Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4

Dossier: Sono vecchie queste regioni? - Dalla politica di Augusto all'Italia della Costituzione

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Le ragioni del territorio

Guido Fanti
[primo presidente della Giunta della Regione Emilia-Romagna]

A quarant'anni dalla fondazione delle regioni, c'è chi ne parla come di uno strumento vecchio, superato. Io penso, invece, che siano delle quarantenni del tutto giovani rispetto alla storia. Ma è pur vero che stiamo attraversando un momento molto grave nel rapporto tra le istituzioni locali (regioni, province, comuni) e il governo centrale. È una crisi profonda, che va al di là delle piccole questioni conflittuali e anche dei grandi problemi economici, per investire proprio l'assetto istituzionale del nostro Stato. A seconda del modo in cui verrà risolta questa crisi, che deve essere risolta, sarà possibile pensare a uno sviluppo democratico delle istituzioni, oppure, al contrario, si assisterà a un'involuzione antidemocratica del sistema italiano.

Il 1970 è stato un anno molto importante per l'attuazione dell'ordinamento regionale, iscritto nella Costituzione con indirizzi e indicazioni ben precisi: lo Stato non doveva rimanere chiuso in un rigido centralismo, ma andava sorretto e articolato in un sistema democratico decentrato. Avevamo aspettato a lungo che questo dettato costituzionale venisse attuato, spingevamo in quella direzione fin dagli anni del dopoguerra. Dal 1945 in avanti, con la ricostruzione, nelle varie realtà regionali non si era rimesso in piedi soltanto il patrimonio edilizio distrutto nel conflitto, ma anche il sistema politico.

Qui da noi, in quegli anni, dalle zone di pianura e di montagna, ottocentomila contadini si sono riversati nelle città della via Emilia. Qualche giorno fa, visitando una scuola in cui si insegna l'italiano ai giovani che vengono dai vari paesi del mondo, mi sono tornate alla mente le immagini simili degli anni Cinquanta, quando nelle sezioni di partito, o nelle parrocchie, si insegnava a leggere e scrivere a chi era appena arrivato in città. In pochi anni, questo movimento di crescita culturale è riuscito a determinare una nuova condizione sociale dei cittadini, permettendo loro di partecipare alla vita democratica, di eleggere i nuovi consigli comunali, di essere eletti al loro interno e diventarne capaci amministratori.

Il momento di costruire le regioni, insomma, è stato atteso e sollecitato a lungo. Nel 1970, quando è finalmente arrivato, è divenuto il punto di partenza: volevamo fare in modo che da questa nuova realtà istituzionale, che interessava tutte le regioni italiane, nascesse un nuovo modo di governare anche a livello centrale il nostro Paese. Ma per far questo occorreva che le regioni partecipassero all'elaborazione del programma economico nazionale. In quel momento il governo aveva la necessità di elaborare una politica di programmazione generale e le regioni erano decise a far valere un orientamento che le coinvolgesse, in modo che non venissero allontanate da quel processo ma ne divenissero partecipi. Qui, in Emilia-Romagna, la politica di programmazione è stata proposta al Consiglio regionale da una commissione che fu appositamente creata fin da subito e che ha rappresentato un punto di riferimento importante, in quegli anni, per dare un'accelerazione al processo di rinnovamento.1 Era una commissione composta di persone di vario orientamento politico e tecnico, e venne presieduta da Romano Prodi, allora al suo primo impegno politico.

Una delle misure iniziali adottate dalla Giunta, poi tradotta in legge regionale, ha portato alla costituzione del circondario di Rimini, dotato dei poteri che avevano le amministrazioni provinciali, e quindi in grado di partecipare alla politica regionale. Qui voglio ricordare il ruolo importante svolto allora dall'ex sindaco di Rimini, Walter Ceccaroni, come assessore della prima Giunta, da me presieduta. Il suo contributo è stato importante non solo per il circondario di Rimini, ma anche per la politica complessiva della Regione nel campo del turismo e in quello più specifico del disinquinamento delle acque. Mi ricordo bene di quando sono stato invitato, a Rimini e Riccione, a bere il primo bicchiere d'acqua spillato dal depuratore: se devo dire la verità, avevo un po' di paura... ma alla fine è andato tutto bene.

