Rivista "IBC" XX, 2012, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

Sperimentatore, tormentato, discusso: Forlì riscopre Adolfo Wildt. Lo scultore che sapeva trasformare la materia più dura in afflato spirituale.
Trasparente come il marmo

Elisabetta Landi
[IBC]

"Wildt è arrivato attraverso spiritualizzazioni estreme di piani e di volumi, di gesti e di espressioni, a una plastica ascetica di una intensità e di una profondità da lungo tempo non raggiunte": così, nel 1919, Mario Tinti sintetizzava l'originalità dell'arte di Adolfo Wildt (Milano, 1868-1931), il genio dimenticato del Novecento italiano. Oggi, a più di vent'anni dalla mostra veneziana presso la Galleria d'arte moderna di Ca' Pesaro (1989), primo recupero dell'artista a firma di Paola Mola, lo scultore è tornato in scena con una nuova rassegna, pensata da questa stessa studiosa e da Fernando Mazzocca, e allestita ai Musei di San Domenico di Forlì.1

L'esposizione, inaugurata il 28 gennaio 2012 e aperta fino al 17 giugno, conferma la vocazione del complesso forlivese a farsi laboratorio didattico in grado di richiamare migliaia di visitatori, secondo la formula consolidata dell'"universalità della provincia". Dopo l'antologica su Melozzo (2011), è con il Novecento che adesso si confronta la città romagnola, icona del ventesimo secolo che qui, "come ovunque nelle capitali piccole e grandi del Paese" - secondo Antonio Paolucci - "è stato contenutista, simbolista, letterario ed estetizzante (ma anche eversivo e rivoluzionario con il Futurismo)", quando la poetica del "ritorno all'ordine" e dei "valori plastici" coincideva con la politica di regime.

Di questo, Wildt, però, fece le spese. Il suo sperimentalismo tecnico e l'eclettismo furono attaccati dai conservatori, che lo volevano allineato all'arte del ventennio, mentre in lui prevalevano contenuti simbolici e inquietudini gotiche ed espressioniste; ma altrettanto critici nei suoi confronti erano gli "innovatori", che ne mettevano in discussione la fedeltà alla figura e la monumentalità, ispirate ai maestri del passato. Perciò, era necessario, per i curatori, rappresentare nel percorso espositivo le contraddizioni e le suggestioni evocate dai suoi lavori, nei quali si combinano il simbolismo, il decadentismo, l'estetismo e un misticismo intenso, ma sempre in un confronto ininterrotto con la tradizione.

Per questo, nelle sale del San Domenico, il "presente" e il passato si sono incontrati. Così - mentre la statuaria classica si alternava alle sculture dell'artista, che dialoga con l'Ercole e Anteo del Pollaiolo, con il Profeta Abacuc di Donatello, meglio noto come lo Zuccone, o con i marmi di Michelangelo e del Bernini - nel percorso di mostra, quadri celebri illustravano con un forte impatto didattico la formazione di Wildt, addestrando l'occhio del visitatore a coglierne le diverse fasi. Sono opere da manuale, che spaziano da Bramante a Cosmè Tura, da Dürer a Bronzino, e conversano tranquillamente con i capolavori "modernissimi" meditati da Adolfo: tele di Previati, Gustav Klimt, il Miracolo delle rose di Wilhelm List, e ancora Segantini, De Chirico, Casorati, Morandi, fino agli allievi Fausto Melotti e Lucio Fontana.

Perché anche questa volta, in linea con la filosofia delle esposizioni forlivesi, la strategia che ha governato l'allestimento non è stata quella di realizzare una monografia, un percorso cronologico da contemplare in maniera passiva, quanto, piuttosto, l'idea, interattiva, di offrire un itinerario didattico ragionato. Partendo dall'eccezionale nucleo di lavori dello scultore conservati a Forlì, conseguenza felice del mecenatismo dei Paulucci de Calboli, è stato possibile proporre un confronto tra le opere del maestro e i modelli del passato, con uno sguardo sulla vicenda artistica del futuro.


