Rivista "IBC" XVI, 2008, 1

musei e beni culturali / mostre e rassegne, leggi e politiche

"Nòstoi", ritorni: il Quirinale è la prima tappa di un'esposizione che presenta alcuni dei capolavori archeologici illecitamente esportati all'estero e finalmente rimpatriati.
La bellezza restituita

Stefano De Caro
[direttore generale per i beni archeologici, Ministero per i beni e le attività culturali]
Maria Pia Guermandi
[IBC]

Bellezza. È questo il fil rouge più evidente che accomuna i 67 reperti esposti a Roma, fino alla fine di marzo 2008, nella Sala delle Bandiere e nelle Sale della Galleria di Papa Alessandro VII del Palazzo del Quirinale. Mostra davvero particolare, questa, per genesi e obiettivi; non risultato di una ricerca scientifica o di un ritrovamento condotto secondo i dettami della disciplina archeologica si tratta, ma di un ritorno: nòstoi, ritorni, recita appunto il titolo dell'esposizione, di cui sono già in programma ulteriori allestimenti.1 Gli oggetti esposti sono infatti il frutto, certamente importante per livello qualitativo intrinseco, ma ancor più forse per valore simbolico, di una lunga querelle che ha visto contrapposti, per anni, il Ministero per i beni e le attività culturali e una serie di istituzioni americane, dal Getty Trust al Museum of Fine Arts di Boston, dal Metropolitan Museum di New York all'University Museum of Art di Princeton, e da ultimo finanche a un gallerista privato, quale il titolare delle Royal Athena Galleries di New York, per annoverare solo quelle coinvolte nell'esposizione.

La diaspora di materiali archeologici dal nostro Paese fa in certo modo parte della storia stessa dell'archeologia, sì che un filone non minore del costruirsi di una coscienza civile, non solo italiana, riguarda l'emergere di una consapevolezza volta alla tutela e il suo fissarsi nella legislazione a salvaguardia del patrimonio archeologico e storico-artistico, dai primi editti papali fino all'articolo 9 della Costituzione italiana, passando per nodi ideologici fondamentali - come le Lettres à Miranda sur le déplacement des monuments de l'art de l'Italie di Quatremère de Quincy(1796) o il famoso discorso di Francesco De Sanctis, Brevi osservazioni sull'archeologia considerata rispetto alle scuole, che nel 1845, al V Congresso degli scienziati italiani a Napoli, richiamava gli italiani a questi studi quale atto di amor patrio - e giungendo all'elaborazione delle nostre leggi, progressivamente sempre più articolate e sistematiche, del 1902, 1909 e 1939. Ciò nondimeno, è un dato storico altrettanto significativo il fatto che l'emorragia di materiali archeologici dal nostro Paese non sia mai cessata, e anzi abbia conosciuto nel dopoguerra, in vaste aree dell'Italia, l'intero Mezzogiorno, la Sicilia, il Lazio e la Toscana, un'accelerazione disperante.

Molti i fattori di questo grave fenomeno: la rapidissima trasformazione dei modi d'uso del territorio (l'agricoltura meccanizzata, la crescita degli insediamenti urbani) che hanno moltiplicato le occasioni di rinvenimenti fortuiti, l'insufficiente capacità di controllo del territorio da parte delle soprintendenze, l'insinuarsi nel settore degli scavi clandestini della malavita organizzata in collegamento con i mercanti stranieri, l'accresciuta richiesta di oggetti da parte di musei e collezionisti, la mancanza di una condivisione internazionale dei principi di tutela del patrimonio archeologico pur posti alla base di solenni dichiarazioni di principio, come la Convenzione UNESCO del 1972 per la protezione del patrimonio culturale e naturale dell'umanità.2

