Rivista "IBC" XXII, 2014, 1

musei e beni culturali / immagini, pubblicazioni, storie e personaggi

In un paesaggio non ci attira solo la superficie di ciò che vediamo ma anche qualcosa che rimane più nascosto. Un artista e un geografo a confronto sul mistero che ci lega ai luoghi della nostra vita.
Sotto la pelle della terra

Franco Farinelli
[geografo]
Tullio Pericoli
[pittore e disegnatore]

Il 30 gennaio 2014, nel Museo della storia di Bologna, è stato presentato al pubblico il libro di Tullio Pericoli intitolato I paesaggi (Milano, Adelphi, 2013). Alla presenza dell’autore, il geografo Franco Farinelli e la storica dell’arte Elena Pontiggia – introdotti da Fabio Roversi-Monaco, presidente di “Genus Bononiae. Musei nella Città” – hanno raccontato la loro lettura di un’opera che raccoglie le multiformi visioni del paesaggio realizzate in quarant’anni di lavoro dal pittore e disegnatore marchigiano. Pubblichiamo due degli interventi pronunciati nel corso della presentazione.


Quello di Tullio Pericoli è un libro che commuove. Cercherò di spiegare le ragioni di questa affermazione, ma è chiaro che ciascuno dei lettori è invitato a percorrere fin da adesso, per conto proprio, le strade tracciate dal testo. Un testo denso, scritto in un linguaggio che dobbiamo ancora iniziare ad apprendere, e guai a noi se non impareremo presto a interpretare queste figure, frammenti di un’opera che ogni giorno vediamo sminuzzata su “Repubblica” e che sembra fare poca impressione finché se ne guarda soltanto un’immagine alla volta.

Anche nel libro comandano le immagini, e non potrebbe essere diversamente, però ogni tanto si intercalano alcune citazioni letterarie. L’ultima proviene da un testo che tutti gli storici della cartografia e della geografia hanno in qualche maniera adoperato ed è il celebre brano in cui Jorge Luis Borges narra di un cartografo che passa la sua vita a disegnare il mondo, per poi accorgersi, alla fine dei suoi giorni, che invece ha disegnato il proprio volto. Una metafora che a mio avviso richiama altre parole, quelle di Andrea Zanzotto, secondo cui l’opera di Pericoli, composta da carte che ridono, sarebbe dotata di una follia preziosa e nutriente.

Ma torniamo a Borges. Si può a buon diritto sostenere che quel suo brano sia ripreso pari pari da un passaggio del Moby Dick di Herman Melville. Lo scrittore argentino, naturalmente, non lo dice, ma la sua fonte sembra proprio quella: il passaggio in cui Melville descrive il capitano Achab che sta dando la caccia al Leviatano. Il vecchio uomo di mare, chiuso nella sua cabina, sta computando sulle mappe il punto esatto dell’Oceano Pacifico in cui la balena bianca riemergerà, per darle finalmente la caccia. E, poiché Achab è nella nave e la nave oscilla, e sul soffitto della cabina c’è un lampadario di peltro, succede che le oscillazioni della lampada illuminano a intermittenza la fronte corrugata del capitano, sicché – scrive Melville – sembra proprio che quella fronte sia una mappa su cui il destino sta tracciando il suo disegno.

Per me la follia di cui parla Zanzotto riferendosi ai disegni di Pericoli ha a che fare da vicino con la follia che Achab rappresenta per Melville. Il quale Melville, non va dimenticato, aveva un diploma di cartografia, per cui sapeva bene di cosa stava parlando. Ma c’è anche un’altra forma di follia, ed è quella elogiata da Erasmo: il rifiuto di ogni logica che sia astratta o “deportata” dalla realtà del contesto. Una follia che si ritrova, parlando di paesaggio, ogni volta che la logica delle mappe viene contrapposta alla realtà dello spazio.

