Rivista "IBC" XV, 2007, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / interventi, mostre e rassegne, progetti e realizzazioni

Silvestro Lega, i Macchiaioli e il Quattrocento: i Musei di San Domenico danno appuntamento a Forlì per confermare lo stile espositivo inaugurato nel 2005.
Qui non finisce il mondo

Roberto Balzani
[docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna]

Se c'è un luogo che, a Forlì, ha sollecitato le visioni del ceto amministrativo locale dal 1861 a oggi, quello è la vasta area che si estende da San Domenico a Santa Caterina: l'antico "fronte interno" delle fabbriche conventuali che perimetravano l'abitato, fungendo da filtro tra il reticolo delle vie e la campagna "di città", cioè la profonda zona ortiva situata all'interno della cinta muraria, di cui oggi sopravvive un'estrema traccia, verso porta Schiavonia. Il contadino urbano non era un'eccezione; così come le stalle, numerosissime ancora nel XIX secolo; o l'artigianato a supporto di un'attività agricola che tracimava dai bastioni per diffondersi e confondersi con le migliaia di cittadini "strutturali", asserragliati e compressi intorno alle piazze e alla via Emilia. Non stupisce quindi che, subito dopo l'Unità, prendesse vigore l'idea di conquistare allo spazio propriamente forlivese una fetta consistente di quella no man's land, organizzando il riuso dei grandi complessi conventuali laicizzati in tutto o in parte durante il periodo francese.

A che scopo? In quel momento, quando ancora il confine di stato coincideva con il Po, parve che la promozione della "piccola patria" potesse passare attraverso la brusca conversione in città militare. Si trattava, quindi, di destinare circa 18 ettari, ovvero oltre l'11% della superficie murata, a "grande caserma":1 un intero reggimento di artiglieria ippotrainata vi avrebbe trovato ricoveri e servizi adeguati. A nulla valse l'opposizione dei medici democratici come Decio Valentini, preoccupati per la già critica condizione igienica del centro storico: il miraggio degli inevitabili benefici infrastrutturali che avrebbero accompagnato i convogli degli artiglieri a cavallo prevalsero sugli appelli al buon senso e alla realtà. Non fu l'esatta percezione del rischio urbano a far tramontare il sogno militare: furono, piuttosto, le imperscrutabili decisioni del ministero di Torino, la debolezza della deputazione romagnola e poi, dopo una fase di stasi e d'insabbiamento, la ripresa della guerra e lo spostamento del confine dal Po fin quasi all'Isonzo. Alla fine del 1866 nessuna buona ragione sembrava giustificare ormai il Grande Progetto. Certo, rimasero alcune cicatrici: taluni conventi e chiese trasformati in caserme; nomi di vie scelti apposta (si era nell'agosto 1887) per segnare il confine immaginario di un'illusione (Romanello da Forlì, Guido da Montefeltro);2 ma accanto, quasi senza soluzione di continuità, una fabbrica "di feltro per usi industriali", la Bonavita;3 e poi attività di guarnigione di più basso profilo, come un panificio o una "cavallerizza". Frammenti di una logistica che volentieri si confondeva con la tranquilla quotidianità dell'artigianato e del commercio "civili".

Ci volle un'altra guerra, l'ultima del XX secolo, per riproporre la questione. L'impresa bombardata si era ripresa con una certa rapidità, ma la disarticolazione dei mercati tradizionali e la strutturale debolezza finanziaria ne segnarono il destino, fra il 1964 e il 1969. Il vecchio stabilimento fu tuttavia chiuso solo nel 1966 e il terreno venne ceduto a un'immobiliare, per 200 milioni di lire, nel 1968. Di lì a poco il panorama sarebbe velocemente mutato: a parte una ciminiera tardo-ottocentesca (poi colpevolmente abbattuta: sarebbe stata, forse, un incomparabile pennone per il "nuovo" San Domenico), un deserto di ghiaia, come le Halles dopo la demolizione. Un nastro d'asfalto attraversava quel niente, che d'inverno gelava, rendendo pericoloso il pur brevissimo tragitto. A destra e a sinistra, i fantasmi di conventi/caserme obsolete e cadenti. La "cavallerizza", purtroppo, senza più cavalli né cavalieri; la caserma "Caterina Sforza" (oggi ritornata Santa Caterina, come prima della laicizzazione forzata del nome, imposta in epoca postunitaria) trasformata in casermone fitto di profughi e senzatetto prima, poi di un'umanità marginale e dangereuse.