Almeno una generazione di archeologi italiani è cresciuta con la consapevolezza di una perdita incombente e progressiva. Consapevolezza formatasi in anni di scavi di emergenza fatti in gara di tempo con i clandestini, di sopralluoghi su siti di necropoli e santuari devastati, di testimonianze in processi penali, ma anche di collaborazione con le forze dell'ordine e la magistratura, di discussioni appassionate con uomini politici, pubblici amministratori e colleghi, italiani e stranieri, sensibili al problema. Questi ultimi si sono divisi per molto, troppo, tempo tra i difensori del diritto di utilizzare i frutti del saccheggio in nome di una storia dell'arte antica realizzata "a prescindere" dagli strumenti di acquisizione dei nuovi materiali e quelli che, soprattutto nelle scuole archeologiche operanti in Italia, erano più consapevoli dell'enorme perdita di dati scientifici e culturali in senso ampio che si stava consumando nei nostri siti archeologici. La prospettiva che si voleva costruire in piena condivisione con i colleghi stranieri non era quella meramente patrimoniale (pur se del tutto legittima sul piano strettamente giuridico) né tanto meno quella nazionalistica dell'archeologia, ma quella scientifica, e soprattutto eticamente legittimata, del rispetto del contesto di provenienza e di una circolazione "sostenibile" dei materiali archeologici, per ragioni di studio e di esposizione, nel quadro di un'ampia collaborazione internazionale.

Questo spirito - che trovò una sua prima formulazione nel 1988 nella "Dichiarazione di Berlino", con cui molti musei con collezioni di antichità si imposero di astenersi dall'acquisto di opere d'arte la cui provenienza non fosse assolutamente chiara e legittima, per poi trovare un'ulteriore applicazione nel successivo "Memorandum of Understanding" Italia - USA (2001) sulla moratoria delle importazioni statunitensi di materiali archeologici di provenienza non chiaramente documentabile, e poi in analoghi accordi con la Germania (2002), con la Cina e con la Svizzera (2006) - ha informato la politica archeologica italiana degli anni successivi per arrivare fino al contesto odierno, in cui la mostra del Quirinale costituisce non solo un punto di arrivo di un percorso giuridico-culturale, per quanto importante e prestigioso, ma anche e soprattutto il punto di partenza di un cammino di conoscenza condiviso e pertanto potenzialmente molto più fruttuoso.

Il maturare di una prospettiva condivisa si è tradotto anche in un ampliamento dei percorsi di ricerca comuni: l'Italia ha favorito infatti, in misura sempre più cospicua, gli scavi archeologici delle missioni straniere sul proprio territorio (26 concessioni nel 2006), senza contare le collaborazioni in diverso regime tra soprintendenze e istituti o singoli studiosi; ha inoltre modificato di recente la propria legislazione in modo da favorire la possibilità di prestiti di lunga durata di materiali archeologici all'estero in modo tale da consentirne lo studio, oltre che l'esposizione, da parte di università e musei. Che l'operazione "Nòstoi" non sia da leggere come un soprassalto di nazionalismo revanscistico, ma piuttosto come il conseguimento di un più ampio livello di consapevolezza culturale sta a dimostrarlo la richiesta del governo greco di partecipare all'esposizione romana, con la kore anch'essa restituita dal J. Paul Getty Museum. Testimonianza ulteriore non della vittoria di un contendente sull'altro, ma di quel sistema di regole e principi che, frutto di una più ampia condivisione, riesce veramente a costituire un traguardo di civiltà da questo momento irrinunciabile.

I reperti esposti in mostra, diversi per epoca, ma tutti collocabili all'interno di una forbice temporale che va dal VII secolo avanti Cristo al II secolo dopo Cristo, sono diversi anche per provenienza: dall'Etruria storica al Lazio, all'area vesuviana, alla Puglia, alla Sicilia. Diverse le tipologie, le classi, le funzioni, diverse le iconografie. Davvero il comune denominatore, oltre all'appartenenza a un arco temporale che li colloca nella sfera preziosa delle "antichità", è la loro bellezza, seppure declinata attraverso modalità stilistiche affatto diversificate, da quella più compiutamente classica di taluni vasi attici, alle ipertrofie animalesche di un oggetto d'arredo, all'illusionismo prospettico o al decorativismo squillante degli affreschi romani. Esula dall'ambito della bellezza artistica per iscriversi in quello ancora più rilevante, ai nostri occhi, della storia, un reperto epigrafico eccezionale quale la lex sacra siciliana da Selinunte.

