Rivista "IBC" XXI, 2013, 4

musei e beni culturali / didattica, interventi, linguaggi, mostre e rassegne

Chi realizza una mostra documentaria è chiamato a dare forma visiva ed evocativa a processi creativi che, di per sé, non si vedono e non si sentono. Da Bellaria a Lubecca e Zurigo, ecco due esempi ben riusciti.
Allestire l'invisibile

Maria Gregorio
[coordinatrice dei musei letterari e di musicisti per ICOM Italia]

L'estate 2013 ci ha regalato due bellissime mostre letterarie. Due mostre esemplari, non soltanto perché allestite alla perfezione, ma anche perché illustrano in modo esemplare, appunto, due vie molto diverse ma altrettanto valide per realizzare un'esposizione letteraria: si tratti di mettere in scena un'opera o un personaggio. In questo caso: Thomas Mann e il racconto La morte a Venezia, al Buddenbrookhaus di Lubecca e allo Strauhof Museum di Zurigo; Alfredo Panzini e le donne, nella Casa Rossa di Bellaria Igea Marina (Rimini), il museo dedicato allo scrittore.1

Vale la pena di osservarle da vicino, accostandole. Raramente, infatti, è possibile capire con tanta chiarezza quali intendimenti e quali strumenti possano raggiungere per vie diverse il comune obiettivo: dare forma visiva ai processi che, nel tempo, disegnano e modificano l'immagine di un autore e della sua opera.

Perno di tutto è l'allestimento, ossia la costruzione del percorso espositivo ideato dal curatore regista o dall'artista allestitore per offrire una rappresentazione visiva della "cosa" letteraria.

Ho, così, citato i due artefici all'opera. Da un lato, un curatore che, coadiuvato da chi realizza l'allestimento, stabilisce una precisa regia espositiva; dall'altro, un artista che, attento alle indicazioni del curatore, crea, ordinandoli nello spazio, gli oggetti necessari a rappresentare il tema prescelto. Entrambi partono, com'è indispensabile, dall'interpretazione.

Nel primo caso, il curatore regista delinea, quale forma visiva della sua interpretazione, il percorso della mostra, invitando il visitatore a confrontarsi razionalmente ed emotivamente con il nuovo che scaturisce da ogni rappresentazione espositiva. Nel secondo, l'artista dà forma all'interpretazione attraverso un dialogo fatto di consonanze e dissonanze, da lui stesso innescato, tra gli oggetti di nuova creazione, i materiali preesistenti, lo spazio: giocando sulla sorpresa e sullo spaesamento, sfida il visitatore a prendere atto dello "scarto" rivelato dal suo gesto creativo.


Varchiamo, ora, la soglia dei due musei.


La mostra che ha per titolo "Voluttà della decadenza. 'La morte a Venezia' di Thomas Mann" è stata originariamente allestita al Buddenbrookhaus di Lubecca nella primavera del 2012, a cento anni dalla pubblicazione del racconto. Il Museum Strauhof di Zurigo, l'ha ospitata nell'estate del 2013, aggiungendovi una nuova sezione dedicata a Richard Wagner, a duecento anni dalla nascita del musicista. Molto stretto è infatti il rapporto di Thomas Mann con la musica e la figura di Wagner, che a Venezia, dove compose il duetto d'amore delTristano, morì.

Al centro della mostra è il testo del racconto, messo in scena seguendo le tracce del protagonista, Gustav von Aschenbach, durante il suo soggiorno lagunare, fino a quando la morte pone fine al suo "decadere". Il visitatore è sollecitato ad accompagnarlo per così dire fisicamente, muovendosi con lui passo dopo passo (scortato, ove lo desideri, da un'ottima audioguida), scoprendo per via i temi che innervano il racconto e la struttura narrativa che vi è sottesa. Nella mostra, come nel "romanzo percorribile" costruito da Hans Wißkirchen nel Buddenbrookhaus di Lubecca, il visitatore cammina nel testo, lo legge e lo guarda, lo vive in prossimità e a distanza. E anche in questo nuovo allestimento si avverte, con forza, la mano salda del curatore regista.

Un modulo allestitivo segna più di ogni altro e in modo estremamente efficace l'intero percorso espositivo: il susseguirsi di pannelli quadrati, inclinati su un sostegno che li regge a circa settanta centimetri da terra. Ogni pannello reca scritto un passo saliente del racconto, che sembra così "svolgersi" dinnanzi ai nostri occhi durante il tempo della visita. I caratteri a stampa sono studiati per far sì che il visitatore non debba chinarsi per leggere, riuscendo a seguire agevolmente il testo e, nella stessa posizione, a guardare gli oggetti e le immagini intorno. Aggiungerei: riuscendo a percepirsi e a viversi nello spazio creato da testo, oggetti e immagini.

