Rivista "IBC" XIX, 2011, 3

Dossier: Lo scaffale dei sapori

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Geografia emotiva e culinaria

Alberto Capatti
[docente di Storia della cucina e della gastronomia all'Università di scienze gastronomiche di Colorno e Pollenzo, membro del comitato scientifico di Casa Artusi (Forlimpopoli - Forlì-Cesena)]

Nella stampa di informazione sollecitata dal centenario della sua morte e dei centocinquantanni occorsi dall'Unità d'Italia, Pellegrino Artusi è stato e viene segnalato come il codificatore della cucina regionale italiana. Un esame attento di tale affermazione induce a un'analisi critica sia della nozione di regione, sia del ruolo che il cibo vi riveste, e soprattutto della circolazione in Italia di ricette appartenenti a tale o a talaltra contrada. Artusi, inoltre, è nativo di una Romagna che, nei novant'anni della sua vita, muta nel governo, nei trasporti, nell'economia rurale, sotto il suo sguardo prima di forlimpopolese poi di fiorentino, e, grazie a lui, nutre, con qualche piatto come i Cappelletti all'uso di Romagna, gli appetiti di molti italiani. Il sentimento di appartenenza a una terra nasce da esperienze intime e si concretizza, spesso lontano da essa, nel ricordo e nella riflessione; le ricette che ne derivano sono prove pratiche, memoriali di gusto, frammenti scritti di una cultura sempre filtrata dal lettore. Per queste ragioni un riesame dell'identità regionale nella Scienza in cucina può essere opportuno, anche se circoscritto all'Emilia e alla Romagna, e limitato qui da un punto di vista argomentativo e documentario. Vediamo dunque, in concreto, che cosa ci sia di vero nel "codificatore della cucina regionale italiana" e ricomponiamo i frammenti della sua esperienza in una carta geografica - meglio diremmo un geopuzzle - in cui non sarà facile identificare né terre né cibi, e in cui si cercherà invano un punto iniziale, la cucina delle madri e delle nonne forlimpopolesi.

Dell'Emilia Artusi aveva una visione più scolastica che autobiografica, e la nomina una sola volta nella Scienza in cucina, parlando del lardo "che vi si prepara eccellente" ( Pollo fritto coi pomodori, n. 209). 1 Sulle singole città, lungo l'omonima via romana, non troviamo più ragguagli, eccetto che su Bologna. La linea ferroviaria che permetteva di raggiungere, da questa città, Piacenza e Milano risaliva al 1859 ed era stata completata nel 1861; 2 Artusi, che dal 1851 è cittadino fiorentino, la conosceva, ma non menziona né Piacenza né Modena, e Reggio Emilia è presente grazie alla ditta Lasagni che gli spediva, a domicilio, i cotichini. Unica ricetta emiliana non bolognese sono gli "anolini", pervenutagli in extremis con tortuoso giro di posta, poco prima del 1909, da una signora di Parma "andata sposa a Milano". Questa è l'Emilia di Artusi, con l'eccezione di Ferrara, terra di confine e di passaggio, ben nota ai romagnoli che intraprendevano studi superiori e che, grazie agli scambi commerciali con il Veneto, finivano per assaporare anche i "salami dal sugo". Si può definire modesta la messa a fuoco di questa regione, che pure aveva un posto non inferiore a Piemonte e Lombardia nella geografia gastronomica e potatoria d'Italia, predisposta per l'esposizione gastronomica di Torino del 1902 da Alberto Cougnet, e pubblicata nell' Almanacco Italiano del 1904. 3 Vi si dovevano ricercare non solo la persicata di Piacenza, le bondiole, i filetti e il culatello, il Reggiano e lo scarpazzone a Reggio, e zamponi, coteghini, bondiole, torta di riso e tortelli di zucca di Modena, ma prodotti d'eccellenza di piccole località come Felino con il suo salame, e Brescello con la spongata. Nell'Italia del Nord e del Centro tutti la associavano alle carni suine insaccate. Come spiegare, dunque, questa Emilia sfocata, questa Emilia fantasma in Artusi?