Ma veniamo, ora, alla biografia di Wildt. Milanese, era nato povero da una famiglia umile nel 1868, ma nel 1931 era morto accademico, con una fama, all'epoca, da eguagliare Marinetti, Pirandello, o D'Annunzio. Fu, la sua, "una biografia che se non fosse vera parrebbe uscita dalla letteratura, come la storia di un destino assegnato all'arte" (Paola Mola). Nel 1892 la sua prima scultura, intitolata La Vedova, che era poi il ritratto della moglie Dina e fu presentata due anni dopo alla Triennale di Brera, richiamò nel suo studio il mecenate Franz Rose. Intellettuale e collezionista, il prussiano gli cambiò la vita, e lo legò a sé con un contratto che durò fino al 1912.

Nella villa-castello del suo committente, a Döhlau, tempio dell'eclettismo dove tramite l'artificio letterario si incontravano il gotico e l'oriente, l'antichità classica e il decadentismo, Wildt entrò in contatto con una colonia di artisti che si riconoscevano nella Secessione. Uscito dall'idealismo tardoromantico lombardo, il milanese crebbe sui modelli di Gustav Klimt, parlò con Böcklin, ma fu anche folgorato da Rodin. Videro così la luce La Martire, l'Uomo che dorme, una Sfinge, il Larass, Il Crociato, dove confluiva il "nudo" eroico declinato in Vir temporis acti, ispirato alla grandezza degli antichi rielaborata attraverso una visione assolutamente moderna; e poi Anima gentile, dai ricordi liberty e dalle dorature klimtiane, e ancora busti, maschere, disegni, copie dall'antico, delle quali, del resto, pullulava la villa.

Molte delle sculture eseguite a Döhlau furono distrutte nella Seconda guerra, ma della produzione di quel periodo testimoniano le fotografie conservate nell'archivio dell'editore Scheiwiller, discendente per via famigliare del maestro ed erede di molte sue opere, e le sculture per la villa Messtorf a Pallanza (eseguite su concessione di Rose). Sono queste le statue che aprono il percorso di mostra, repliche da capolavori che testimoniano l'abilità dello scultore: il Galata morente, i Gladiatori, e la Venere di Milo, provenienti dal Venusberg di Pallanza, un singolare incontro tra arte plastica e musica del Tannhäuser, e quasi una performance moderna.

Il mito era la passione di Wildt, e così pure la maschera, nella quale si nascondeva il dramma, pirandelliano, dell'identità dell'uomo, che l'artista esplorava anche tramite Dostoevskij. E che piaceva a D'Annunzio, il quale acquistò la Maschera dell'idiota (1918), oggi al Vittoriale, un guscio vuoto "che si spacca come una melagrana" (Anselmo Bucci). Sperimentali erano le modalità con le quali era raffigurata l'espressione, e resa la tensione emotiva: scavati all'interno come involucri della psiche, i volti evocano in una sintesi astratta il mondo dell'inconscio. Così, nel '17, Un Rosario, busto femminile semplificato, riassumeva nella linearità della forma erosa dall'interno l'esperienza del dolore, ridotta a una nudità essenziale. "Solo un pazzo poteva concepire l'idea di svilire il marmo fino a renderlo una fragile maiolica". E ancora: "Emergeva in negativo la questione della smaterializzazione del marmo, come esito finale di un virtuosismo troppo esibito che faceva diventare le statue assurdi oggetti d'arte" (Fernando Mazzocca).

Ma Wildt fu prima di tutto uno sperimentatore, e perciò il suo tormento creativo si risolveva in una ricerca polimaterica, a partire dalla predilezione per la scultura come esaltazione della tecnica e del materiale tradizionale, che con lui per la prima volta arrivò a "effetti speciali". "Il suo scalpello si addentra profondamente nelle narici, nelle occhiaie, nella bocca, mette in rilievo i denti, si aggira nella sinuosità del padiglione dell'orecchio... Il marmo sotto le sue mani si solleva in bordi sottili, si assottiglia in lamine trasparenti, prende delle preziosità simili a quelle di un interno di conchiglia pallida; si trasforma quasi in una materia compatta levigata. La trama, il cristallino del marmo cede alla lucidità della porcellana e dell'avorio. Si direbbe che raggiungere la squisitezza tattile sia la tendenza inconscia di Wildt" (Antonio Maraini, 1915). È, insomma, il miracolo di una materia che da ostica diventa duttile e si fa spirituale, attingendo, spesso, al surreale.

