Rivista "IBC" XVII, 2009, 4

biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

Il centenario di Giulio Cesare Croce si conclude con un'esposizione bolognese. Tutta dedicata alle stagioni del cantimbanco che inventò il personaggio di Bertoldo.
Un cronista di 'traffichi e negozii'

Andrea Battistini
[docente di Letteratura italiana all'Università di Bologna]

Dal 28 ottobre 2009 al 30 gennaio 2010 la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio propone la mostra "Le stagioni di un cantimbanco. Vita quotidiana a Bologna nelle opere di Giulio Cesare Croce". Organizzata dal Comitato nazionale per il IV centenario della morte di Croce, dalla Soprintendenza per i beni librari e documentari della Regione Emilia-Romagna, dalla Biblioteca dell'Archiginnasio e dalla Biblioteca Universitaria di Bologna, l'esposizione prende le mosse dall'antico legame tra le stagioni e la vita degli abitanti della città e del contado, per testimoniare la fortuna editoriale delle due opere più conosciute di Croce, il Bertoldo e il Bertoldino. Pubblichiamo la parte finale di uno dei contributi inseriti nel catalogo: il volume, curato da Zita Zanardi per i tipi dell'Editrice Compositori, è stato pubblicato nella collana "Immagini e documenti" dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.


Lo sguardo con cui Croce osserva la sua città d'adozione è [...] molto diverso da quello dei tanti viaggiatori attratti dall'arte e dalla cultura fiorite intorno all'Alma Mater Studiorum. Il figlio del fabbro di San Giovanni in Persiceto non si sofferma davanti ai monumenti, non visita le pinacoteche, non sale le scale austere dell'Archiginnasio, non entra nelle cattedrali, se non per un atto di compunta devozione. Dedica, è vero, componimenti alla statua del Nettuno (Ambizione del Nettuno della Fontana, Barzeletta del Gigante della Fontana con la Piazza, Bravata del Gigante della Fontana con la Piazza, Lamento del Nettuno della Fontana, Invito amorevole che fa il Gigante della Fontana di Bologna a tutti quelli che [...] non hanno potuto empire le loro botti di vino quest'anno), ma solo perché Bologna era città delle acque, con il "picciol Reno", il Savena, i canali, i navili, i mulini, le lavandaie. A interessarlo sono le attività produttive, che guidano la sua Musa domestica ai filatoi, alle concerie, alle fucine, alle botteghe degli artigiani. Presa nel suo insieme, la sua prolifica bibliografia forma idealmente un'enciclopedia di tutti i mestieri e le professioni, una sorta di traduzione in versi della Piazza universale di Tomaso Garzoni. E insieme con l'asprezza del lavoro e della fatica, ecco il loro controcanto della festa, della risata, delle chiacchiere, del gioco d'azzardo, delle bevute, che, in una società che si accontentava di poco, avevano il loro regno nelle osterie, in gran numero della Bologna di quel tempo, come ci testimoniano le loro insegne disegnate da Giuseppe Maria Mitelli e gli elenchi dello stesso Croce.

Le taverne, le bettole, gli osti, i brentatori, i bevitori costituiscono per il loro cronista sfaccendato un microcosmo privilegiato, una varietà poliedrica che rispecchia il caos dell'esistenza con la baraonda, l'estro irridente, il chiasso festoso, la trasgressione linguistica. Alcuni anni dopo i suoi sonetti sulle Disgrazie del Zane che in un'osteria viene assalito dai banditi o la storia del Bevante che quasi morse in una osteria, un letterato spagnolo, Rodrigo Fernández de Ribera, dedicava un libro intero a El Mesón del Mundo, ossia all''Osteria del Mondo', nel quale stabiliva una perfetta equazione tra l'esistenza dell'uomo e la vita animata nelle taverne. Dal canto loro le crocesche Conclusiones mathematicae di Boccale Tracannanti Monteflasconensis, esposte nell'osteria bolognese del Chiù e dedicate a Grugno Porcello Corcocta, non sono soltanto un semplice divertissement di tipo folenghiano, ma la versione picaresca e goliardica del serioso mondo accademico. D'altronde, Don Chisciotte non scambia forse un'osteria per un castello? La differenza è che nelle bettole domina il tempo dell'avventura, degli incontri fortuiti, delle bevute conviviali, delle situazioni bizzarre, della pura casualità. Per questo non sono pochi gli scritti di Croce che nel titolo sottolineano l'irruzione di elementi affatto accidentali: A caso un giorno mi guidò la sorte, A caso un giorno alla roversa, A caso un giorno burlesco... E il loro autore, assuefatto ai capricci della sorte e a un'esistenza precaria e traballante, si trova bene nei luoghi dove ci si incontra per caso e si può fraternizzare con il prossimo, anche se non lo si conosce. "Ver è ch'io posso andar in ogni via", si vanta in una terzina autobiografica, "che quando tengo la mia lira meco, / io posso dir d'avermi un'ostaria".

