Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4

Dossier: Sono vecchie queste regioni? - Dalla politica di Augusto all'Italia della Costituzione

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Una comunità intermedia

Angelo Varni
[docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna]

In un periodo in cui, in modo non sempre corretto, si parla di federalismo, di regioni, di Nord, di Sud, di fisco regionale e di decentramento, mi sembra davvero importante capire che cosa sono in effetti queste regioni, così come hanno cercato di mettere in luce gli autori degli interventi precedenti. Le regioni sono dunque, come richiamava Guido Fanti, delle entità istituzionali che operano concretamente per migliorare le cose? In questo senso ricalcherebbero fedelmente il profilo delle regioni storiche risalenti ad Augusto, come è stato ben tratteggiato da Claudio Zaccaria e da Jacopo Ortalli. Le regioni di Augusto, per un verso, pubblicizzano la capacità del governo centrale di intervenire a vantaggio della vita collettiva, ma nel contempo realizzano il decentramento amministrativo. Sono ancora questo le nostre regioni?

O sono piuttosto l'espressione di diverse identità culturali? Di recente, in un dibattito politico, un esponente della Lega Nord faceva riferimento a un'identità della regione legata alla lingua. "Noi, come i catalani, abbiamo la nostra lingua" diceva, e parlava del lombardo e del veneto, citando Carlo Porta e Carlo Goldoni. Stiamo dunque andando in questa direzione? Oppure, come rievocava Fanti, le regioni attuali sono nate per favorire la partecipazione dei cittadini, e quindi avrebbero una funzione politica, direttamente ispirata ai principi della carta costituzionale? Dal dopoguerra in poi, le sinistre hanno spinto in questa direzione, fino a che, negli anni Settanta, sono riuscite a dar vita alle regioni: in questo modo, si diceva, i cittadini parteciperanno di più.

A giustificare l'esistenza delle regioni ci sono poi delle ragioni economiche. Facendo riferimento ad alcune delle cose fatte dalla giunta che presiedeva, Fanti parlava degli interventi sulle acque, ma io ho presenti anche altri ambiti. Studiando la vicenda della E45, la strada che doveva andare da Roma a Varsavia, ho constatato come, finché non è nata la Regione Emilia-Romagna, con cui poi l'Umbria ha trovato un accordo, il litigio terrificante tra Rimini, Cesena e Forlì ha bloccato tutto. E lo sblocco l'ha operato la Regione, mettendo tutti intorno a un tavolo e concedendo i finanziamenti necessari.

Ecco, quindi, ragioni economiche e politiche, radici storiche e culturali. E persino radici gastronomiche: qui da noi, basti pensare alla differenza storica tra la Romagna bizantina, dove si mangia l'agnello, e l'Emilia longobarda, dove si mangia il maiale. Insomma, definire cos'è una regione è davvero un compito arduo. Non impossibile, certo, ma molto difficile, probabilmente perché ogni definizione concentra in sé tutte queste variabili. Lo sapevano bene - e qui vengo al mio mestiere di storico dell'età contemporanea - gli esponenti della classe dirigente che ci guidò all'Unità, una classe dirigente culturalmente tutta orientata a favorire la nascita delle regioni.

Alludo a Marco Minghetti, soprattutto, e al suo progetto di decentramento. Ma questo orientamento univa un po' tutti. Lo stesso Camillo Benso conte di Cavour (che malauguratamente scomparve subito dopo il raggiungimento dell'Unità), essendo di formazione culturale anglosassone più che francese, era favorevole alla nascita di autogoverni regionali che tenessero conto delle diversità di costumi, di abitudini e, in quel caso, anche di normative. Quest'ultimo è un punto da sottolineare: la legislazione del Granducato di Toscana era molto più avanzata di quella dei Savoia, molto di più; basti pensare alla pena di morte, che non c'era nei codici toscani e c'era invece in quello che poi diventò il codice penale italiano.

Persino Giuseppe Mazzini, l'apostolo dell'Unità, l'uomo che voleva la repubblica unita, e guai a parlare di divisioni, su questa necessità delle regioni concorda. Nel 1861, completando uno scritto di trent'anni prima che era intitolato proprio Dell'Unità d'Italia, giunge alla conclusione che la neonata nazione, per le stesse diversità che noi non riusciamo bene a definire e che però ci sono, aveva bisogno di dividersi in dodici regioni (erano undici quelle di Augusto: siamo ancora lì). A quell'epoca, anche la sinistra più democratica era favorevole al regionalismo. Sebbene lo stesso Carlo Cattaneo, che il mito dipinge come un grande propugnatore del federalismo, fosse molto incerto su che cosa sia una regione. In un primo momento scrive con convinzione della Lombardia, delle sue caratteristiche distintive, delle sue prerogative economiche omogeneizzanti... però, dopo il '61, quando si forma l'Italia unita, cambia parere e sostiene che, sì, le regioni servono, ma per comodità devono coincidere con i vecchi stati. E qualcosa di simile dice anche Giuseppe Ferrari.