È uno spazio che muta di "stazione" in "stazione": partendo da Monaco, dove sono vissuti Thomas Mann e il suo alter ego Gustav von Aschenbach, fino a Venezia, dove il visitatore arriva oltrepassando una pozza di laguna creata sul pavimento da un proiettore, a segnare la soglia. Pertanto, non si attraversano "sale" bensì, appunto, "stazioni narrative", reali e mentali, costruite mediante banner illustrativi, videoproiezioni e gigantografie fotografiche, usate per ricreare sullo sfondo l'atmosfera della città, dei canali, dell'albergo, del Lido. Mentre oggetti, quadri, statue, fotografie, vetrine con libri, documenti e periodici (sempre disposti in modo da poterli leggere con agio) rendono visivamente e sensorialmente presenti sia i temi e i personaggi del racconto, sia quelli che aleggiano sul fondo: la figura problematica dell'artista, la mitologia greca, la filosofia di Nietzsche, l'omosessualità, per citarne alcuni. Il legame tra gli avvenimenti narrati e quelli vissuti dall'autore è qui strettissimo.

Immersi in questa atmosfera, sollecitati da queste presenze, si cammina attraverso la mostra sempre seguendo il testo con gli occhi e con la mente che, in un certo modo, rimane quasi più vigile di quanto non sia quando leggiamo nel silenzio di una stanza. Ciò avviene perché la "ricreazione" del testo in forma espositiva sollecita la reazione del visitatore, insieme emotiva e attivamente critica, grazie alla sequenza delle citazioni sui pannelli, veri e propri segnavia che ordinano il percorso in un fitto dialogare con gli oggetti e le immagini. Come a dire che, per capire, è necessario abbandonarsi alla "voluttà" della lingua e della visione, ma rimanendo vigili entro i confini e ben saldi sulle gambe, per decifrare - osservando, leggendo, ragionando - la lettura nuova del testo che la regia offre all'intelligenza dei sensi e della mente.


Nella Casa Rossa dello scrittore Alfredo Panzini, che riapre le porte ogni primavera a Bellaria Igea Marina per concludere la stagione con l'autunno, si è inaugurata nel giugno 2013 la nuova mostra: "Alfredo Panzini e lo stile delle donne". Come di consueto, la cura scientifica è firmata dal direttore, Marco Antonio Bazzocchi, l'allestimento è stato realizzato dall'artista Claudio Ballestracci. La solidità scientifica, guizzante di ironica fantasia, e l'impronta artistica, saldamente ancorata alla conoscenza di tecniche e materiali, contrassegnano fin dall'inizio questo straordinario unicum nel panorama museale italiano. Qui, infatti, non vediamo interventi d'artista aggiunti o integrati in un allestimento dato: qui, l'intero allestimento è ogni volta ricreato come opera d'arte a sé stante.

Così potremmo forse sintetizzare il modo in cui Ballestracci lavora all'allestimento del museo: rimane in paziente ascolto della vita che ha impregnato le stanze e, quand'essa si svela, egli crea oggetti che di quella vita recano una traccia visibile ma, senza lasciarsene imprigionare, vivono di vita propria, dando corpo a un'intensa relazione di scambio tra ciò che è stato e ciò che è. Approfittando della libertà offertagli da una casa pressoché priva di arredi e oggetti originali, l'artista studia con sapienza e amore i pochi rimasti per trarne ispirazione e mandare "in luce al mondo" i nuovi oggetti, portatori della sua poetica, fedeli all'anima della casa. Questo significa interpretare tenendo viva la memoria.

Per nostro diletto, molti di questi oggetti creati in occasione delle mostre che si sono susseguite nel tempo continuano a vivere anche in quella nuova. Di fatto, in quest'ultima esposizione ci sono tre mostre in una. La prima vede protagoniste le donne di cultura dell'epoca: Sibilla Aleramo, Margherita Sarfatti, Ada Negri. Protagoniste della seconda sono Clelia, la moglie pittrice, presente in tutte le sale con le sue opere, e la figlia Matilde, fervente ammiratrice del padre. Al centro della terza è invece lo stesso scrittore, appassionato cultore di moda.

