Rivista "IBC" XXII, 2014, 1

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni

Matisse la figura. La forza della linea, l’emozione del colore, a cura di I. Monod-Fontaine, Ferrara, Fondazione Ferrara Arte, 2014.
Nell’atelier di Matisse

Enzo Vignoli
[collaboratore della rivista "OLFA. Osservatorio letterario Ferrara e l'Altrove"]

Matisse non era un talento naturale. Isabelle Monod-Fontaine, curatrice della mostra che vede il pittore protagonista assoluto al Palazzo dei Diamanti di Ferrara fino al 15 giugno, ce lo ricorda nel saggio iniziale del catalogo. Non aveva le doti istintive che caratterizzavano Picasso, la sua immediatezza, la sua facoltà di spalancare un mondo davanti ai nostri occhi con pochi segni. Si potrebbe dire che Matisse non nacque tale, ma lo divenne grazie a un lavoro continuo, duro e oscuro, svolto all’interno di numerose scuole e atelier, un lavoro che lo portò a essere uno dei massimi inventori del colore del Novecento. Su questo costante e umile praticantato – che non cessò neppure negli anni della sua maturità – la mostra sa offrire uno sguardo intenso, attraverso un partecipe “viaggio nell’atelier di Matisse”, secondo la felice definizione data da Maria Luisa Pacelli, direttrice delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea di Ferrara.

Se il colore è il veicolo espressivo fondamentale in Matisse, la figura umana fu la sua ossessione, il terreno su cui si esercitò tutta la vita, il fine ultimo a cui tendeva la sua ricerca artistica. A seconda, poi, dell’urgenza prevalente nei periodi di creatività, Matisse si servì del mezzo tradizionale del dipinto per uno sguardo più concentrato sul soggetto; del disegno, con cui cogliere i tratti più immediati del modello; della scultura, per trovare, attraverso la tridimensionalità, un rapporto materico.

Altro elemento determinante della sua poetica fu la presenza continua di un modello all’interno dei suoi atelier. La storia dei modelli di Matisse è declinata quasi esclusivamente al femminile. Il saggio già citato della curatrice è articolato cronologicamente per argomenti; la sezione intitolata “L’invenzione del modello: 1917-1935” è suddivisa in capitoli, ognuno dei quali porta il nome di una donna. Vi sono riportati ricordi e impressioni di molte modelle. A proposito di una di queste rimembranze, la curatrice si chiede come si possa distinguere, in questo resoconto, “ciò che assomiglia a un’elezione amorosa da quello che appartiene a una valutazione, più fredda e professionale, delle potenzialità pittoriche di un corpo e di un volto”.

In effetti, all’interno dell’atelier, sembrava regnare una perfetta simbiosi tra il pittore e le sue modelle; quasi un sentire comune, per cui le donne erano in grado di capire perfettamente ciò che Matisse voleva da loro. Un’osmosi portata agli estremi, così da unire artista e modella anche nel crollo fisico e mentale, nell’impossibilità di entrambi di proseguire il lavoro insieme. A leggere, poi, l’ultima parte del saggio, è forte la tentazione di figurarsi quegli atelier come una sorta di harem/studio. Troviamo, infatti, i nomi di svariate modelle che si avvicendano a seconda di come certe loro peculiarità sapevano stimolare l’ispirazione dell’artista.

Eppure, la sensualità di Matisse viene pressoché sublimata da un lavoro incessante sui visi e sui corpi. Il pittore, grazie al contatto quotidiano e ravvicinato con il modello, giunge a conoscerlo a memoria e a non avere più bisogno di lui. Lo raffigura nella sua essenza, scarnificato, quasi un fantasma dell’originale, ma sempre con un carattere che lo sa identificare. Se il segno di Picasso denota la capacità immediata di descrivere un mondo, quello di Matisse è il frutto ultimo di un lavoro di prosciugamento di tutto quanto non appare essenziale.

Probabilmente c’è in questo processo anche una sfida rivolta a chi osserva le sue opere. Come se Matisse volesse celarle ai nostri occhi, come se ci spingesse a svelare il mistero della sua pittura. Sia ne Le tre modelle, litografia del 1928, che in Interno blu con due ragazze, olio su tela del 1947, uno dei soggetti del titolo è quasi sottratto alla nostra vista, confuso, nella forma o nel colore, con lo sfondo di cui sembra una parte costitutiva. Ancora: il volto vuoto del Nudo rosa seduto, olio su tela del 1935, è la dimostrazione dell’intima familiarità e conoscenza di Matisse del soggetto dipinto e, di nuovo, una possibile provocazione per chi osserva a raggiungerlo in quella sua capacità di astrazione, quasi un orientarsi al buio.

Solo due anni prima, De Chirico aveva visto il vuoto di volti senza volto dei Nobili e borghesi, uno sfregio morale inflitto a classi sociali disprezzate. Due mondi senza alcun possibile contatto, se è vero che il pictor optimus ancora nel 1950 definì le opere di Matisse “orrende puzzonate da modernista francese”. Se il raffronto con Picasso è quasi d’obbligo, Matisse fu però influenzato da Gauguin, Van Gogh e, soprattutto, da Cézanne. Quest’ultimo non rappresentò solo un sostegno morale ma “un esempio e un modello in ogni senso della parola”. Tale devozione si denota nelle posture di alcuni suoi nudi o nell’intensità della luce e degli spazi pittorici e fu alimentata da un’opera di Cézanne che Matisse aveva acquistato a prezzo di notevoli sacrifici nel 1899: Tre bagnanti, un piccolo olio su tavola del 1875-1877.


Matisse la figura. La forza della linea, l’emozione del colore, a cura di I. Monod-Fontaine, Ferrara, Fondazione Ferrara Arte, 2014, 295 pagine, 45,00 euro.



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