Rivista "IBC" XX, 2012, 3

Dossier: Scossa ma non arresa - L'Emilia-Romagna dopo il terremoto

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Ricostruiamo per ripartire

Maria Pia Guermandi
[IBC]

Di tutti gli aggettivi che possiamo usare per definire il terremoto che ha colpito i nostri territori nello scorso mese di maggio, "imprevedibile" è certamente il meno appropriato. La consapevolezza che anche la pianura padana sia un'area ad alto rischio sismico, infatti, è diffusa, anche a livello politico, da almeno un decennio. E a ribadire il carattere non imprevisto, neanche nella gravità, di un simile evento, da alcuni anni si sono aggiunte le ricerche degli storici, in primis quelli coordinati da Emanuela Guidoboni, autrice, guarda caso, di un recente studio sulla storia dei terremoti nel ferrarese e sulla sottovalutazione del rischio sismico.

Fin dal 2003 la carta sismica nazionale era stata aggiornata in tal senso, eppure ben poco è stato fatto, in questo periodo, per una riconversione in senso antisismico del patrimonio edilizio. Questo ritardo rende ragione, d'altronde, dell'enorme dilatazione dei danni agli immobili di qualsiasi tipologia. Fra questi, gravissimi quelli al patrimonio culturale: un tessuto straordinariamente fitto di architetture storiche, da quelle religiose a quelle militari e civili, per moltissimi centri letteralmente costitutivo delle strutture urbane, tale che la sua devastazione ha provocato un completo stravolgimento di questi centri. San Felice sul Panaro, Mirandola, Finale Emilia, fra quelli maggiormente colpiti, escono da questa tragica esperienza con un profilo urbano orribilmente mutilato.

La distruzione di chiese e campanili, rocche, ville, conventi, torri, residenze signorili, tutti connessi inscindibilmente a decine di edifici storici di livello architettonico buono se non ottimo, ha comportato, di fatto, una ferita pesantissima nell'identità civica di questi centri. E ugualmente, nelle campagne, quell'edilizia rurale di antica tradizione che costituisce la trama architettonica delle nostre terre ha ricevuto danni che purtroppo ancora adesso, al momento in cui scriviamo queste note, sono ancora non compiutamente quantificabili, ma sicuramente gravissimi, a partire da quei campanili che nella Bassa, con il rintocco delle loro campane, rappresentano il punto di riferimento topografico e acustico. Si tratta in gran parte delle stesse case a cui Lucio Gambi, il primo presidente dell'Istituto regionale per i beni culturali (IBC), dedicò studi decisivi e metodologicamente innovativi, inserendole a pieno titolo tra i beni degni di salvaguardia.

In queste terre, come quasi ovunque in Italia, ma non altrove, il patrimonio culturale coincide con lo spazio antropizzato, il luogo dove si vive e si lavora. Perderlo significa condannarsi a uno spazio senza identità, a un non luogo senza storia, né memoria. Certo non si tratta di emergenze da lista UNESCO, ma che proprio nel loro carattere di "capillarità" testimoniano, nel loro insieme, dell'eccellenza monumentale complessiva di un territorio: monumenti non da guida di turista giapponese, ma scenario abituale - e imprescindibile - della vita cittadina quotidiana.

D'altro canto, proprio in questa regione prima che altrove, al volgere degli anni Sessanta, aveva preso avvio un intenso dibattito sul ruolo del patrimonio culturale, che porterà a una radicale ridefinizione del concetto di bene culturale, dimostrando l'inconsistenza scientifica di una distinzione fra beni e monumenti di maggiore o di minore valore. È da queste elaborazioni, e da una diversa concezione della tutela, fondata su di una capillare conoscenza del territorio, che negli anni immediatamente successivi nascerà l'Istituto per i beni culturali. Ed è sulla base di quei princìpi che deriva l'unica via d'uscita possibile da questa emergenza: la ricostruzione e il restauro generalizzato del patrimonio storico, inteso quindi non come insieme di singole emergenze monumentali, ma come tessuto urbano unitario, come sistema inscindibile, non gerarchicamente scomponibile, conchiuso architettonicamente e allo stesso tempo urbanisticamente vitale.