Le quattro "vele" poste nella sala d'ingresso sono ovviamente ispirate al tema e la prima reca un testo dattiloscritto di Panzini sull'abbigliamento femminile: volutamente "bianca", su di essa vengono proiettate immagini di figure tratte da riviste di moda conservate nell'archivio. Alle pareti, i primi quattro dipinti di Clelia: ritratti familiari scelti per introdurre il visitatore, accolto da canzoni d'epoca, tra gli abitanti della casa.

Si entra nel "Soggiorno delle carte", dove dominano sette faldoni d'archivio che contengono sette riviste di moda dell'epoca. Ricreati trasparenti, illuminati da una striscia a luce calda, i faldoni poggiano su due tavoli in lamiera zincata ossidata, ponendosi così in relazione con le pareti della sala, dipinte a tempera detta polverosa. Tra i due tavoli ecco la base di lamiera su cui è appoggiata la bicicletta (l'ultima usata da Panzini), illuminata da una lampada costruita ad hoc usando i tubi per l'irrigazione dei campi: un riferimento alla passione dello scrittore per la vita povera, di campagna, come lo sono la lamiera zincata, usata in tutto l'allestimento, e così pure i cartellini "volanti", sostenuti da un filo di ferro. A una parete il comò, il cui lungo cassetto illuminato mostra cinque disegni caricaturali dello scrittore. Sulla parete di fronte, il mobile a vetrina originale, illuminato all'interno, ospita i ritagli di stampa amorevolmente raccolti dalla figlia, accompagnati da alcuni oggetti: forbici, un pennino, un calamaio, una cartolina. "Objets à vocation poétique", li avrebbe definiti Le Corbusier.

Al primo piano, la "Stanza di Alfredo", interamente dedicata a Clelia, offre due novità emozionanti. A ciascuno dei dodici aerei leggii (che ora portano disegni di lei, ma sono presenti fin dalla mostra inaugurale) è stata aggiunta una lampada: il braccio che la sostiene, fissato nella parte alta dello stelo, è di tubo in rame ossidato, mentre la testa è in tubo di ferro zincato. Forma e colore riprendono elementi figurativi del soffitto. È uno dei "paesaggi" della casa più fiabeschi.

La grande scrivania, dove sono esposti documenti che illustrano la vita professionale di Clelia, è stata "elettrificata" con un sistema che prevede l'inserimento di contenitori trasparenti luminosi, alloggiati nei cassetti: l'"antico" che racchiude il contemporaneo dell'alta tecnologia. Non è infatti mancato, tra i visitatori, chi evocasse Tron, un film di fantascienza.

Nella stanza da letto è adagiato sulle lenzuola il telo che porta impressa la copertina di una rivista di moda, mentre nell'armadio rimane la divisa che Panzini indossava come "accademico d'Italia", schermata dal velo che riproduce il lemma "accademico", tratto dal suo Dizionario. Di fronte, la magica teca-lanterna sormontata dalla piuma (metafora della scrittura), che racchiude gli occhiali e un ritratto di Panzini. Dal comodino, elettrificato, occhieggiano due fotografie di Matilde, bambina e giovinetta.

Ma, ancorché piccola, a dominare la stanza e forse l'intero allestimento di quest'anno è la nuova teca dedicata proprio alla figlia Matilde. "Micromondo teatrale" la definisce Claudio Ballestracci, che spiega: "Ho avvertito il bisogno di introdurre un elemento drammaturgico: le immagini in movimento, l'attrice che ascoltiamo leggere la lettera della figlia mentre guardiamo nella teca le scarpette e la foto di lei bambina, la musica di Janáček che risuona nella stanza... Come se volessi far vivere ai visitatori un'emozione, una sensazione in miniatura. Così anche nell'allestimento di Casa Finotti, dove ho esposto il manoscritto di un quaderno in cui Piero, figlio di Panzini, descrive il fattore. E anche in questo caso ho voluto una voce di attrice a leggere il testo e l'accompagnamento di una canzone di Charles Trenet,Je chante".


"Essere immerso in un mondo di totale felicità in cui ogni cosa insignificante si impregna di significato": in queste parole di Joseph Cornell c'è forse la chiave dell'arte posta al servizio dell'allestimento.


Nota

(1) Chi desideri visitare almeno virtualmente entrambe le mostre può farlo tramite questi link:www.stadt-zuerich.ch/content/kultur/de/index/institutionen/ museum_strauhof/ausstellungen---programm-2013/tod-in-venedig/blick-in-die-ausstellung.htmlvimeo.com/72804054

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