Achab, con la balena bianca, non riesce ad avere un rapporto frontale, perché Moby Dick è talmente grande, e ha una fronte talmente enorme, che un occhio sta da una parte e uno dall’altra. La balena è un globo, perché come il globo, per capire qualcosa, bisogna girargli intorno, non lo si prende di fronte. E, proprio in forza di questa globalità, Moby Dick rappresenta in modo esatto l’assenza di spazio. La follia di Erasmo è proprio questo: l’avvertenza che non esiste una ragione standard che possa fare a meno di riferirsi a un contesto determinato. Qui si situa l’opposizione tra spazio e paesaggio, e già nel titolo della raccolta di Pericoli, Paesaggi, noi abbiamo una definizione straordinaria di quello che oggi il mondo è: un complesso di luoghi, dove il paesaggio è la forma in cui il luogo si dà.

E vi prego di non credere alle favole: non esistono i “non luoghi” di cui parla Marc Augé. Qualche anno fa è uscito un film che si intitolava Terminal: racconta di un uomo che per uno strano accidente ha perso la sua cittadinanza e si trova costretto a vivere in un grande aeroporto americano. Così, quello che per Marc Augé è il simbolo del non luogo – ovvero un ambito che non dà luogo a un’identità, a una memoria, a una ragione di vita – diventa invece, per questo sfortunato essere umano divenuto apolide, un campo di attenzione, una zona di cura, persino un posto in cui ci si può innamorare. In una parola diventa un paesaggio.

Un altro celebre folle è quello che appare in Cuore di tenebra, il capolavoro di quel grande scrittore di cose di mare che si chiamava Joseph Conrad. Quando Marlow, l’io narrante, sta per arrivare finalmente in presenza del mitico Kurtz, incontra sulla spiaggia uno strano personaggio, un russo conciato come Arlecchino: ha un vestito tutto rattoppato, fatto a pezzi di stoffe diverse, e per una pagina intera Conrad ne descrive i colori. Che poi sono anche i colori di cui si serve Tullio Pericoli nei suoi ultimi paesaggi. Ma Pericoli sa che non si evade facilmente dallo spazio e una serie straordinaria dei suoi disegni spiega proprio questo, come se fossero altrettante citazioni cartografiche. Una di queste citazioni potrebbe essere assunta come una vera e propria sintesi della storia della cartografia: è quella in cui si vede una vignetta che viene direttamente dalla Tabula Peutingeriana e, accanto ad essa, c’è un complesso di segni minimali, misteriosi ed evocativi.

Da questo punto di vista, uno dei meriti della sua opera, e non dei minori, consiste proprio nell’abituarci a comprendere che con il Novecento siamo finalmente usciti fuori dall’illusione che esiste soltanto il linguaggio verbale. I prossimi lettori saranno lettori di immagini perché sempre più il carico di informazione verrà veicolato non attraverso le parole ma attraverso le immagini, i segni. Anche se per ora si direbbe che sul segno grafico, sulla sua natura e sulla sua straordinaria complessità, si continui a saperne poco.

I paesaggi di Pericoli, insomma, possono essere letti anche come una sorta di breviario, come una guida per il mondo che verrà. Perché, se c’è una cosa di cui abbiamo urgente bisogno, è pensare che le cose potrebbero andare diversamente. La frase, devo dirlo, non è mia ma di Karl Kraus. Alla fine degli Ultimi giorni dell’umanità, riferendosi alla stampa, lo scrittore austriaco sostiene che, quand’anche si pensi che nello scoppio della prima guerra mondiale non abbia avuto nessuna responsabilità, essa di fatto ha convinto uomini e donne a pensare che non ci fossero alternative.

Anche oggi abbiamo uno straordinario bisogno di nuovi modelli. Dico “nuovi” per dire differenti dagli esistenti, ma potrebbe anche trattarsi di modelli antichissimi. Come quello offerto dal testo di Pericoli, appartenenti a una letteratura che si trova più avanti di qualsiasi espressione letteraria. Un testo folle, prezioso e nutriente, dove le città e le carte ridono, dove una torre può avere un viso, come si faceva da bambini, quando disegnavamo le facciate delle case come delle facce, con la bocca a mo’ di porta e le finestre come occhi.

[Franco Farinelli]


Non risponderò per filo e per segno a tutto quanto di buono è stato detto, anche in questa occasione, sulla mia opera. Non sono in grado di farlo. Ma intanto vi ringrazio per l’ospitalità e per queste parole, su cui rifletterò quando sarò più in disparte e, se possibile, meno in imbarazzo.

