Rivista "IBC" XX, 2012, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / editoriali, pubblicazioni

Proteggere i giganti secolari del mondo vegetale significa anche proteggere noi stessi, difenderci dall'insidia dell'inaridimento, sentire che il dialogo con la natura non è ancora spento, solo che si sappia ascoltare e soprattutto vedere.
La saggezza dell'albero

Ezio Raimondi
[italianista, presidente onorario dell'IBC]

Il testo è tratto dal volume Giganti protetti. Gli alberi monumentali in Emilia-Romagna, edito nel 2002, a cura di Teresa Tosetti e Carlo Tovoli, dall'Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e dall'Editrice Compositori di Bologna.


"Oh dei! Perché mai non sono seduta all'ombra di foreste!". Così esclama Fedra, l'eroina raciniana, dal profondo della sua anima ardente, e sono le parole che ripete anche George Sand nel pieno dell'Ottocento, in un testo dedicato ai boschi e ai giardini italiani, osservando poi, nel suo viaggio nella penisola, che i grandi alberi, ispiratori muti di "un raccoglimento profondo e misterioso", stavano sparendo e che "il progresso industriale" avrebbe distrutto "sempre più le piante secolari" o non avrebbe permesso "per molto tempo a nessuna pianta coltivata il diritto di vivere oltre l'età strettamente necessaria al suo sfruttamento". E non vi è dubbio che, tra incanti e minacce della modernità, l'occhio introspettivo dell'intelligenza romantica vedeva lontano. Da allora è nato il dibattito sul nostro abitare il mondo e si è fatta più acuta e urgente la consapevolezza del destino comune che lega insieme il rispetto del patrimonio naturale, la "sollecitudine" del "vitale ammanto della natura" come diceva Novalis, e la sopravvivenza reale del nostro ecosistema, mentre viene meno l'orgoglioso mito razionalistico della perfettibilità e del progresso imperiosamente lineare.

Anche la storia del rapporto tra uomini e boschi è una storia di distruzioni e devastazioni. Le antiche foreste che ricoprivano la superficie terrestre e con la loro trama di ombre rendevano invisibile la distesa del cielo sono scomparse nel corso della nostra civiltà occidentale con l'esercizio pertinace di un dominio territoriale e con la costruzione di uno spazio abitativo umano nelle "radure" spianate. Viene alla mente il vecchio Vico, l'antropologo solitario e geniale della Scienza Nuova, allorché scriveva: "L'ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l'accademie". E proprio sulle sue orme, alla confluenza di mito e letteratura, oggi Robert Harrison in un libro dotto e suggestivo interpreta le foreste come l'ombra perenne della civiltà, come il margine esterno e remoto ma necessario del centro in cui vive l'uomo e il suo ordine: uno spazio primordiale che anche quando viene incluso nella giurisdizione del governo pubblico, dalle riserve reali alle istituzioni forestali e ai parchi, rimane sempre vertiginosamente "altro", luogo misterioso di una memoria ancora "selvaggia". Non per nulla, se si interroga il repertorio dell'immaginario occidentale, nelle foreste trovano asilo eroi, santi, amanti, perseguitati, vagabondi, reietti, prima di ritornare, con una nuova pienezza, alle forme ordinate della vita civile. Chi non conosce la storia di Robin Hood e dei suoi compagni della foresta di Sherwood?

Vero è che distrutte le grandi foreste l'uomo ne conserva la nostalgia, quasi un richiamo delle origini, e oggi si chiede come salvare ciò che ne resta. Allo stesso modo i grandi alberi centenari di cui si ragiona in questo nostro volume sono gli unici superstiti di antichi paesaggi perduti, i testimoni di una "natura vivente" che resiste ancora, placida e ostinata, a una furia nemica. E la loro forza silenziosa di adattamento diviene così quello che Novalis chiamava il "linguaggio più immediato del suolo", il segno visibile di una "fermezza" tenacemente piantata nella solida compagine della terra con la promessa di una rinascita a ogni nuova primavera, la stessa che parla anche all'uomo, alla sua vitalità e alla sua speranza. In fondo proteggere i giganti secolari del mondo vegetale significa anche, in qualche modo, proteggere noi stessi, difenderci dall'insidia dell'inaridimento, sentire che il dialogo con la natura non è ancora spento, solo che si sappia ascoltare e soprattutto vedere. Anche per le immagini chiamate a raccolta nelle nostre pagine si può ripetere con lo Schama di Paesaggio e memoria che ciò che si vuole è un modo di vedere, di riscoprire quello che già possediamo ma che in un certo senso elude il nostro sguardo e la nostra comprensione. Alla fine conta soprattutto ciò che possiamo ancora trovare, e forse custodire e amare.

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