Rivista "IBC" XV, 2007, 4

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, storie e personaggi

Un uomo, assorto, cammina lento sotto il portico di via Zamboni... Giosue Carducci, “il Professore”, nel ricordo nitido e appassionato di un allievo d’eccezione.
Reverenza

Manara Valgimigli
[filologo e scrittore (1876-1965)]

La notte del 16 febbraio 1907 moriva a Bologna Giosue Carducci, poeta, storico della letteratura italiana, editore di testi, filologo, critico militante e instancabile organizzatore di attività culturali nell'Italia del secondo Ottocento. Il centenario carducciano, animato da un prestigioso comitato nazionale, ha visto la stretta collaborazione del Comune e dell'Ateneo bolognese (www.casacarducci.it/comitatonazionale/). Sono state allestite tre esposizioni: una per ricordare "il Professore" (realizzata dall'Archivio storico dell'Alma Mater all'interno dell'Aula Carducci di via Zamboni 33, dal 10 settembre al 21 dicembre 2007), una per indagare il rapporto tra il poeta e i miti della bellezza,1 e una per rievocare le sue frequentazioni letterarie all'Archiginnasio (dall'1 dicembre 2007 all'1 marzo 2008 nella Biblioteca comunale dell'Archiginnasio). Per onorare questo anniversario, la rivista "IBC" ha scelto di ripubblicare un ricordo scritto per "Il Resto del Carlino", in occasione del cinquantesimo anniversario, da Manara Valgimigli, il grande filologo che di Carducci fu allievo. L'articolo fa parte della raccolta intitolata Colleviti, ripubblicata nel 2003, a cura di Roberto Greggi, dall'Editrice Mandragora di Imola (Bologna) per il Centro studi valgimigliani: ringraziamo il curatore e l'editore per la cortesia.

Due ore consecutive di lezione faceva di solito il Carducci nel pomeriggio dei giorni dispari, dalle tre alle cinque; la prima di letteratura italiana, la seconda di letterature neolatine, con lettura e interpretazione di testi provenzali o di antico francese; qualche volta, in questa seconda ora, specie sul finire dell'anno scolastico, rendeva conto a noi scolari dei lavori nostri, i quali tutti dovevano essere di filologia e di storia, e che nei mesi precedenti gli avessimo consegnati.

Alle cinque usciva. E s'avviava, solo, verso il centro per il portico di sinistra di via Zamboni. Avvicinarlo, non era facile. Volto severo e come assorto. A rari tratti e scatti volgeva il capo, come per un pensiero improvviso. Aveva un passo lento e già fin dal tempo mio, 1895, alla gamba destra, leggermente strascicato: un postumo, credo, del primo ictus, non grave e di breve durata, che ebbe dieci anni prima, il 18 marzo del 1885. Benché camminasse nel mezzo, e il portico, laggiù, a quell'ora, fosse quasi sempre deserto, qualcuno che lo incontrasse dava segno, insensibilmente, di rallentare, di trarsi da parte, e quasi con l'intenzione di un saluto che colui non faceva solo per non costringere il professore a rispondere. E quando, le poche volte che li vidi insieme, c'era con lui Severino [Ferrari, nota del redattore], anche Severino mi pareva gli stesse un poco discosto, e un po' indietro. Sotto i portici del Pavaglione, con più gente, fargli posto, salutare, e lui rispondere al saluto toccandosi il cappello, tutto questo era più scoperto e visibile. Poi, infilava la porta della bottega Zanichelli.

Dovunque, lo seguiva reverenza: non dico ammirazione, che è un atto, dico reverenza, che è un affetto.

Dal novembre del 1860, appena venuto a Bologna, diede subito impressione di un professore disciplinatissimo e legatissimo al proprio ufficio; quale fu poi, aveva allora venticinque anni, tutta la vita, fino alla fine. Sì, anche ci furono, in quel primo decennio, gli anni dei primi Giambi ed epodi, bizze e collere e scapestrerie politiche, e il 1867, Roma e Mentana, fu un anno di gran passione; ma la scuola, il suo più caldo e quieto rifugio, non ne fu mai toccata. Ci sarebbe stato allora, nel '67, se avesse avuto séguito, il trasferimento a Napoli decretatogli per punizione dal ministro Broglio: "Ma a Napoli farò mille volte peggio che a Bologna" gridò il Carducci; e al ministro dové scrivere, da Firenze, Gaspare Barbèra: "Me lo lasci stare; poi si cheta; da Napoli la Biblioteca Diamante non me la dirige più". E il Broglio, brav'uomo e valentuomo, e letterato e linguaiolo manzoniano per giunta, cedette lui e revocò il decreto.

