Rivista "IBC" XX, 2012, 1

Dossier: Quattro passi fra le carte - Itinerari attraverso il mondo di Alessandro Blasetti

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Una vita per lo schermo, e non solo

Michela Zegna
[curatrice dell'Archivio "Alessandro Blasetti", Cineteca di Bologna]

Nel 2012 ricorre il 25° anniversario della morte del regista Alessandro Blasetti e questo dossier vuole essere, innanzitutto, un omaggio a un uomo dalle straordinarie qualità umane e artistiche; ma rappresenta anche il punto d'arrivo di una perfetta sinergia tra l'Assessorato alla cultura del Comune di Bologna, la Cineteca e l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna - Soprintendenza per i beni librari e documentari. Grazie a questa collaborazione è stato possibile acquisire l'archivio di Blasetti, organizzare e portare a termine l'inventariazione del fondo e la digitalizzazione di parte della sua preziosa documentazione, rendendolo accessibile on line. Un lavoro che non sarebbe stato possibile se, innanzitutto, non ci fosse stata Mara Blasetti. La figlia del regista è stata per prima la curatrice del fondo; nel corso degli anni ne ha preservato l'integrità e la memoria. Abbiamo fatto nostra la sua caparbietà e il suo entusiasmo nella convinzione che preservare, rendere accessibile e valorizzare il fondo "Blasetti" sia davvero il modo migliore per trasmettere alle generazioni future l'opera di questo grande autore.


Alessandro Blasetti (3 luglio 1900 - 1 febbraio 1987) incarna un'idea di cinema totalizzante. È l'uomo che sulle ceneri del cinema muto italiano getta le basi teoriche, artistiche e produttive del cinema italiano sonoro. È un intellettuale, un uomo di spettacolo, uno sperimentatore, un grande tecnico e insieme un artista che elabora un progetto di cinema unitario in cui un'intera generazione di cineasti può riconoscersi. Nel 1975, celebrando i 75 anni del maestro, Luchino Visconti dichiarava: "Noi tutti registi italiani gli dobbiamo qualche cosa". E ancora oggi la cultura italiana gli deve molto.

Progenitore del neorealismo (Sole, 1928; Terra madre, 1931; 1860, 1933; Vecchia Guardia, 1934; Quattro passi fra le nuvole, 1942), sperimentatore instancabile dei generi cinematografici più diversi, scopritore di talenti, profondo conoscitore della macchina-cinema, dall'elaborazione della sceneggiatura agli aspetti più tecnici di ripresa e montaggio, sino a quelli produttivi e finanziari, Blasetti nasce come critico e teorico, fino a diventare editorialista e promotore di un corpus di pubblicazioni periodiche che si può definire la prima manifestazione organica di politica culturale cinematografica nazionale: "Il mondo a lo schermo", "Lo schermo", "cinematografo" e "Lo spettacolo d'Italia". Nel panorama desertico offerto dal cinema italiano degli anni Venti, giovanissimo, riesce con la sua personalità a creare intorno a sé un'oasi di aspiranti intellettuali e artisti, generando un flusso di energia tale da ridonare vitalità al paesaggio circostante, prima ancora di essersi messo dietro a una macchina da presa.

Blasetti, si diceva, incarna un'idea di cinema totalizzante, il cui asse portante si fonda prima di tutto sulla ricerca e la definizione dell'identità nazionale, senza la quale è consapevole di non poter creare l'humus su cui far germogliare una nuova cinematografia. E per la formazione di una nuova generazione di professionisti del settore, fondamentale è stato il suo contributo alla creazione della prima scuola di cinema nazionale, che diventa in seguito il Centro sperimentale di cinematografia, come ricordano Alfredo Baldi e Silvio Celli in un recente saggio uscito su "Bianco e Nero".

Dal primo colpo di manovella dato il 20 dicembre 1928, Blasetti è già consacrato autore dalla critica italiana, che paragona Sole ai grandi modelli del cinema russo ed espressionista. È l'inizio della sua lunga e feconda carriera. Pittaluga - a quell'epoca l'unico grande produttore e distributore di cinema in Italia - lo chiama a sé aprendogli le porte della Cines, e pochi anni dopo, con l'uscita di 1860, la critica contemporanea lo fissa per sempre nel firmamento delle stelle del cinema, trasformandolo in una figura mitologica, stivali e frustino compresi.