Fu solo agli inizi degli anni Settanta, in coincidenza con il boom di piccole imprese dilaganti nella periferia, che l'amministrazione riprese in mano il Grande Progetto: non più in funzione militare, si capisce, ma con l'esplicito intento di sanare una cicatrice profonda e secolare del tessuto del borgo antico attraverso una ben visibile sutura moderna: il teatro di Maurizio Sacripanti. Una storia già nota e presto interrotta, fino alla terza versione, quella attuale, del recupero/restauro del San Domenico. L'idea, questa volta, ebbe successo. Non solo: l'opinione pubblica, che si era divisa dopo l'Unità sulla caserma e un secolo dopo sul teatro, si trovò singolarmente unanime nel sostenere che, sì, quel luogo aveva la vocazione per trasformarsi in uno straordinario spazio per la cultura e le arti.

Ma il Grande Progetto non meriterebbe forse le lettere maiuscole se si limitasse al convento e alla chiesa, la cui restituzione ai forlivesi è prevista nel giro pochi anni; il punto è che la sollecitazione indotta dal genius loci e da una percezione dell'ambiente circonvicino che affonda nell'identità urbana remota inducono a pensare il complesso "ritrovato" come naturalmente connesso al Sant'Agostino - attualmente occupato dalla Guardia di finanza - e al Santa Caterina, nel frattempo guadagnato a funzioni pubbliche, didattiche e accademiche. Mi accorgo di usare "naturalmente" come un avverbio retorico per fluidificare il passaggio da una visione a un'altra: in realtà, se c'è una soluzione di continuità, questa è appunto rappresentata dall'immagine ripulita di un futuro "quartiere della cultura", opposto alla linearità storica delle macerie, delle superfetazioni, degli interventi parziali, dei cantieri chiusi a metà per mancanza di denaro. No, non c'è nulla di naturale nel Grande Progetto.

 

L'invenzione della tradizione

Contenitori e contenuti. Le amministrazioni si dedicano con grande passione ai contenitori. Agli assessori piace moltissimo rimettere in sesto ambienti prestigiosi, costruirne di nuovi, tagliare nastri: il problema è quello che ci va dentro o che ci si fa dentro a partire dal giorno dopo. Anche il San Domenico rischiava (e, in parte, rischia ancora) di cadere nella trappola dell'"opera pubblica", nella sindrome autostradale: apriamo un tratto nuovo, e poi la gente si arrangia. Ripristinare un grande complesso conventuale, indicandolo come sede privilegiata e prestigiosa dei musei cittadini, significa alterare le priorità di spesa dell'ente locale: non solo quelle straordinarie, per la sistemazione del manufatto, ma soprattutto quelle correnti, necessarie alla sostenibilità nel tempo del progetto.

D'altro canto, che la cultura abbia storicamente rappresentato una nicchia tutto sommato marginale non solo all'interno del bilancio comunale, ma anche nel senso comune dei cittadini, possono tranquillamente testimoniarlo i dati sui frequentatori (non studenti) delle biblioteche e dei musei: un refrain che si ripete da quando Mussolini dirigeva "La Lotta di Classe".4 Per ovviare a questa asimmetria - grande "contenitore", difficoltà di giustificare la spesa per i "contenuti" - all'interno della Fondazione Cassa dei risparmi è maturata un'idea: che puntando rilevanti risorse su importanti eventi culturali (la mostrite, moda o patologia dell'epoca nostra), fosse possibile dimostrare ai forlivesi stessi - ancora perplessi e incerti - che il volano rappresentato dal San Domenico era in grado di produrre un visibile indotto, prezioso per la rivitalizzazione di un centro storico un po' troppo anemico. L'apertura di credito concessa dall'opinione pubblica alla "cultura", come già all'Università, quale fattore di "sviluppo economico", avrebbe reso plausibile un intervento strutturale sul bilancio dell'ente locale, corroborato da un robusto sostegno da parte della Fondazione.