Come si vede, da questo punto di vista, l'incertezza era molto forte già allora. A leggere i giornali dell'epoca, si scoprirebbero molti riferimenti alla necessità di tenere conto delle differenze che ci sono in Italia, riferimenti che potrebbero andare benissimo anche oggi. In un'Europa che non ci voleva, la classe dirigente di quel tempo - trovandosi all'improvviso a gestire uno Stato unitario, che poco prima era diviso in tante parti e in cui, per giunta, erano forti le spinte a far sì che si tenesse conto delle differenze - prese una decisione: lo Stato centrale avrebbe imposto un unico fisco e un'unica legge, allargando all'intero territorio italiano il codice piemontese. La festa era finita e le tensioni scatenate da chi si sentiva diverso vennero soffocate. Anche in modo violento, come nel caso del cosiddetto brigantaggio meridionale, che fu represso a suon di stragi e stati di assedio, con l'invio di un esercito di centoventimila uomini.

Il dibattito sulle regioni, insomma, è ben presente al momento dell'unificazione, ma poi si spegne nello scontro con la realtà, o con quello che si pensa sia la realtà: se a ragione o a torto, ognuno di noi potrà giudicarlo secondo la propria cultura o la propria ideologia. Di certo, viste le circostanze che portano a quell'unificazione, il dibattito sul decentramento sarebbe stato necessario: basti pensare a un'Italia che si compatta nel giro di soli due anni, con l'aiuto di un esercito straniero che non aveva di sicuro l'intenzione di far nascere una nazione in quel modo e con quelle dimensioni; basti pensare alla storia dei Mille ardimentosi guidati da Garibaldi in un'impresa che sembrava folle: conquistare il Meridione; basti pensare all'esito di questa unificazione: uno Stato in cui vige sì una democrazia parlamentare, ma dove, su 25 milioni di abitanti, vanno a votare in mezzo milione.

Troncato sul nascere, il dibattito sulle regioni procederà in modo carsico per tutta la nostra vicenda unitaria: si inabissa, riaffiora, scompare di nuovo, ma c'è sempre, dagli anni Settanta dell'Ottocento in avanti. Si spegne solo con il fascismo che, per ovvie ragioni ideologiche, rimuove accuratamente la questione regionalistica: c'è la nazione impersonata dal duce, e tanto basta. Poi, dopo la guerra, il filo della questione viene ripreso dall'Assemblea costituente. E oggi? Forse, per trovare un rilancio, una nuova attualità, il tema delle regioni dovrebbe raccordarsi meglio, e non in maniera solo strumentale, al grande tema dell'Europa. Ma vista la crisi attuale di questo ambito, il discorso sulle regioni che guardano all'Europa, non necessariamente per eliminare il ruolo equilibratore degli Stati ma per dialogare meglio con delle affinità culturali, geografiche ed economiche, questo discorso risulta sempre più difficile.

Credo che la Regione Emilia-Romagna abbia fatto molto bene a voler richiamare anche queste vicende in un fascicolo così agile e ben illustrato, che nella sua semplicità da un po' il senso di un'unità così difficile da definire.1 Può diventare una buona occasione per chiedersi, ancora una volta, che cosa sono le regioni e perché ci sono. Le differenze sono ancora tante, vanno tenute tutte insieme ed è opportuno da parte di tutti uno sforzo perché si affermi il concetto di regione come comunità, come un'altra comunità nella quale riconoscersi come cittadini. Una comunità intermedia tra i comuni (gli italiani, diceva Mazzini, si riconoscono solo nel comune) e lo Stato nazionale. Senza dimenticare che anche rispetto all'Europa occorre un organo intermedio: non è soltanto lo Stato; forse, è soprattutto la regione.


Nota

(1) Nove passi nella storia. L'Emilia-Romagna si racconta, a cura di V. Cicala, V. Ferorelli, G. Pietrantonio, illustrazioni di S. Tisselli, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2009.

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