Rivista "IBC" XXII, 2014, 1

musei e beni culturali / inchieste e interviste, pubblicazioni, storie e personaggi

E. Renda, Cravatta a farfalla. La piacevole vita di Eugenio Riccòmini fra bombe, quadri, libri e chiacchiere, Bologna, Pendragon, 2014.
Un papillon di seta rossa

Vittorio Ferorelli
[IBC]

Nel 1952, sul “New Yorker”, usciva l’ultima puntata di una biografia molto attesa. Raccontava la vita del celebre mercante d’arte Joseph Duveen. L’autore, il commediografo Samuel Nathaniel Behrman, concludeva il suo racconto rivolgendo un pensiero ai ricchi clienti di Duveen, i vari Morgan, Kress, Mellon, Frick e Widener, multimiliardari sempre a caccia di “nuovi” capolavori degli antichi maestri. Cosa c’era dietro quella brama di opere d’arte? La ricerca dell’eterno e del bello, rispondeva Behrman. Pur così ricchi, invecchiando sentivano che quanto avevano accumulato stava sfuggendo loro di mano e che, al di là dei sorrisi di convenienza, il mondo li detestava. Con l’arte cercavano di comperare il “per sempre”, o almeno una compagnia felice prima dell’inevitabile.

Leggendo il racconto che Eleonora Renda fa della vita di Eugenio Riccòmini – storico dell’arte bolognese, celebre per la sua abilità nella divulgazione – si riceve una conferma di quanto possa essere forte questa passione per la bellezza, ma si comprende pure quanto sia inutile, in fondo, sforzarsi di comperarla, perché volendo, e sapendo, è possibile gustarla ogni giorno a pochissimo prezzo.

Laureata in Lettere moderne, Renda conosce Riccòmini nel 2007, quando lui, passati da poco i settanta, fa da guida in un viaggio a cui partecipa anche lei, appena diciottenne. Dopo molti altri viaggi in giro per il mondo, alla scoperta di arti e paesaggi, nasce l’idea di fare una serie di interviste, da cui poi ricavare qualcosa di più di una biografia: la storia di una vita. Una vita “piacevole”, come dice il sottotitolo del libro, passata in mezzo a “bombe, quadri, libri e chiacchiere”, dove le bombe sono soprattutto quelle della seconda guerra mondiale, “piacevoli” anch’esse se a sopravviverne, e persino a maneggiarle, è un coraggioso bambino di sette anni, rimasto orfano di madre e affidato dal padre a due vecchie zie.

Il racconto passa di volta in volta dalla terza persona, adottata dalla narratrice, alla prima persona del protagonista, che fa sentire la sua voce in ampi spazi di corsivo. Dall’infanzia bolognese segnata dalla fame e dai bombardamenti si arriva ai primi amori sotto il cielo di Parma, e di qui all’adolescenza, quando avviene il primo incontro con l’arte, complice una natura morta di Cézanne. Sembrano le solite mele, con la solita brocca, e l’aggiunta di un semplice asciugamano bianco. Il ragazzo pensa che in fondo, se avesse gli attrezzi giusti, un quadro del genere potrebbe farlo anche lui. “Questa cosa mi scappò detta a tavola e siccome stavo per compiere quindici anni e avevo avuto un’ottima pagella a scuola, mio padre – che anche se si chiamava di nome Generoso, di carattere era il contrario – mi chiese se volevo qualche regalo e io gli dissi che sì, certo, volevo una bicicletta da corsa, perché idolatravo Coppi, Bartali... Infatti, dopo due o tre giorni, mi arrivò una scatola grande, bella, di colori a olio con tutta l’attrezzatura, e io ci rimasi malissimo”.

La copia di Cézanne, naturalmente, si rivela un disastro, ma funziona come una molla, e, poco tempo dopo, Eugenio bussa alla porta di Nando Negri, un maestro del disegno, insegnante all’Accademia di belle arti. Il ragazzo non diventerà un pittore, ma con l’apprendimento del disegno e i primi viaggi di esplorazione per chiese e musei si radica in lui, in modo irreparabile, la passione per chi sa fare un’opera d’arte, per gli strumenti che usa e per le tecniche che adotta al suo scopo.

Il corso successivo della vita – dalla laurea in storia dell’arte agli anni di precariato, fino alla lunga esperienza nell’amministrazione statale, prima a Venezia, poi a Bologna e a Ferrara, infine a Parma come soprintendente – scorre rapido, di aneddoto in aneddoto, di avventura in avventura, tra ritratti di amici mai perduti, volti di donne amate e descrizioni di nuovi luoghi dell’incanto. A un certo punto, terminata la docenza universitaria, Riccòmini realizza su scala più larga la sua vocazione di redistributore sociale del bello, deciso a condividere con tanti ciò che pochi davvero sono in grado di apprezzare (e in questo consiste la sua forma peculiare di comunismo). Negli anni Ottanta il Comune di Bologna gli affida diversi cicli di letture pubbliche, intitolate “L’arte di leggere l’arte”, un progetto educativo rivolto all’intera cittadinanza. E l’apprezzamento è così grande che ogni volta, per accogliere tutti gli interessati, occorre un locale più grande.

Come ha scritto Michele Smargiassi, Eugenio Riccòmini ritiene che parlare di arte, proprio come fare arte, sia un esercizio difficile e forse inutile, ed è per questo che è così necessario. Un ossimoro evidente persino nella sua immancabile cravatta a papillon, un oggetto che simboleggia bene questa passione: qualcosa che si lega con un nodo alla gola ma ha la forma leggera di una farfalla, pronta a volare via al primo tentativo di afferrarla.


E. Renda, Cravatta a farfalla. La piacevole vita di Eugenio Riccòmini fra bombe, quadri, libri e chiacchiere, Bologna, Pendragon, 2014, 187, pagine, 15,00 euro.

 

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