Solo per citare alcuni dei pezzi più famosi e importanti, nel campo della ceramica dipinta, che rappresenta la categoria più documentata, si segnalano esemplari davvero eccezionali per soggetti e livello stilistico delle raffigurazioni. Si va dal celeberrimo cratere di Euphronios,3 già al Metropolitan (con la toccantissima scena, quasi una Deposizione pagana, del compianto sul corpo di Sarpedonte, caduto sotto le mura di Troia), alla straordinaria evocazione, ancora del grande ceramografo attico, della Ilioupersis sulla kylix da pochi anni nuovamente esposta a Villa Giulia. Dall'abilità calligrafica con cui Epitteto disegna i suoi personaggi inscrivendone le sagome con straordinaria inventiva nei difficili tondi delle sue coppe, alla sapienza compositiva con cui il pittore di Berlino inserisce sulla lucida superficie ceramica i suoi personaggi, icasticamente isolati eppure in muto colloquio tra di loro e con la struttura geometrica del vaso, a cui li associa una sottile ma precisa serie di richiami formali. Dalla straordinaria citazione di una commedia del grande Aristofane, Gli Uccelli, all'inesauribile fascino dei grandi temi mitici, inesauste icone di un canone culturale, o dei più semplici vasi configurati che, evocando i suoni e i canti del banchetto, rimandano a una delle pratiche più celebrate attraverso cui si definiva l'identità aristocratica greca.

L'Etruria è rappresentata attraverso oggetti di altissimo artigianato: alcuni vasi, due statuette bronzee, un'antefissa, uno specchio. Mentre, dovunque sia da collocare l'atélier che li ha prodotti (Atene, Asia Minore?), appartengono invece alla cultura della Magna Grecia alcuni degli oggetti fra i più rilevanti della mostra per unicità di attestazione, oltre che per esuberanza compositiva quasi barocca in un caso e raffinatezza iconografico-cromatica nell'altro: uno splendido trapezoforo in marmo con grifi che sbranano una cerva e l'altrettanto spettacolare bacino dipinto con figure di Nereidi, testimonianza oltretutto rarissima della pittura antica su un supporto non ceramico. L'arte romana, che poco si rappresentò nei corredi tombali, è fatalmente quella meno documentata. Ma vi sono, fra gli oggetti esposti in mostra, gli arredi delle antiche ville d'otium della Campania e del Lazio, sparse in un territorio oggi investito da un'incontrollata espansione edilizia: alcuni frammenti di affreschi da ville dell'agro pompeiano e la straordinaria maschera eburnea della villa di Cesano, lavorata con tecnica affine a quella delle grandi statue classiche crisoelefantine, o la solenne figura dell'imperatrice Vibia Sabina, moglie di Adriano, significativa opera di un'officina che lavorava per la corte imperiale.

La bellezza, dunque, come filo conduttore. Ricucendo, lungo il filo della storia, il destino di queste e di tante altre opere che hanno girato per le collezioni di tutto il mondo, si può comprendere che per i loro acquirenti, privati e pubblici, sia stato difficile resistere a tanta bellezza e a quella seduzione dell'antico che, dall'alto Medioevo in poi, i testimoni della civiltà classica non hanno mai cessato di esercitare. Il ritorno all'antico è davvero una delle grandi, ininterrotte correnti che, come poche altre, connotano la nostra cultura occidentale, a volte in forme più mediate, ma spesso con atteggiamenti di ammirazione sconfinata che hanno saputo suscitare quell'"insaciabile desiderio" a cui Isabella d'Este riconnetteva la radice di una delle raccolte d'arte rinascimentali più straordinarie, per qualità, quantità e vicende. E i grandi musei che arricchiscono la scena culturale di tante città sono, in fondo, gli eredi spesso diretti di questo fenomeno culturale.

E tuttavia questa mostra sottolinea anche come la bellezza sia destinata a rimanere una seduzione volatile, spesso addirittura ingannevole, se non viene accompagnata dalla memoria storica. Come è ben noto, i reperti trafugati, avulsi dal loro contesto di ritrovamento, diventano testimoni improvvisamente muti, in quanto solo attraverso il recupero integrale della documentazione di corredo, così come avviene per mezzo di uno scavo stratigrafico, è possibile datarli con precisione, collocarli in un orizzonte culturale definito: in una parola, ricostruire la loro storia e renderli essi stessi testimoni narranti delle passate vicende. A chi apparteneva l'anfora di Faillo? Era un uomo o una donna il defunto sepolto col cratere che reca alcune singolari divinità della cerchia di Ge? Forse, se avessimo avuto il corredo per intero, potremmo rispondere a queste domande. Purtroppo, dobbiamo solo accontentarci della loro pur grande bellezza, e rimpiangere che quei barlumi di storia che ci fanno intravedere non possano risplendere di più. Mai più.