Indubbiamente con Bologna, che accentra tutte le culture regionali e le annulla in un'identità costruita anzitutto - lo racconta sempre Alberto Cougnet - con mortadelle, tortellini, ravioli, agnellotti, tagliatelle, trippa di bue, uva paradisa, pasta Margherita eccetera. Tra la fine dell'Ottocento e il secolo successivo, in una paciosa belle époque italiana, il capoluogo è la regione tutta, grazie a un artifizio ottico, alla visione di un provinciale di Forlimpopoli che vi scopre, vi riconosce la sua prima, grande città; una visione che diventa triangolare con il trasferimento della famiglia Artusi a Firenze. Bologna è l'Emilia quando la si guarda da Forlimpopoli oppure da Firenze, ne è la porta, l'anticamera, il punto di raccolta, la sintesi, con tante, tante botteghe e tavole d'alberghi. Lo sguardo, l'appetito, il gusto e l'eleganza dell'abito o della scarpa, non hanno bisogno di andare oltre per chi viene da sud. L'esito sarà di grande rilievo per la gastronomia italiana, con la creazione di una città simbolo dell'eccellenza regionale, vantata da Pellegrino Artusi con motivazioni personali, civili e culinarie.

La ricetta n. 9 ( Tortellini alla Bolognese) inaugura, nel 1891, questo approccio, che viene approfondito con la n. 194 ( Crescente) e la n. 235 ( Maccheroni col pangrattato): Artusi non si limita a mettere in luce i meriti alimentari della città, che considera, grazie a una scuola auspicata di cucina, filantropici e istituzionali, ma ne fissa l'importanza di laboratorio linguistico con un lessico municipale, e con l'aneddoto del mangiamaccheroni nella trattoria dei "Tre Re", intorno agli anni Quaranta del XIX secolo, le conferisce un ruolo risorgimentale, reso evidente dalla notorietà in seguito acquisita da un personaggio come Felice Orsini. Andrebbero menzionate anche le bombe di gruiera e mortadella (n. 184, Bombe composte), che in una fine di Ottocento contrassegnata da attentati anarchici e regicidi, conferiscono a Bologna l'aura felice di una capitale dotta, pacifica e beatamente panciona.

Altra cosa è la Romagna. Non è regione ma una campagna fra monti e mare, sismica e romana, pretina e brigantesca, distinta in una bassa, con le valli lungo il mare, e in un' alta, dispersa in cittadine, paesi e campagne, fra colline e pianure. Terra senza una capitale, senza un baricentro. Artusi vi era vissuto sino al 1851 e ne aveva una memoria ben diversa dall'immagine che avrebbe avuto quarant'anni dopo. "Com'era povera l'agricoltura ancora, mezzo secolo addietro in Italia e specialmente in Romagna", lamenta nell' Autobiografia, 4 preludendo al racconto di una grave carestia e dei moti del '48. Era difficile associarne le province a risorse alimentari in grado di costituire sicuri cespiti di commercio e di guadagno in un quadro interstatale e italiano, anche per una famiglia di commercianti. Solo negli anni della Scienza in cucina, una fine di secolo in cui appare la prima Storia di Forlimpopoli, si intravede un assetto economico che, non sfigurando nel regno d'Italia, può dirsi gastronomico. Nel 1902 Alberto Cougnet elencava le seguenti specialità: il sangiovese di Bertinoro e di Civitella, il sapore e il migliaccio di Cesena, i cappelletti di Faenza, il brodetto di porto Corsini, la salsiccia, gli asparagi, i pinoli e i zalett di Ravenna, le olive di Rimini e la mostarda di Savignano. Quest'ultima sola ritroviamo in Artusi (n. 624, Tortelli di ceci, e n. 164, Fritto ripieno di mostarda) che ha della sua terra una visione meno dipendente dalla geografia economica e più dalla memoria.