Per lui, incapace di conquistarsi una promozione sociale, il tempo non è quello teleologico dell'ascesa, il dopo non è mai migliore del prima. La piazza, le strade, le taverne non fanno che riprodurre sempre gli stessi incontri, diversi nelle contingenze più minute ma in fondo senza vere sorprese, nel loro immutato riproporsi. Croce non fa grandi progetti, non vede la sua vita in crescita: si accontenta del suo canto e, a parte qualche momento di sconforto nella vecchiaia, nel tempo malinconico dei bilanci, resta sempre uguale a sé stesso, tanto che riesce oggi impossibile datare le sue opere edite senza data o dopo la sua morte. Semmai, in virtù dell'origine campagnola, è legato a una concezione circolare del tempo, all'eterno ritorno delle stagioni. Nel Capitolo in lode del pane si seguono passo passo tutti i mesi dell'anno, o meglio delle costellazioni, da quando il sole è in Acquario, allorché "perde quella / forza c'haveva, e scurta le giornate", a quando giunge in Capricorno, quando cioè "secondo l'uso / finisce l'anno, e la stagion si spaccia". E non c'è poesia che non dedichi qualche verso alle condizioni climatiche e ai suoi effetti sugli uomini, fino a dare quasi l'impressione di un Croce meteoropatico, se non fosse che i suoi ciclici sbalzi di umore non sono dettati da turbe psichiche individuali, ma dalle condizioni materiali causate dal tempo atmosferico.

A gennaio "'l freddo verno i poveri flagella", ma già con il sole in Ariete "il mondo si rallegra, e la campagna / di vago manto tutta si rinnova". A maggio, quando il sole "comincia a prender forza, [...] la terrena / mole a nova allegrezza s'avvicina". E con i Gemelli "Cerer si veste di colore, / e si risveglia ogn'amoroso petto", finché poi si raggiunge la fase canicolare del Leone, in cui il sole "ha in sé maggior fortezza, / e doppiamente scalda l'hemispero", predisponendo al tempo della vendemmia, quando, nell'equilibrio della Bilancia, "par ch'ogni cosa sia perfetta, / e che la terra grand'util n'apporte". Sennonché la ruota del tempo non si arresta, e ritorna inesorabile "il gielo / ch'a i nidi lor fa ritirar gli uccelli" e "i poverelli aggiaccia, / che aspettano di morte il crudo telo". L'immutabile scansione del tempo è vista da Croce nelle sue conseguenze sugli uomini, anche se non sono uguali per tutti. Il "crudo verno", annunciato altrove da Gianico, "ambasciator del freddo", si ripresenta con il solito corteggio delle "bianche brine", delle "tenebre", della "mestizia", della "neve con la pruina", in linea con una lunga tradizione letteraria che si potrebbe fare risalire addirittura al Dante della canzone Io son venuto al punto de la rota, che al pari di Croce descrive il processo di pietrificazione dovuto alla paralisi recata dal ghiaccio. È però un'esclusiva del cantimbanco bolognese la denuncia della disuguaglianza tra la condizione dei poveri, che non possono combattere il freddo perché "disforniti / d'ogni cosa", e quella di chi possiede la ricchezza, che "con il foco / si difende".