Posso intanto raccontare come è nato questo libro. Un giorno, in una stanza dell’Adelphi, parlando con Roberto Calasso di un altro progetto allora in vista, prima di alzarmi ho detto che avrei voluto fare un libro gemello dei Ritratti, da intitolare I Paesaggi. E qui Calasso ha obiettato qualcosa che forse ha qualcosa a che fare con la natura indefinita del termine “paesaggio”; mi ha detto che un libro del genere non era fattibile, perché i paesaggi sono orizzontali, mentre i libri sono verticali. Ma io non mi sono dato per vinto: gli ho risposto che avrei messo insieme alcune centinaia di paesaggi e glieli avrei inviati. “Se hai la pazienza di guardarli” – ho concluso – “poi mi dirai cosa ne pensi”. Dopo una settimana mi ha richiamato e mi ha detto che si era convinto e che, in effetti, quell’insieme gli aveva dato l’impressione di un racconto, di un lungo racconto, come se fosse un romanzo a capitoli: “Facciamone senz’altro un libro”. Così ci siamo messi al lavoro e quell’altro progetto, che allora era in vista, poi non si è più fatto, e non so se si farà mai.

Questo libro è fatto di tanti capitoli che si sono accostati uno all’altro in un modo molto naturale, ma anche molto casuale, perché sono nati in un periodo di tempo di circa quarant’anni. Ogni capitolo, però, sa poco del precedente e niente del successivo: l’opera si è trovata fatta senza che io l’avessi mai pensata o programmata. Ciò che conta in questo processo è la sincerità di fondo. Nel libro ho inserito una frase che rende bene l’idea; è una frase a cui sono molto legato, perché credo che in qualche modo mi abbia fatto da guida, forse ancora prima che la leggessi: quando l’ho letta, infatti, è stato come ricevere una conferma. La frase è di Álvaro Mutis, ed è tratta dal Trittico di mare e di terra; lo scrittore colombiano si rivolge direttamente al protagonista dei suoi racconti, Maqroll il Gabbiere, e gli dice così: “Vede, Gabbiere, la trappola della pittura è molto semplice... ma anche molto complicata. Si riduce a questo: bisogna seguire sempre la verità. Così come nella vita, nel quadro conta solo la verità. È lì che il quadro si gioca la carta dell’immortalità. Mentire significa falsificare la vita, in una parola: morire”.1

Ecco, io ho cercato sempre di non mentire. Innanzitutto a me stesso, alle immagini che mi venivano in mente e ai progetti che mi veniva il desiderio di fare. Mi ricordo che alcuni decenni fa, a Milano, ma forse anche altrove, si discuteva molto intorno a una domanda: dove va l’arte? Artisti, critici e mercanti si dividevano e si accapigliavano, e io mi chiedevo: “Ma che domanda è?”. Io ho sempre chiesto a me stesso dove vado io, non mi interessa sapere dove va l’arte.

Quest’ultimo lavoro, come dicevo, si è costruito negli anni, una pagina dietro l’altra, finché a un certo punto mi sono accorto che c’era un filo conduttore che lo teneva insieme. E questo filo è il paesaggio. Il paesaggio, per me, è diventato una specie di lavagna su cui provare a tracciare le mie storie, un supporto su cui fissare tutte le idee che cercavo di sviluppare visivamente attraverso i miei quadri e i miei disegni. È un supporto che mi rassicura e che mi ha dato la possibilità di esprimermi con tutti i mezzi possibili: all’inizio con la materia, poi con la matita e con l’acquerello, fino ai dipinti a olio degli ultimi anni.