La politica della Regione volta a migliorare e potenziare il sistema idraulico aveva al centro la questione del Po. Il nostro problema principale era disinquinare il Grande Fiume, per dare acqua pulita alle varie città che attraversa e trasformare finalmente questa straordinaria parte di realtà padana anche in una grande via di trasporto delle merci. Tutto il sistema che abbiamo costruito, però, non ha trovato riscontri dall'altra parte del fiume: l'opera di disinquinamento ha proceduto da Piacenza al Delta, ma se in questi quarant'anni si fosse fatto altrettanto sull'altro tronco padano la situazione attuale sarebbe migliore. Magari si sarebbe evitato il recente disastro del Lambro, che ha determinato il rischio di una catastrofe ambientale ancora più grave di quanto sia apparsa.

La preoccupazione per il territorio è stata una delle priorità dell'azione regionale, come testimonia anche l'istituzione del Premio "Cervia Ambiente", che dal 1973 riconosce e divulga l'opera di grandi studiosi a livello nazionale e internazionale. Ma la necessità di affrontare i problemi del territorio coinvolgendo tutte le realtà interessate, per far sì che partecipassero allo sviluppo, ha permeato l'azione iniziale della Regione anche nell'ambito culturale. L'Istituto per i beni culturali, da questo punto di vista, è stata una delle cose più importanti che abbiamo fatto: la sua nascita si deve in particolare all'apporto di Pier Luigi Cervellati, Andrea Emiliani e Lucio Gambi, un gruppo di persone eccezionali, che hanno saputo tradurre in fatti l'esigenza di conoscere la realtà del territorio per poi calibrare al meglio la politica di piano della Regione.2

Non si può governare se non si conosce: in questo senso si può dire che la nascita dell'Istituto per i beni culturali discendeva in modo naturale dall'impostazione complessiva della nostra Regione: come cita l'articolo primo della legge costitutiva, doveva e deve essere uno strumento necessario per una politica di programmazione. Ricordo che nel presentarlo pubblicamente, al Teatro comunale di Bologna, dissi che l'Istituto doveva essere espressione dei tre tempi del presente: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. In virtù di ciò, la sua azione avrebbe potuto dare un contributo essenziale ai grandi temi della politica regionale. Questo lavoro è stato portato avanti nel corso degli anni, in modo tale da avere oggi un istituto che è unico in Italia. In un momento di crisi istituzionale come quello che stiamo attraversando è necessario che la Regione tenga ben presente di agire per mantenergli quei compiti di intervento e di conoscenza che sono più che mai indispensabili a realizzare una politica davvero rispondente alle esigenze reali.

I poteri esercitati attualmente dal governo regionale sono frutto di una lunga lotta. Alle regioni appena istituite, infatti, vennero attribuite solo limitate possibilità di intervento. Per cercare di coinvolgere le realtà sociali, economiche, culturali, in una posizione che non era riconosciuta a livello nazionale, abbiamo cercato di superare le limitazioni di partenza con la creazione, appunto, dell'Istituto per i beni culturali, oppure, nell'ambito della politica industriale, con l'Ente per la valorizzazione del territorio (ERVET). Quando con le leggi "Bassanini" siamo riusciti a ottenere il riconoscimento di questi poteri e l'affidamento di nuovi compiti, si è rinnovata la fiducia in una nuova stagione di crescita delle regioni. Oggi ci troviamo in un frangente inverso: questi poteri vengono attaccati limitando i fondi destinati alla sanità, alla scuola, alle politiche sociali, alla cultura, e in tal modo rendendo impossibile attuare la piena realizzazione della politica delle regioni.

Quando, di fronte a questa crisi, sento qualcuno che, a nome degli abitanti dell'Emilia-Romagna, minaccia di rimettere al governo centrale i poteri per cui abbiamo combattuto così a lungo, dico con forza di no. Vorrei piuttosto che queste competenze venissero aumentate, per soddisfare le sempre nuove esigenze che la realtà di continuo propone. Di fronte a una catastrofe che rischia di travolgere anche le realtà regionali, occorre maggiore coraggio per unire in un progetto comune tutti coloro che ci credono e realizzare finalmente un mutamento.


Note

(1) Si veda in proposito il volume: G. Fanti, G. C. Ferri, Cronache dall'Emilia rossa. L'impossibile riformismo del PCI, Bologna, Pendragon, 2001, in particolare il capitolo VI, La regione va in Europa, pp. 153-182 (ndr).

(2) Per una ricostruzione della nascita dell'IBC e un'analisi delle sue vicende tra gli anni Settanta e Ottanta si veda: G. Fanti, Anni Settanta: le ragioni di una scelta, "IBC", I, 1993, 5, pp. 34-37; ripubblicato in: Ma questa è un'altra storia. Voci, vicende e territori della cultura in Emilia-Romagna, a cura di V. Cicala e V. Ferorelli, Bologna, Bononia University Press - Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 2008, pp. 125-132 (ndr).

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