalità delle vigenti gestioni di assessorato, perché l'opera di conoscenza e di scavo non uscisse mai dalla corsia dell'ortodossia burocratica consueta, rassicurante.

Lucio Gambi aveva un grande rapporto con i suoi allievi, prima di Catania, poi di Milano, di Firenze e di Bologna. Era solito dire che a lui toccava di insegnare una disciplina quasi ignota nell'Italia attuale. Nella vecchiaia, la crisi della scuola e della società gli doveva dare grandi dispiaceri. E anche da parte dello spazio degli architetti e degli storici delle forme dei campi, del paesaggio, e della creatività artistica, sembrava che non gli giungessero altre vere soddisfazioni, com'era stato invece un tempo. E questo era un motivo di più per ricordare che la sua bella e tornita voce - una vera voce ex cathedra - aiutò molto a restituire all'università moderna un luogo degno di tanta storia, e di tanta gloria. E di così esaltante orizzonte storico dello spazio dell'uomo e per l'uomo.

 

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