La neve caduta in "grandissimo profluvio", l'"estremo freddo" per cui "i poveretti [...] s'agiaccian fin ne i letti", la "longa pioggia" che impedisce di mietere il grano, destano nel loro bardo una commozione sincera per le sofferenze causate ai miserabili, ai mendicanti, a chi non ha nemmeno un tugurio dove ripararsi, ma non l'indignazione, dal momento che l'alternanza delle stagioni reca anche i giorni propizi. Con la primavera finiscono lo sconforto e la denutrizione,


né più si vederan sopra il letame

star tanti meschinelli, afflitti e smorti,

involti ne la paglia o ne lo strame.

Saran per l'avvenir gl'uomini forti,

fieri e robusti, e prenderan vigore,

non debil come prima e semimorti;

tornerà ne le faccie il buon colore.


Ed è significativo che il Contrasto piacevole fra la state et il verno si risolva senza un vincitore, come si potrebbe supporre dopo i tanti "lamenti" contro il freddo "aspro e crudele", in quanto, democraticamente, "i comodi et incomodi" alla fine si distribuiscono equamente in ogni stagione. In effetti ogni tempo dell'anno ha i suoi positivi riti folclorici, nessuno dei quali è taciuto da Croce: l'allegria del Carnevale, la penitenza della Quaresima, il bailamme del giorno di San Michele, deputato ai traslochi, la discesa della Madonna di san Luca, le feste solstiziali di san Giovanni, le ricorrenze agostane dell'Assunta e di san Bartolomeo, in cui dal palazzo del Comune si gettava al popolo una porchetta, i momenti autunnali della vendemmia e, per san Martino, la degustazione del vino nuovo, fino alla consacrazione del Natale, quando "degli Angioli il drappello / canta in aria gloria e pace". Evidentemente in Croce il tempo del mercante, governato da "traffichi e negozii", "intrichi, rumori, chiacchiare, viluppi, fracassi", convive benissimo con il tempo della Chiesa. In fondo, quando la liturgia assume le vesti delle tradizioni popolari, il suo scenario è lo stesso del mondo dei commerci e degli affari, una volta di più convergente sulle piazze di un paesaggio urbano.

In verità, anche per Croce vale più che mai la constatazione di Piero Camporesi, secondo cui, ripercorrendo Le belle contrade d'Italia attraverso le loro descrizioni storiche, non si può ancora parlare di paesaggio, ma di paese, considerato che almeno fino al Settecento i luoghi non si contemplano ancora con l'occhio disinteressatamente incline a cogliere la loro componente estetica, ma con un'attenzione pressoché esclusiva agli aspetti antropici, all'ambiente, alle implicazioni economiche. Nell'età in cui Vannoccio Biringuccio redigeva il trattato De la pirotechnia, summa delle conoscenze minerarie e metallurgiche di metà Cinquecento, seguìto qualche anno dopo dal De re metallaria di Giorgio Agricola e, sul piano delle applicazioni ingegneristiche, dalle Diverse et artificiose macchine di Agostino Ramelli, il paese è osservato soprattutto facendo caso "sia alla produzione e alle attività manifatturiere, sia a tutto ciò che simboleggiava il rovescio del lavoro e il rigetto della fatica manuale".

A conferma, Camporesi chiama a testimone Teofilo Folengo, che nel Baldus, giunto con la sua rassegna delle città italiane a Milano, la descrive come un luogo in cui "tich toch resonat cantone sub omni, / dum ferrant stringas, faciuntque foramina gucchis". A Bologna Croce non è da meno, ricorrendo alla stessa forma percettiva che privilegia l'udito sulla vista. La città doveva essere immersa nello strepito dei venditori ambulanti, che gareggiavano nell'urlare più forte per attirare i possibili acquirenti. "E di questo, e di quello, / sopra ogn'arte che fanno e ogni mestiere", ricorda il cantastorie frastornato, "s'odono i gridi tutto il giorno intiero". E, appostatosi "in piazza", si mette in ascolto di quelle voci arrochite, trasponendone le grida in dialetto. Era questo il basso continuo di una colonna sonora regolata da disposizioni acustiche, che andavano dalla voce stentorea dei banditori accompagnati da un trombetta che richiamava l'attenzione dei passanti alla campana della torre comunale che ritmava le ore della giornata lavorativa. "La campana del Torazzo", recitano alcuni ottonari croceschi,