Per risultare pedagogicamente efficace, l'operazione doveva essere dotata di una sua autoevidenza: non dati opinabili, ma un'esperienza diretta, di massa, alla portata di tutti. Per questo, nel 2005, la mostra dedicata a Marco Palmezzano è stata programmata e realizzata con uno spiegamento di mezzi ignoti alle precedenti (e pur talvolta assai pregevoli) esposizioni forlivesi; né, d'altro canto, ci s'illudeva che, perduta la scommessa, vi sarebbero state prove d'appello disponibili. Il primo round fu vinto, mercé gli oltre cinquantamila visitatori. A quel punto si trattava di ribadire la "vocazione" locale, di stabilizzare la tradizione inventata, come direbbe Hobsbawm,5 attraverso un'iterazione degli appuntamenti; i quali, tuttavia, per sottrarsi alla legittima accusa d'essere eventi occasionali e prodotti di consumo, dovevano, da un lato, affiancare il progressivo allestimento dei musei civici, a partire dalla Pinacoteca - sottolineando la strumentalità, per una volta almeno, del cedimento allo "spirito del tempo" - e, dall'altro, presentare opportunità originali di riflessione su ambienti e autori del territorio o a esso collegati, prendendo programmaticamente le distanze dall'importazione di esposizioni "a pacchetto", immaginate e confezionate altrove. Su questi principi, garante Antonio Paolucci, l'accordo fra Fondazione e Comune si è rivelato subito assai solido.

Nel 2007 è la volta di Silvestro Lega.6 Non una generica rilettura dei Macchiaioli, ma il tentativo di verificare sul campo, attraverso accostamenti "giudiziosi", una vecchia impressione di Aby Warburg, riproposta poi da Emilio Cecchi, circa l'influenza esercitata dalla pittura toscana del Quattrocento sui protagonisti della stagione del "Caffè Michelangelo": non tanto sul versante delle citazioni esplicite, quanto su quello delle posizioni dei corpi nello spazio, dei profili, degli atteggiamenti. Un'utile comparazione - certo non una ricerca originale - mai tentata prima, e giustificata, più che per Fattori o Signorini, nel caso specifico di Silvestro Lega, un autore di pause e di trasalimenti, di momenti restituiti nella loro fissità, dove meno alta pare la febbre cinetica che anima la macchia.

 

Alla ricerca di uno stile

Che la mostra di Lega si proponga come un sontuoso (per la quantità di pezzi esposti) esempio di comparazione, alla ricerca di analogie e suggestioni altrimenti possibili solo attraverso le riproduzioni fotografiche - e la fotografia degli Alinari entra pure in campo in una sezione del San Domenico, attraverso i grandi cicli di affreschi quattrocenteschi così come erano visibili a Firenze nella seconda metà dell'Ottocento - pare affermazione difficile da contestare; così come il "vero reale", destabilizzato in parte dalla tesi portante dei curatori (Paolucci, Mazzocca, Matteucci), perde la scolastica evidenza della mera restituzione visiva della "natura", per assumere una connotazione più ambigua e frammentata, quasi sovrapponendosi alla tormentata e a tratti indecifrabile biografia artistica e umana di Silvestro Lega.

A proposito di "frammenti". Una sezione a latere, allestita con documenti tratti dalle biblioteche e dagli archivi locali (in primis le Raccolte Piancastelli) tenta di saldare qualche spicchio del mondo mentale della periferia romagnola con la rappresentazione del "vero reale" di Lega e dei suoi compagni di viaggio. Ci si è mossi in due direzioni. Da una parte, sondando le analogie, per verificare come soggetti simili fossero visti - più o meno nello stesso tempo e in luoghi non troppo distanti - con occhi alquanto diversi, a seconda dei registri retorici utilizzati, dei contesti (pubblici o privati), della provenienza dello sguardo (interna o esterna). Dall'altra, rilevando anche le assenze, il "vero" rimasto nel pennello del grande artista: aritmie nella restituzione del reale che aprono interessanti prospettive, se solo si pone mente al fatto che, talvolta, a mancare sono quelle articolazioni della nascente società di massa - come i circoli, o i lavoratori - pure così prossime, dal punto di vista ideologico, al circuito dei Macchiaioli.