In realtà, a parte colore e calore politici e altre fumane e caldane, fuor della scuola e degli scolari, della casa de' libri e degli studi, una vita assolutamente disinteressata, e perciò purissima. E, diciamo pure, anche povera; e non i primi anni soltanto quando, per aiutare, la moglie e la madre lavoravano di cucito. "O nata quando su la mia povera...": rileggiamo sempre con commozione questi versi. Al professore Carducci potremmo fare anche oggi, e mese per mese, i conti delle entrate e delle uscite, e potrei farglieli anch'io, tanto eran poche le voci e smilze le cifre. Il premio Nobel lo ebbe pochi mesi prima di morire; e così naturalmente la pensione di Stato, e l'acquisto de' libri da parte della Regina. E modestissime case abitò. Per quindici anni, dal maggio 1861 al maggio del '76, in via Broccaindosso ("L'albero a cui tendevi... "); per altri quindici anni, all'ultimo piano del palazzo Rizzoli in via Mazzini; e finalmente, nel maggio 1890 (si sa che a Bologna il mese dei traslochi è maggio, e quando arrivò a Bologna in novembre durò fatica ad affittare poche stanze in via del Carbone), andò a stare in via del Piombo, che dava sulle mura di porta Mazzini e con le finestre dello studio verso la campagna. Ma quella ripida scala a chiocciola, gli ultimi anni, che a salirla, mi dice Gigi, non voleva essere aiutato!

E sempre questo gran lavorare, di ricerche storiche e filologiche, che erano il terreno dei suoi studi e saggi e discorsi e lezioni. In quel terreno, tra le fenditure dei solchi e dei còlti, nascevano e fiorivano, a prendere aria e dare aria, le sue poesie. Ma queste poesie, che per noi sono al sommo e al centro, erano per lui come al margine; e poiché di molte poesie, nei manoscritti, si leggono curiose date dell'ora, 11 e mezzo, 12, 12 e mezzo e simili, o del cominciare o dell'aver finito o del correggere, si direbbe che l'immaginativa e l'estro poetico erano come il riposo e la consolazione sulla fine di una mattinata di lavoro.

Tra l'altro, egli fu per più anni segretario relatore della Deputazione di storia patria per le province di Romagna; quindi, delle varie letture che si facevano nelle sedute, e tutte erano letture e comunicazioni di argomento storico, archeologico, antiquario, il relatore doveva stendere una dettagliata relazione che poi si pubblicava negli Atti. Bene: delle letture che fece il presidente conte Giovanni Gozzadini sulle torri gentilizie di Bologna, e che furono, dal 1868 al 1874, più di venti, le relazioni del Carducci occupano oggi cento fitte pagine del volume XXI della Edizione Nazionale; il quale volume è occupato da altre quattrocento pagine di relazioni simili. Non so quale altro relatore, di quale altra maggiore o minore accademia, geloso e avaro, com'è ovvio, del proprio tempo per lavori suoi, sarebbe oggi capace di una fatica così generosa e paziente e di una così scrupolosa diligenza. A Roma nel Consiglio Superiore e in tutte le altre commissioni di cui fosse parte faceva lo stesso. Anche più: una volta all'Accademia dei Lincei la relazione su Minerva oscura di Giovanni Pascoli, la quale avrebbe dovuto scriverla Graziadio Ascoli segretario, la firmò l'Ascoli ma la scrisse il Carducci.