la mattina quando suona,

proprio par che 'l ciel intuona,

e che dica in suo parlare

su, su tutti a lavorare.


I suoi rintocchi mettono in movimento la città, con gli artigiani e gli operai che le rispondono con i rumori dei loro arnesi.

Si direbbe che Croce, più che vedere, ascolti la voce della città, registrando i lamenti e i pianti dei derelitti, gli schiamazzi sguaiati degli ubriachi, i litigi delle lavandaie, il frastuono assordante di certi momenti, come nel giorno di san Michele, in cui i pigionanti facevano trasloco da una casa all'altra. "Alli otto del mese / di maggio", racconta compiaciuto, "andavo per veder sgombrare / per le contrade, e per udir cridare". Può così farsi testimone - più acustico che oculare - del


cridalesimo, il gran mesedamento,

le dispute, il rumor, e 'l travagliare,

lo spezzar de' catin, pentole e tazze,

con certe parolazze

usate da diversi pigionenti.


A questo berciare le sue orecchie erano per altro addestrate perché ogni anno, qualche mese prima, in occasione del carnevale, Bologna veniva investita da una sarabanda indiavolata di "canti, suoni, balli, giostre, bagordi, e conviti", come si legge nella Solenne e trionfante entrata dello squaquaratissimo, e sloffegiantissimo signor Carnevale in questa Città. Le feste erano sempre molto rumorose, al punto che Croce immagina il placido Reno che, arrivando a Bologna le chiede:


che rumor di tamburi, e suon di trombe,

che tirar di bombarde in tutti i lati

sent'io, che par, che Felsina rimbombe?

Che gran copia di fuochi artificiati

veg'io girar? Che risonar di squille,

che applausi, che trionfi alti e pregiati?

Che folgori son quei, che a mille, a mille

vedo salire in alto, e formar tuoni,

che par, che tutta l'aria arda, e sfaville?

Che musiche, che piffari, che suoni

son questi, che armonie, che dolci accenti,

de' quai la terra, e 'l mar par che risuoni?


In questo caso la città festeggia la nomina cardinalizia di un suo figlio insigne, Guido Pepoli, ma il baccano investe tutti senza distinzioni, compresi i ribaldi e i parassiti, come Gian Pittocco, quel personaggio di Croce che pregusta una sera all'ospizio dei poveri "dove saranno gionti altri forfanti, / e quivi appresso a un foco badiale, / allegri mangiaremo in suoni e canti". Del resto, si può comprendere come, in una società repressiva, lacerata dalle grida dei torturati, come si intuisce nei due capitoli croceschi sulla prigione, dove ogni carceriere "ha certi suoi stromenti musicali, / con cui gli fa cantar meglio di vui", il fracasso e la cagnara fossero una delle poche, innocue trasgressioni consentite, talmente abituali da soverchiare in città ogni voce della natura. Mentre il gelo dell'inverno costringe taluni animali al silenzio, così inusuale da essere notato dall'attento narratore ("Né udransi rochi accenti / de grilli e di cicale / di vespe e di cenzale / empie e scorette, / non s'udiran civette, / né cuchi né fanelli / ma pàssare, fringuelli / e reatini"), non cessa il trambusto degli uomini, senza che l'abbondanza della neve caduta lo possa ovattare: "E così in ogni strada / ci son rumori, e intrichi a tutto andare. / Che questa neve ogn'un fa travagliare".