Si tratta quindi di applicare coerentemente, e secondo pratiche adattate a una situazione postsismica, quell'impianto teorico e metodologico di conservazione dei centri storici consolidatosi nella Carta di Gubbio e che proprio nella nostra regione, negli scorsi decenni, ha saputo trovare applicazioni che hanno fatto scuola in Italia e in Europa. È da quelle esperienze, che costituiscono anch'esse le radici culturali dell'IBC e che un grande urbanista come Leonardo Benevolo ha recentemente definito come il "contributo più rilevante dell'Italia alla moderna ricerca internazionale", che occorre ripartire.

Non si tratta affatto di "congelare" il territorio, come è stato detto con una certa approssimazione culturale. Si tratta piuttosto di restituirgli la sua identità storica, dando un contesto fondativo, civico e culturale, a quella rinascita sociale ed economica verso la quale le energie di tutti sono protese in questo momento. Frutto di attardamento culturale, nella stessa direzione, appaiono per conseguenza le distinzioni tra i diversi periodi storici, per cui si tende ad attribuire valore inferiore (e quindi minori possibilità di ricostruzione) a edifici che presentano fasi costruttive di diversa epoca, quasi che la tutela debba essere circoscritta solo a esemplari di "puri" dal punto di vista cronologico; mentre, al contrario, è proprio nella stratificazione secolare, e a volte millenaria, tipica della larga maggioranza dei nostri edifici monumentali, che risiede non solo la loro importanza storica e documentale, ma anche il loro fascino, così italiano, così unico.

Ripartire anche dalla nostra storia, perché proprio questo diverso rapporto con il passato è uno dei caratteri fondanti della nostra modernità. A questa storia, non per caso, si è direttamente riallacciato lo stesso presidente - e commissario - Errani quando ha dichiarato che occorre ricostruire, più che costruire: scacciando in questo modo i fantasmi della tragedia aquilana, dove uno dei centri storici più importanti d'Italia è da tre anni abbandonato, racchiuso in una gabbia di tubi metallici che si è trasformata in una vera e propria camicia di forza. A pochi chilometri di distanza, l'esperimento delle new towns - le case "provvisorie" costruite ex novo con grande dispendio di mezzi per ospitare gli sfollati - si è nel frattempo trasformato in una prigione desolante per gli abitanti isolati da tutto, senza servizi, né strutture civili e religiose, perché un insieme di case è qualcosa di ben diverso da un centro urbano. Lo ha ben compreso Barbara Spinelli che per descrivere la situazione delle città terremotate come L'Aquila è arrivata a parlare di "urbanicidio".

Qui in Emilia non partiamo da zero: una normativa sismica per il patrimonio storico, monumentale e non solo, insieme con una microzonazione che guidi preventivamente l'esposizione al rischio, trovano in questa regione proposte e studi metodologici avanzati, a cui attingere nell'attuale emergenza. E dai settori più avanzati del mondo della ricerca sono maturate in tal senso esperienze e testimonianze autorevoli, tanto nel campo del consolidamento strutturale - oggi sempre possibile sul patrimonio storico, anche con tecnologie innovative ma rispettose delle strutture antiche - quanto in quello dei materiali e delle tecnologie costruttive tradizionali.

Se dal punto di vista urbanistico, quindi, occorre prima di tutto rifarsi alle nostre migliori esperienze, consolidando una normativa che in anni passati è stata un modello a cui fare riferimento, altrettanto occorre fare per quanto riguarda il recupero del patrimonio culturale.


Purtroppo il terremoto ha evidenziato con spietatezza lo stato di debolezza del sistema di tutela del nostro patrimonio: mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Ministero per i beni e le attività culturali, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire quella manutenzione generalizzata e continuativa che è il primo e imprescindibile strumento di tutela.

Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle "eccellenze". Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate a eventi particolari. In pratica questo significa l'abbandono a un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall'evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante. Come è successo per Pompei: non appena si cessa l'opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti. La mancanza di un programma di manutenzione efficace è quindi divenuto il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l'effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale.