Dopo la Seconda guerra mondiale - come evidenzia Gian Piero Brunetta in un saggio pubblicato su "Bianco e Nero" nell'aprile del 1987 - Blasetti è obbligato a confrontarsi costantemente con il monumento di sé stesso che la storiografia cinematografica inchioda al mito di fondazione del cinema italiano sonoro. A quarantacinque anni è il patriarca del cinema italiano e, nelle vesti di antesignano del Neorealismo, gli è concesso di oltrepassare l'abisso culturale che separa gli anni Trenta dal dopoguerra. La sua personalità non si sottrae al meccanismo di rimozione necessario alla coscienza collettiva di un paese che deve compiere lo sforzo della ricostruzione e che getta le basi etiche e culturali di una nuova identità. A liberarlo dal passato, non sono serviti né la sua capacità di inventarsi nuove prospettive narrative come il film a episodi (Altri tempi, 1952; Tempi nostri, 1954), né il suo fiuto da talent scout che scopre e lancia nuove e vincenti accoppiate come Sofia Loren e Marcello Mastroianni in Peccato che sia una canaglia (1955).

La sua generosità nel credere nel talento d'attore di un Vittorio De Sica non più giovane (Altri tempi; Tempi nostri; Peccato che sia una canaglia; Amore e chiacchiere, 1958), o in chi ha bisogno di un'altra occasione come Walter Chiari (Io, io, io... e gli altri, 1966), ha favorito la crescita esponenziale della sua statura di uomo, rafforzando la stima dei suoi colleghi. Neppure il lungo e affettuoso sodalizio con Suso Cecchi D'Amico, né le sue proficue collaborazioni con uno stuolo di letterati e sceneggiatori del nuovo verbo cinematografico, tra cui Cesare Zavattini (Quattro passi tra le nuvole, 1942; Un giorno nella vita, 1946; Prima comunione, 1952; Amore e chiacchiere, 1958) ed Ennio Flaiano (Peccato che sia una canaglia; La fortuna di essere donna, 1955) spezzano l'incantesimo che lo vuole ancorato al mito di sé stesso.

È tra i primi a lasciare il cinema per la televisione, riconfermando la sua natura di sperimentatore che non ammette riserve pregiudiziali, quelle riserve nutrite invece da molti dei suoi colleghi verso il nuovo mezzo espressivo. Le sue ultime ricerche sulla frammentazione del racconto e sulla forma del reportage lo conducono naturalmente in questa direzione, spaziando dal genere documentario (La lunga strada del ritorno, 1962; Storie dell'emigrazione, 1973), allo sceneggiato storico (Napoli 1860: la fine dei Borboni, 1970), fino alle rassegne antologiche come Gli italiani del cinema italiano (1964) e L'arte di far ridere (1978). Pur curando ogni aspetto dei programmi che realizza per la RAI, dall'elaborazione della sceneggiatura alla regia, davanti al pubblico Blasetti si cala nella parte di intermediario, di voce narrante, dimostrando una padronanza assoluta del mezzo televisivo, che il suo sguardo disincantato trasforma in un potente veicolo divulgativo. La televisione gli permette di coltivare ulteriormente la sua vocazione didattica, che viene paragonata a quella dell'ultima produzione rosselliniana. Rispetto a questo paragone, così scrive Alberto Farassino sulle pagine di "Repubblica" il 14 settembre del 1978: "Blasetti, nel cinema italiano, rappresenta l'altra faccia, eroica e teatrale, del tipo regista-padre incarnato da Rossellini".


Di seguito si ripropongono alcune testimonianze tratte dal video Blasetti, Blasetti, Blasetti... e gli altri, con interviste a Mara Blasetti, Angelo Guglielmi, Umberto Lenzi e Carlo Lizzani (a cura di Alfredo Baldi e Michela Zegna, 2009).


Che cos'è il cinema per Alessandro Blasetti? Qual è stata per lui la funzione della settima arte nella cultura italiana del XX secolo?

Mara Blasetti - Ha sempre sostenuto che il cinema non va fatto per gli intellettuali ma per il pubblico.

Angelo Guglielmi - Era convinto del ruolo pedagogico del cinema. Che il cinema fosse uno strumento privilegiato di conoscenza, di penetrazione e di comprensione della società italiana.