Questi pochi esempi confermano la piena appartenenza di Croce a quella generazione pregalileiana di uomini avvezzi, per dirla con Lucien Febvre, a stare "a pieno-vento". Se noi oggi - è la sua disamina - "siamo uomini di serra", loro vivevano "all'aperto, [...] vedevano, ma anche sentivano, annusavano, ascoltavano, palpavano, aspiravano la natura con tutti i loro sensi". In effetti la percezione privilegiata era, oltre che dei rumori, quella degli odori e non a caso la poesia crocesca è, insieme, piena di rumori e carica di profumi. Ad attirare i bolognesi sulla piazza dove d'agosto si celebra la festa della porchetta sono i piaceri olfattivi della carne arrostita "ch'a torno sparge mille grati odori", essendo dentro "tutta piena / di perfetta speziaria, / ch'un odore attorno mena / per la Piazza, e in ogni via, / tal ch'ogn'uomo ne desia". Purtroppo però non c'erano solo le sensazioni olfattive piacevoli, le stesse che in una fantasiosa Cosmografia poetica faceva sognare "le rose / di Pesto molto grate et odorose" e i "mille odori" d'Arabia. In una Bologna in cui l'immondizia era gettata sulla via, e dove sotto le due Torri pascolavano liberamente asini e maiali, il lezzo nauseabondo doveva farla da padrone incontrastato, emanando fetori insopportabili. Dei cicalamenti delle lavandaie Croce riporta il loro disgusto nel dovere portare a vuotare per strada "i pissadur, / e i cantar [...] ch'd'l volt iz fan astumegar". E una di loro, abitante in "Sfregatet" (l'attuale vicolo della Neve), dice che suo marito "no vol miga più star, / ch'al i è una puzza ch'al n'si pò durar". Né è detto che dove intende trasferirsi, in via Malpertuso, si stia meglio, visto che l'etimo del toponimo significa 'cattivo pertugio'.

Non era dunque facile vivere a Bologna ai tempi di Croce, qualche volta tentato di andarsene per sempre, in verità non tanto per le condizioni igieniche, precarie ovunque, quanto per la scarsa generosità dei suoi patroni. "S'io avessi mille scudi d'entrata" confidò una volta dopo avere goduto il clima mite di Savona, sede di "grasse ville e bei giardini / pieni d'aranci e cedri saporosi", "mai più a Bologna voltarei il piede". Ma erano solo pronunce velleitarie, ubbie suscitate da paturnie passeggere. Gli bastò passare in rassegna una Scelta artificiosa di settecento cognomi delle famiglie di Bologna, che gli manifestavano "il viver signoril, senza menzogna, / de la madre de' Studi alma Bologna", per convincersi a "lasciar attorno andar chi vuol andare, / e ne la patria mia voler restare". Anche se mai aveva potuto frequentare la sua Università, il modesto cantastorie era affascinato dalla "madre de' Studi". In fondo, un poco di quella gloria ridondava anche su di lui. E cimentandosi in un Ritratto della città che forse ricalca involontariamente lo schema umanistico di una laus Bononiae, ricorreva alla prosopopea facendole dire: "d'ogni scienza son madre; onde a me viene / per apprender dottrina, immenso stuolo, / come a le scole de la dotta Athene".

Senza volere affatto competere con Pompeo Vizani, un suo mecenate autore di una monumentale storia di Bologna, si provò perfino di tracciare un Breve compendio de' casi più notevoli occorsi nella città di Bologna, nel quale ribadì, questa volta con un'allocuzione, che "tu sei grande e potente, unica, e rara, / e fra le prime annoverar ti puoi", professandosi "pronto sempre a cantare le tue eccelse, e gloriose lodi" in cambio di qualche modesto segno di liberalità. Era alla fine naturale che, dopo qualche tentennamento, Giulio Cesare dalla Lira decidesse di "abitar in questo bel paese". "Dove nato son, voglio morire", è stato il suo epitaffio. Nessuna meraviglia, allora, se a quattrocento anni dalla morte la sua città si sia adoperata per ricordare con una mostra, con un catalogo e con altre iniziative il "bolognese arguto" che tante volte ne ha raccontato le opere e i giorni.

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