E lasciamo stare tutto il resto del lavoro suo proprio di ricercatore di fonti storiche, di rovistatore per le biblioteche e di editore di testi di lingua inediti o rari, di interprete di scrittori e di poeti, che poi era tutt'insieme il suo massimo e da lui più pregiato ufficio, diciamo pure, il suo mestiere di maestro di scuola, e che occupa oggi la più gran parte dei trenta volumi delle sue opere nella Edizione Nazionale. Pur restandone fuori testi e commenti, come per esempio testo e commento delle Rime di Francesco Petrarca, di lui e di Severino, e che di questi giorni [nel 1957, nota del redattore] presso la stessa casa Sansoni ha ripubblicato devotamente Gianfranco Contini. Disse bene una volta Ettore Sanfelice uscendo di scuola: "Era ancora tutto impolverato della sua fatica". E talvolta anche ostentava, per sua civetteria, massime se vedeva in aula dame e altra gente sciocca e noiosa, quella polvere; e in quella civetteria c'era l'affermazione implicita, e l'ambizione, della severità e nobiltà e dignità, e onestà, del suo magistero. O non ebbe il coraggio, quando sposò la figlia Bice, ed egli ne scrisse l'ode nuziale, di stampare e pubblicare l'ode in appendice a un grosso volume, in ottavo grande, di quasi cinquecento pagine, che aveva per titolo La poesia barbara nei secoli XV e XVI? Povera figlia, perfino qui la polvere erudita!

Ci furono fieri assalti, almeno due, con tutta la massoneria in arme, perché il Carducci accettasse la cattedra dantesca istituita a Roma, su proposta di Giovanni Bovio, con legge del 3 luglio 1887: accresciuto lo stipendio, prebende varie, e libertà di far lezione quando gli paresse e piacesse. E il Carducci no e no: "non sentirsi né preparato né adatto a quello special modo di illustrazione della Divina Commedia che richiedevasi a Roma"; "essere egli il meno disposto, per indocilità di temperamento, a trattenimenti estetici per uso di un pubblico mobile"; e così conchiudeva la lettera ad Adriano Lemmi: "Se ho da fare ancora il professore, sento di non poter farlo utilmente che a patto di poter salutare, ogni volta che vado alla scuola o ne esco, la Torre degli Asinelli. Pare un motto, ma è vero". E il vero più vero è che qui siamo davanti a una incarnata virtus, a una coscienza virile e civile, e a una altezza morale che mi pare difficile incontrarne un'altra più alta. Questo nel 1887. Ci fu un nuovo assalto nel 1889, con più laute offerte e, questa volta, schierato all'assalto e all'assedio, il calibro più potente che avevano, Francesco Crispi. "E' bisogna che senta l'Elvira" disse Carducci a Crispi. E l'Elvira: "O quando mai! o che ci fo io a Roma? e Giosuè a Roma? Andare sì, ma tornare". E così questa volta fu proprio la cara e brava signora Elvira che salvò il suo Giosuè, a sé e a Bologna.

Quanto è bella Bologna, e quanto amata, disse il Carducci più volte. L'unica cosa che di Bologna non gli andava giù, a lui toscanaccio tra fiorentino e pisano e maremmano, erano i ponci: il poncino bollente, con la galleggiante scorzetta di limone, a base di rum e di caffè, di un certo strano caffè che per essere buono il ponce ha da essere men buono il caffè. Ma quanto è anche bella la Bologna proprio del Carducci! La Bologna di quella sera che vennero i Reali; la Bologna della Certosa in mezzo a quella gran pianura estiva di mèssi ventilate dal maestrale; la Bologna di quel vespero d'inverno nella piazza di San Petronio. E di questa Bologna da lui come scoperta e rivelata, e raccontata e cantata, assai riamarono i Bolognesi il loro Carducci, "el noster Cardozz"; tanto lo riamarono che la loro contenuta reverenza si velò di tenerezza e di pianto.

Ora sono, domani l'altro, 18 febbraio, cinquanta anni. Era nevicato la notte prima e la mattina dopo era tutto sereno e bianco, i tetti i colli le torri. Come se il cielo avesse vestito Bologna dei suoi colori più bolognesi e più belli. Quando il corteo funebre, verso le quattro pomeridiane, lasciati a destra i portici della bottega Zanichelli, voltò intorno alle scale di San Petronio ed entrò nella piazza, e in quel momento si udirono alti lenti solenni, i rintocchi della campana municipale, tutti noi che lì nella piazza eravamo, chinammo il capo e piangemmo.

["Il Resto del Carlino", 16 febbraio 1957]

Nota

(1) Carducci e i miti della bellezza, a cura di M. A. Bazzocchi e S. Santucci, Bologna, Bononia University Press, 2007.

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