Anguille e mostarda. Con questi due prodotti, anche la cucina romagnola appare meno legata a un'economia strutturata e ai mercati che non agli accidenti del territorio, alle attività domestiche artigianali e ai singoli uomini: selvaggi quelli di Comacchio, piantati nell'acqua, ovvero seri e onesti negozianti come il padre, Agostino, uomo di larghe vedute e costretto a emigrare in Toscana. L'anguilla è economia, cultura e favola della bassa Romagna. La mostarda invece - che sta diventando cremonese, anzi Sperlari - è quella di Savignano, "che una volta era molto apprezzata", 5 e viene riproposta nella sua variante provinciale, destinata alla scomparsa (infatti Artusi ricorre al tempo passato). Ed è quasi tutto: tanta miseria traspare e ritorna a galla dai ricordi di giovinezza. Pellegrino Artusi non fa nemmeno leva sulla famiglia per raccontare i cibi della sua terra: non un solo piatto della madre Teresa Giunchi arriva alla Scienza in cucina, né alcun altro espresso dai parenti, a cominciare dallo zio canonico di Bertinoro che doveva intendersene. Le sue ricette - Cappelletti, Tagliatelle, Agnello coi piselli, Pasticcio di maccheroni eccetera - passano direttamente dal sentimento conviviale di contadini ricchi e buoni borghesi, agli italiani agiati, ricevendo e serbando la loro romagnolità in viaggio, a partire dalla stazione di Firenze che, per Pellegrino, era un po' il centro della sua Italia.

Alla crescita della Romagna, in quella fine di secolo, avevano dato una mano altri personaggi sodali, come il monzese Paolo Mantegazza, che si firmava cittadino di Rimini, 6 e vi contribuirà anche Alfredo Panzini, nella cui opera ritroviamo tutta la parabola artusiana, dalle concimaje all'aria aperta e dalle carestie violentemente represse sino alle raffinatezze domestiche di una crema leggera, leggera, "senza farina o amido", presente nella Scienza in cucina al numero 685. 7 Ricordare la Romagna violenta e miserrima non era un vezzo di italiani più ricchi, ma un sentimento di appartenenza alla propria terra, un sentimento di amore, per darle un futuro. Artusi lo esprime (pudicamente) con le mani nella "pasta matta", la ricetta n. 153; Panzini con questa ricetta contadina, gracchiata con la voce di una donna: "Ecco quello che si mangia noi, guardate - ella disse, e prendeva così con la mestola la broda, e la faceva lentamente ricadere schizzando: - bucce di pomodoro, patate che avanzano ai porci, strozzapreti fatti col remolo, fagioli e acqua di mare, per non consumare il sale!". 8

In questo sentimento di verità, di frustrazione e di compatimento, scaturito dall'osservazione della propria campagna, i romagnoli trapiantati, come Artusi e Panzini, alimentano la loro memoria. Una memoria che, nello stile di un'Italia incivilita dai commerci, dalle ferrovie e dall'editoria, si converte in un'aspirazione profonda al benessere e in un codice di cucina, di economia domestica, di belle maniere, di buon gusto. Questo obiettivo mette ordine in tutta l'organizzazione della vita borghese, e la gastronomia riassetta anche le conoscenze territoriali e geografiche, private e pubbliche. La Romagna emerge dalle ricette come, cinquant'anni prima, solo l'utopia di una vita civile poteva scaturire dalla vita grama dei contadini, dall'insicurezza delle strade, dalla venalità della sbirraglia e dall'inerzia dei preti. È la Romagna sognata, senza esser quella di un tempo, mentre La scienza in cucina appare l'album delle fotografie conviviali, l'immagine dei momenti migliori a tavola e una carta geogastronomica emotiva che muta, evolve con il passare degli anni.


Note

( 1) Il testo di riferimento dei rinvii alle ricette artusiane è: P. Artusi, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, a cura di A. Capatti, Milano, Rizzoli, 2010.

( 2) I. Briano, Storia delle ferrovie in Italia, I, Milano, Cavallotti, 1977, p. 84.

( 3) Almanacco Italiano, Firenze, Bemporad, 1903, pp. 368-379.

( 4) P. Artusi, Autobiografia, Milano, Il Saggiatore, 1993, p. 58.

( 5) Fritto ripieno di mostarda, n. 164.

( 6) Almanacco igienico popolare del dott. Paolo Mantegazza. Anno ventesimottavo 1893, Milano, Dumolard, 1893, p. 5.

( 7) È una crema leggera che "non la sanno fare tutti" (A. Panzini, La Madonna di mamà, 1916, in Sei romanzi fra due secoli, Milano, Mondadori, 1943, p. 483) ma che un padre attento fa servire al figlio malato (A. Panzini, Le fiabe della virtù, Milano, Treves, 1911, p. 98).

( 8) A. Panzini, La lanterna di Diogene, 1907, in Sei romanzi fra due secoli, Milano, Mondadori, 1943, p. 87.

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