Eppure, anche in questo campo, il Ministero è stato per molti anni un punto di riferimento a livello internazionale, per quanto riguarda le metodologie. A partire dal piano di prevenzione antisismica elaborato da Giovanni Urbani all'inizio degli anni Ottanta, e da quella Carta del rischio costituita faticosamente a partire dagli anni Novanta dall'Istituto centrale del restauro (ICR): progetti entrambi abbandonati per mancanza di risorse e di una visione di ampio respiro della politica culturale. Giovanni Urbani, grande direttore dell'ICR, già nel 1983 sottolineò in particolare, attraverso un libro e una mostra, come il rischio sismico fosse uno dei fattori cruciali di vulnerabilità del nostro patrimonio e che, anche dal punto di vista economico, la prevenzione costituisse l'intervento più efficace e duraturo.

Eh sì, perché l'aspetto economico, in tempi di recessione nazionale e crisi mondiale, diventa ancor più un fattore strategico. Ebbene, anche in questo ambito, la lezione che ci hanno consegnato i migliori studiosi delle discipline del restauro e della conservazione dimostra chiaramente che gli interventi conservativi e di restauro, uniti a una manutenzione costante, risultano più efficaci e meno onerosi rispetto alla demolizione e ricostruzione.

In un recente studio, Silvio Casucci e Paolo Liberatore (ricercatori del Centro di ricerche e studi sui problemi del lavoro, dell'economia e dello sviluppo) hanno mostrato quanto ci è costata la mancanza di prevenzione: dal 1950 al 2009 il danno alle cose provocato dai terremoti è stato di 147 miliardi, quasi 3.700 milioni di euro l'anno, e le morti causate dai terremoti nello stesso periodo sono 4.665. Se aggiungiamo a questi numeri i danni del dissesto idrogeologico - negli ultimi venti anni alluvioni e frane ci sono costate 1 miliardo e 200 milioni all'anno - si vedrà che il costo delle catastrofi è, in media, di 5 miliardi all'anno. E questa cifra astronomica non comprende le conseguenze, non traducibili in valore economico, sul patrimonio storico, artistico, monumentale.

Qualche anno fa Guido Bertolaso, allora capo della Protezione civile, stimò che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro, sottintendendo che l'enormità della cifra rendeva impossibile, in partenza, un'operazione di tal genere. Ebbene, poche settimane fa, nella ricerca della nuova pietra filosofale di questi nostri tempi strabici, ovvero la strategia per uscire dalla crisi, il ministro delle infrastrutture ha lanciato un piano per la costruzione di "Grandi opere" (per lo più infrastrutture viarie e ferroviarie) di molte decine di miliardi di euro.

Da questo strabismo occorre uscire al più presto, senza incertezze, abbandonando le chimere della crescita drogata delle "Grandi opere": quelle risorse vanno al contrario destinate all'opera di ricostruzione e di riqualificazione degli immobili, con l'adozione di regole antisismiche finalmente cogenti e di manutenzione del territorio. Insieme con la riqualificazione di professionisti e imprese, questo impegno può portare alla realizzazione della vera grande opera pubblica italiana, capace di rilanciare, sulla qualità, interi settori economici, proiettandoli verso la ricerca e l'innovazione.

Subito dopo il terremoto dell'Irpinia del 1980, Antonio Cederna puntò il dito immediatamente sulla mancanza di normative antisismiche e sul dissesto idrogeologico: "Il terremoto è dunque un aspetto di quell'autentico sisma permanente che è il saccheggio generalizzato del territorio e delle sue risorse". A oltre trent'anni di distanza, quella lezione va applicata con urgenza, anche per motivi economici, così come ci ha ricordato pochi mesi fa il presidente Napolitano, in un discorso a Vernazza, la cittadina delle Cinque Terre colpita da alluvione nell'ottobre 2011: "Bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall'emergenza alla prevenzione".

In un territorio di grandi tradizioni civiche come il nostro - che ha costituito per molti, in anni passati, un modello cui tendere per quanto riguarda la buona amministrazione e il governo del territorio, come ci ha ricordato fra gli altri Vezio De Lucia - ripartire in questa direzione si può e si deve. Le premesse culturali, istituzionali, sociali ci sono tutte, insieme alla certezza, consolidata dalla storia, che solo ricostruendo anche il nostro passato potremo garantirci un futuro migliore.

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