Umberto Lenzi - Devo dire che le lezioni più importanti, quelle che veramente hanno segnato professionalmente tutta la mia attività posteriore, sono le lezioni di Alessandro Blasetti. E anche di Giorgio Prosperi per quanto riguardava la sceneggiatura. Però Blasetti aveva un entusiasmo, un modo di comunicare con gli allievi che io raramente ho trovato. Soprattutto non aveva quel senso di superiorità nei confronti dei giovani che purtroppo invece altri insegnanti avevano. Blasetti non era così. Blasetti non ci ha mai imposto il riconoscimento professionale dei suoi film.


In effetti, sin dagli inizi della carriera, Blasetti affianca alla sua attività di teorico, di critico e di regista, quella di insegnante, dimostrando che tra i suoi obiettivi principali c'è la necessità di creare i presupposti che preparino una nuova generazione di cineasti a livello nazionale...

Mara Blasetti - Sì, certo, ma è stato anche inventore di nuove tecniche di illuminazione e di ripresa. Prima ancora di iniziare la lavorazione del suo film d'esordio, Sole, ha inventato un'attrezzatura per fissare la macchina da presa sulla testa dell'operatore allo scopo di filmare la scena come vista dai suoi occhi. Una Steadycam ante litteram, che arrivò in Italia per la prima volta nel 1980, per essere utilizzata durante le riprese a Cortina d'Ampezzo di James Bond. For your eyes only di cui io ero il direttore di produzione. Il brevetto è del 1928 e papà lo fece registrare il 14 agosto, giorno del mio compleanno; un bel regalo per me piccolissima. Dell'invenzione di papà e del suo amico, l'ingegnere Cauda, esperto di macchinari per il cinema, l'archivio conserva tutta la documentazione, compresi i disegni.

Nel 1933, mentre stava girando 1860 negli stabilimenti della Cines, era alla ricerca di un mezzo che gli permettesse particolari movimenti di macchina. Passando e ripassando davanti a una fabbrica di carrelli per miniere, ubicata nella stessa strada degli studi cinematografici, un bel giorno gli scattò l'idea. Entrò, e disse all'incirca: "Allora, mi costruireste un carrello per il cinema?". Era nato il famoso carrello Mancini, così chiamato dal nome del proprietario della fabbrica, e venne usato per anni da tutto il cinema italiano.

Inoltre, nel 1947, per il film Fabiola, il primo kolossal italiano del dopoguerra, il direttore della fotografia Mario Craveri, che aveva più volte lavorato con papà, gli fece costruire un marchingegno che rispondeva in gran parte ai suoi desiderata: consisteva in un braccio che sollevava la macchina da presa da terra a tre metri di altezza, ruotava da sinistra a destra e viceversa di 360 gradi; fissato su binari, poteva muoversi in tutte le direzioni volute. Questo braccio era dotato, da una parte, di una serie di pesi che bilanciavano dal lato opposto il peso dell'operatore, della macchina da presa e del regista, il quale, date tutte le istruzioni, cedeva il posto per le riprese all'assistente ai fuochi.

Questo bestione era gestito dal capomacchinista e dalla sua squadra, e doveva dolcemente raggiungere le numerose posizioni - talvolta 15 o anche 20! - indicate da papà. Li faceva ammattire! Ma erano così intelligenti e professionali da eseguire questi folli balletti con una precisione e una sensibilità da veri artisti. In queste non rare occasioni, papà li ripagava con sperticate lodi davanti a tutta la troupe. Questa imponente apparecchiatura fu chiamata, con un certo senso dell'umorismo, Dolly (bambola!) ed è passata per le mani di tutto il cinema italiano, fino quasi ai giorni nostri.


Blasetti è famoso per aver contribuito a creare l'immagine del regista-autore, di padrone assoluto sul set. Qual era il suo rapporto con la troupe e gli attori?

Luigi Di Gianni - Era molto, molto divertente e oltre tutto anche umanissimo. La troupe gli voleva un gran bene. Tutti quanti, insomma. Mi ricordo di una volta che si arrabbiò moltissimo perché non riusciva ad andare più indietro con la macchina da presa perché c'era il muro del teatro. E allora il capomacchinista disse: "A Dottò, non si preoccupi! Adesso buttiamo giù il teatro e facciamo spazio!".