Nel 1913 Rose moriva nel suo castello ai confini dell'Europa. Wildt perse il suo interlocutore. Certo, gli rimanevano le amicizie: Previati, Giolli, Grubicy e poi Marangoni e Margherita Sarfatti, ma ben presto incontrò di nuovo la povertà. Nel chiuso del suo studio fece allora il suo ingresso uno spirito diverso, quello di una femminilità lineare, opposta alla riflessione sulla massa. I modelli furono più che mai Klimt, e il decoro simbolista e liberty. Una melancholia accentuata pervase la sua produzione, estesa, di lì a poco, a temi mistici: Lux (1920), Fontanella santa, in bronzo dorato e onice, La Concezione (1921). Ma prima ancora, nell'infuriare della Prima guerra, si era dedicato a una riflessione sui misteri della maternità e della Vita. Ed ecco, allora, capolavori come la Madre adottiva. Destinata al Cimitero monumentale di Milano, quest'opera inaugura una ricerca plastica più distesa, che stilizzando l'immagine la incanala verso una rarefazione virtuosistica della materia e una spiritualità progressiva, che piacque alla critica.

A questa fase appartengono anche il Rosario, e Maria che dà luce ai pargoli cristiani. Maria coeli porta, scolpita nel 1918, spalancò all'artista le porte del successo che gli avrebbe valso, nel 1926, la cattedra di Scultura all'Accademia di Brera, conquistata per chiari meriti e senza concorso. La Sarfatti fu la leva della sua fortuna, ma non sempre il "governo" apprezzò il suo operato, e difatti alla Quadriennale del 1930 il duce evitò il colosso del Parsifal, capolavoro alto sei metri, ma superato secondo l'ottica del regime.

Wildt però, come si è detto, era uno sperimentatore, e tutt'altro che superati, ma anzi, straordinariamente attuali, erano i suoi lavori: il Monumento ai caduti di Valduggia (1920) o la tomba Boschi restituivano un'umanità di eroi, offrendo nuove possibilità agli dei, con affinità inquietanti con i protagonisti di pellicole recenti come Avatar o Guerre stellari. Analogie che siamo in grado di cogliere oggi, quando la produzione del maestro ci appare nella sua straordinaria apertura sul futuro.

Grazie all'insegnamento a Brera e alla sua originale idea di scultura, che conquistava ora nuove possibilità volumetriche e spaziali, la sua eredità artistica passò nella produzione degli allievi, destinati a diventare i protagonisti di un nuovo modo di concepire la forma: Fausto Melotti (dal 1928), ma soprattutto Lucio Fontana (dal 1927), del quale non capiremmo i "tagli", se non conoscessimo le cavità e le occhiaia scavate dei volti di Adolfo Wildt.

Primo scultore d'Italia, principe del Novecento, Wildt era "lontano dai nostri etruschi, romani romanici, toscani, tutti rispettosi della pietra e del marmo", come scriveva Ugo Ojetti. Fu un decadente, ma la decadenza era "distanza dalla natura, e unico denominatore comune a ogni ricerca che fosse veramente tale... dalle avanguardie ai movimenti tra Metafisica, Nuova Oggettività e Surrealismo, fino a quando la Mostra d'Arte Degenerata organizzata dal nazismo le mise insieme tutte" (Paola Mola).

Invece, è nel laboratorio di Wildt - dove si intreccia tutto: Bernini e il Trecento, Fidia e la Pietà Rondanini, accostati come nelle Pathosformel di Aby Warburg in un'arte senza tempo - è qui che si rivela la corrispondenza con il contemporaneo. "Decadenza il Laocoonte?" - diceva lo scultore - "Ma è la resurrezione!".


Nota

(1) Wildt. L'anima e le forme, a cura di P. Mola, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2012.

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