Le sezioni funzionano come unità elementari e autonome dell'esperimento: possono essere lette in sequenza oppure no. Ciascuna di esse racconta una storia e cerca di documentarla con i più vari supporti: originali o in riproduzione, iconografici o letterari, aulici o popolari. Ma non mancano le "cose", gli oggetti. Le didascalie non sono affatto "scientifiche": offrono le notizie minime indispensabili per accedere alla singola testimonianza, che dev'essere immaginata come una sollecitazione (talvolta provocatoria) a connettersi con il tema principale. Tema che, inevitabilmente, viene ricondotto, in chiusura, a Silvestro Lega.

Riepilogando: la mostra del 2007 testimonia, più e meglio di quella dedicata a Palmezzano, la ricerca di uno stile: il collegamento col patrimonio culturale locale, in primo luogo; e poi il rifiuto di temi pretestuosi o estrinseci all'ambiente (con tutti i rischi da evitare, a partire dal potente narcotico del municipalismo); quindi, l'allestimento, per quanto possibile, di cantieri o cantierini di lavoro, per giovani laureati; e, ancora, una saldatura forte con l'opinione pubblica extraculturale, quella delle attività economiche, delle associazioni, ecc., per istillare nei più l'idea che Forlì può divenire una tappa del nuovo Grand Tour dell'Italia "media" centrosettentrionale. Insomma: uno stile che non sia il prodotto un po' artefatto delle ambizioni mimetiche di un milieu di parvenus, ma il prodotto di un'operazione di laboratorio, certo "provinciale" (e, d'altronde, non ha scritto Josif Brodskij: "Contrariamente a quanto si crede di solito, la periferia non è il luogo in cui finisce il mondo - è proprio il luogo in cui il mondo si decanta"?), ma solidamente, originalmente "provinciale". Come altre volte questa terra, la Romagna, ha saputo essere.

Non c'è alcuna buona ragione storica per cui il Grande Progetto dovrebbe funzionare: Forlì non ha memoria culturale di lungo periodo, ha rimosso i suoi miti passati (San Valeriano; la Crocetta in ricordo del "sanguinoso mucchio", distrutta nel Seicento; e così via); non ha, come Mantova, un'immagine di Virgilio risalente al Duecento incastonata nel Broletto, o, come Padova, una pseudotomba di Antenore venerata fin dal Medioevo. Nulla di tutto questo. Tabula rasa, o quasi. Eppure, forse proprio per tale ragione, essa può, o potrebbe, testimoniare come nel XXI secolo il "patrimonio culturale", inteso come sovrappiù di "valore sociale", non lo si debba solo tutelare o promuovere, ma lo si possa, talvolta, perfino creare.

 

Note

(1) R. Balzani, Esercito e amministrazione locale a Forlì nell'età della Destra: scelte urbanistiche e spirito municipalistico, in Esercito e città dall'Unità agli anni Trenta. Convegno nazionale di studi, Spoleto, 11-14 maggio 1988, II, Perugia, Deputazione di storia patria per l'Umbria, 1989, pp. 677-699.

(2) Archivio di Stato di Forlì, Carteggio del Comune di Forlì, b. 47, 1900, cat. X, Denominazione delle Strade e Piazze di Forlì, ms., [Forlì], s.d.

(3) Sulla quale si veda: M. Tassani, La Società Bonavita "Premiata Fabbrica di Feltro per usi industriali e articoli da caccia". Un'azienda forlivese tra Otto e Novecento, tesi di laurea in Storia contemporanea, prof. D. Vasetti Jannini, Facoltà di lettere e filosofia, Università di Bologna, 1999-2000.

(4) A. Beltramelli, L'Uomo Nuovo, Milano, Mondadori, 1923, pp. 209-210.

(5) E.J. Hobsbawm, T. Ranger, L'invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987.

(6) "Silvestro Lega. I Macchiaioli e il Quattrocento", Forlì, Musei San Domenico, 14 gennaio - 24 giugno 2007 ( www.mostrasilvestrolega.it).

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