Mara Blasetti - Durante le pause della lavorazione, i macchinisti, gli elettricisti e i cascatori lo hanno spesso preso anche ferocemente in giro, ma lui stava al gioco e ne rideva insieme a tutti. Qualche volta anche lui faceva battute divertenti, per cui si alternavano ore di lavoro impegnativo a momenti di relax. E tutti avevano la sensazione e l'orgoglio di collaborare a qualcosa di importante, dalle maestranze all'attore celebrato. Sul set era molto esigente. Voleva tutti concentrati e non concedeva distrazioni, tanto è vero che quando cominciavano le prove, era sua abitudine dire alla troupe: "Andatevi a fumare una sigaretta". Restava solo con gli attori, l'operatore, l'aiuto regista e il capomacchinista e, nella massima concentrazione, preparava la scena. Quando riteneva che si era a buon punto, richiamava la troupe e cominciava le prove con la troupe; ma esigeva il più assoluto silenzio. Non si poteva più scherzare. Il bisogno di lavorare nel più assoluto silenzio fu poi adottato anche da registi come Maselli e Visconti, ma papà fu il primo, e per questo si guadagnò la fama di tiranno. Ma, in realtà, non fu mai autoritario, bensì autorevole. Una volta pronto per il ciack, se era contento, gridava: "Orgia dei truccatori!" e tutti si scatenavano per gli ultimi ritocchi. E, per un po', si poteva anche fare chiasso.


E con gli attori?

Mara Blasetti - Aveva un rapporto ottimo con gli attori, li trattava con estremo rispetto e considerazione, e ne otteneva la massima collaborazione e pazienza. Sì, pazienza, perché ripeteva le prove innumerevoli volte, e così pure i ciack; per le scene più lunghe e complesse è arrivato a girarne una ventina, tra la disperazione dei produttori. A ogni ciack diceva: "Bene, buona però..." e, di volta in volta, prendeva sottobraccio uno degli attori, portandolo lontano dagli altri per suggerirgli come migliorare l'interpretazione. Oppure esclamava: "Ottima! Quasi ci siamo... Facciamone un'altra...". Talvolta recitava la scena lui stesso, per mostrare il modo in cui l'aveva immaginata; come, per esempio, in Peccato che sia una canaglia.

In questo film aveva fatto disegnare la casa di Mastroianni dallo scenografo Mario Chiari, in modo che dall'ingresso si potesse vedere contemporaneamente l'interno delle tre stanzette. La scena prevedeva che Sofia raggiungesse Marcello nella camera da letto dove si siedono sul letto a chiacchierare. A un certo punto Marcello la deve baciare. Quando tutto è pronto per girare, rivolgendosi a Marcello, papà dice: "Ora io faccio Marcello" e, senza arrivare al bacio, mostra che tipo di azione chiede a Marcello. Poi dice a Sofia: "Ora alzati perché faccio te". Ma mentre provano, e la scena giunge all'apice, Marcello - tra l'ilarità generale - grida: "Sandro, fermati, sennò ti bacio!".

Che io sappia, ben pochi attori non hanno desiderato lavorare con lui, anche solo per interpretare un piccolo ruolo. Era anche un grande maestro di recitazione. Quando ha realizzato Io, io, io... e gli altri, dichiarando che sarebbe stato il suo addio al cinema, tutti (o quasi tutti) gli attori che vi hanno preso parte - ed erano una miriade - non hanno chiesto alcun compenso. Desideravano fare un omaggio a Blasetti. In quel fim c'è tutto il cinema italiano.


La storiografia inchioda Blasetti al mito di fondazione del cinema italiano sonoro e di conseguenza al suo passato di sostenitore del fascismo, sebbene la sua adesione al regime si esaurisca con le conquiste coloniali, dunque ben prima della sua definitiva caduta. Nel dopoguerra qual è stato il suo rapporto con la politica e con le nuove generazioni del cinema italiano?

Carlo Lizzani - Nel dopoguerra i miei incontri con Blasetti furono di natura politica. Perché Blasetti, che era stato molto vicino al fascismo, era diventato liberale, ma liberale in modo sincero, profondo. E da grande liberale quale era, tra il 1946 e il 1948 difese il cinema nazionale in un momento in cui il governo, impegnato nella ricostruzione, tentava di ostacolare la produzione e la distribuzione cinematografica di carattere neorealista, che all'estero aveva un grande successo, ma dava dell'Italia un'immagine negativa. Il motto che circolava nelle ambasciate italiane era "i panni sporchi si devono lavare in casa, non farli girare per il mondo". Insieme ad Anna Magnani, Blasetti fu alla testa del movimento che portò alla grande manifestazione di piazza del 1948, che vide sfilare fianco a fianco professionisti del settore di posizioni politiche antitetiche, che però condividevano le stesse rivendicazioni sulla libertà di espressione e sulla necessità che il cinema fosse oggetto di cura e interesse da parte dello Stato.

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