Se questa perdita è grave, un risarcimento della lacuna, sia pur parziale, è tuttavia ancora possibile. Dopo questa mostra, infatti, gli oggetti esposti, ricollocati per quanto consentito dai confronti stilistici e morfologici, nei contesti culturali di provenienza, saranno presentati nei musei delle relative aree di pertinenza, accanto ad altri oggetti affini per cronologia e ambito culturale e geografico, a riprendere quel colloquio interrotto che costruisce la trama della storia e a dimostrazione, di immediata evidenza visiva, di quanto potere evocativo e di quale capacità didattica possano innescare queste operazioni di ricontestualizzazione.

Questa mostra, risultato di un successo di quella diplomazia culturale condotta dal Ministero per i beni culturali, rappresenta un punto di svolta simbolico dell'atteggiamento di alcune grandi istituzioni culturali americane nei confronti delle antichità e del patrimonio culturale in genere del nostro Paese. È questo uno dei traguardi a cui quella civiltà, che ha prodotto quelle stesse opere, ci ha condotto: il patrimonio storico-artistico e archeologico deve essere affidato "in custodia" agli eredi dei popoli che l'hanno prodotto, perché lo tutelino nella sua pienezza di testo e contesto, ma, dal punto di vista simbolico, appartiene all'intera umanità. Al posto degli oggetti restituiti, nelle sale delle istituzioni nordamericane arriveranno presto, seppur temporaneamente, altri reperti provenienti dai nostri musei, questa volta arricchiti da quel corredo di memoria culturale che li rende ancora più preziosi e comprensibili. E gli stessi musei e università potranno, se lo desiderano, collaborare con noi a restaurare, studiare, e perché no, scavare nuovi contesti di materiali, la cui conoscenza rappresenterà un acquisto più duraturo e solido di quanto possano essere anche i più bei vasi dell'antichità.

La bellezza ha bisogno di essere spiegata se non vuole rimanere una pura percezione estetica, e se non vuole rimanere un'attività elitaria, riservata a pochi degustatori, ha bisogno della "didascalia" della storia e dell'analisi storico-artistica e culturale in senso ampio, che, sole, possono rendere meno disperatamente straniera, per dirla con Moses Finley, quella civiltà della quale è frutto. Così che sia possibile, dall'altra parte del mondo, "sedendo e mirando" di fronte a queste nuove opere, ascoltare la voce "delle morte stagioni" e attraverso queste comprendere qualcosa di più "della presente e viva" e ricavare, da questo momento di riflessione e contemplazione, quella "profondissima quiete" che un'esperienza di conoscenza può regalare. E perché davvero, anche attraverso la loro bellezza "interpretata", questi oggetti divengano per noi come la siepe leopardiana che spalanca gli orizzonti della civiltà e della storia.


Note

(1) "Nòstoi. Capolavori ritrovati", Roma, Palazzo del Quirinale, 21 dicembre 2007 - 30 marzo 2008 (www.quirinale.it/palazzo/arte-cultura/mostre/2007_nostoi/nostoi_2007.htm).

(2) Sulla mancata osservanza, tra l'altro, delle convenzioni dell'United Nations Educational Scientific and Cultural Organization, soprattutto in occasione di conflitti bellici, si veda: M. P. Guermandi, L'archeologia al tempo della guerra, "IBC", XIV, 2006, 1, pp. 34-37; sui rapporti tra collezionismo, musei internazionali e mercato illegale delle opere d'arte: F. Di Valerio, Le magnifiche prede, "IBC", XI, 2003, 3, pp. 45-48.

(3) Sulla vicenda del cratere di Euphronios: F. Di Valerio, E Pandora sta a guardare, "IBC", XV, 2007, 2, pp. 34-36.

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