Per il modo in cui è nato, poi, questo libro ha scatenato alcuni effetti imprevisti. Riportandomi indietro a tutti i lavori realizzati negli anni, ha risvegliato quella che mi piace chiamare “la signora Memoria”: un personaggio femminile che improvvisamente ha preso forma dentro di me e che ho incominciato a interrogare. Così ho potuto scoprire alcune cose che lei conosceva e che io non conoscevo più. Ed è emerso un ricordo. Molti anni fa, nel 1961, quando sono arrivato a Milano, il mio primo lavoro è stato presso la redazione del “Giorno”, un quotidiano, dove facevo disegni e illustravo i racconti di grandi scrittori. Passano un paio di anni ed ecco che un bel giorno si presenta davanti al mio tavolo Italo Pietra, il direttore di quel giornale. Era un uomo massiccio, faceva una certa impressione. A me, poi, incuteva una grandissima soggezione: credo che, fino a quel momento, non gli avessi mai rivolto la parola. Arriva Italo Pietra e mi dice: “Vorrei una tua opera”. Io, felicissimo: “Direttore, scelga pure uno dei disegni che faccio per il giornale”. E lui: “No, no, no! Non voglio questi disegni. Vorrei che tu mi facessi un quadro del tuo paese”.

Io rimasi sbalordito da questa richiesta. Gli dissi subito di sì e improvvisamente emerse dentro di me qualcosa che avevo cercato di cancellare. Era il ricordo del mio paese. Era tutto ciò che quel paese era stato nella mia infanzia e nella mia adolescenza, e che poi, nel corso del tempo, avevo cercato di azzerare. Per tutto questo, per questa luce improvvisa che si accende a un certo punto della vita, c’è una parola precisa, e questa parola è nostalgia.

Allora, appena potei, tornai a Colli del Tronto, il posto in cui sono nato. Per poterlo guardare un po’ da lontano dovevo scendere nella valle del fiume Tronto e fu così, mettendo quasi i piedi nell’acqua fredda, che vidi per la prima volta il mio paese. Per spiegare quella sensazione vorrei citare alcune parole scritte da Franco Farinelli in un libro di molti anni fa, dove distingueva tra l’insider – colui che ogni giorno ha il paesaggio intorno ma non lo vede, non lo conosce, non lo sa – e l’outsider, quello che viene da fuori, lo straniero, colui che con il suo sguardo ci fa vedere le cose che abbiamo intorno e che altrimenti non vedremmo.

In quel momento mi trovavo nella doppia veste di interno ed esterno: venivo da lontano, potevo vedere il mio paese, però allo stesso tempo l’avevo ancora dentro e addosso. Il ricordo di quel momento è ancora impresso nella mia memoria. Come il gesto che feci: presi in mano la macchina fotografica, inquadrai il paese dentro i quattro lati dell’obbiettivo ed ecco che in quel momento, all’improvviso, mi accorsi che il mio paese diventava un paesaggio. Ne capivo la forma, la distinguevo nel profilo delle colline, ne riconoscevo le singole case, i loro colori, ma allo stesso tempo sentivo che quell’immagine conteneva i suoni, i rumori e i ricordi della mia adolescenza e della mia infanzia. Era come avere davanti un’immagine animata, con in più una suggestione: immaginavo che le case e la chiesa sospese sul crinale della collina fossero state generate dalla collina stessa, come se fossero emerse dal suo interno, come se dentro la collina ci fosse una sorta di forza, un seme nascosto che le aveva fatte sbocciare.

Poco fa, mentre Farinelli citava il capolavoro di Melville, mi è tornato in mente che circa tre anni fa, a Milano, ho allestito una mostra di paesaggi che si intitolava proprio così, “Moby Dick”. Non è un caso: volevo attirare l’attenzione dei visitatori sul fatto che la balena bianca non si aggira soltanto sotto il mare, ma spinge anche da sotto la crosta terrestre, dando forma alle visioni e facendo emergere le cose. Quando quella mattina guardavo il mio paesino non potevo sapere che un giorno avrei fatto dei quadri intitolati Geologie, che poi sarei andato in alto sulle nuvole per guardare il paesaggio da lontano, e che molti anni dopo avrei fatto una mostra su Moby Dick, ma credo sia stato proprio quello il momento in cui è nata in me la consapevolezza che del paesaggio non ci attira solo la superficie di ciò che vediamo ma anche qualcosa che in esso rimane segretamente nascosto.

[Tullio Pericoli]


Nota

(1) Á. Mutis, Trittico di mare e di terra, traduzione italiana di F. Bardelli, Torino, Einaudi, 1997, pp. 62-63.


[trascrizione: Gabriella Sino; redazione: Vittorio Ferorelli]



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