Rivista "IBC" XXII, 2014, 2

Dossier: Storia dal "quotidiano"

musei e beni culturali, dossier /

Arte a bordo

Giancarlo Susini
[storico e archeologo, già consigliere dell’IBC]

A Rotterdam, da molti anni si va costruendo il più grande porto del mondo, con moli, banchine e docks che si prolungano a tenaglia in mare aperto: visitare il porto nella sua crescita è una curiosità, anche perché si contano a migliaia, sulle rive, i container pronti all'imbarco o appena sbarcati (per essere trasferiti su altre navi, o su lunghi articolati su gomme o, infine, su carri pianali delle ferrovie). Ecco, navi, camion e treni trasportano di tutto, in collettame come si suol dire: gli esempi grandiosi del mondo di oggi trovano un archetipo, un minuscolo antefatto nel barcone di Comacchio, che naufragò tra i canali e i canaletti del Delta padano all'incirca quindici anni prima dell'anno zero, nei primi decenni del tempo di Augusto. Non sappiamo dove si dirigesse quel barcone, che da oggi entra in mostra, esposto a Comacchio assieme ai molti oggetti che trasportava: se verso il cuore della Padania, magari sino a Piacenza o addirittura sino a Torino (Strabone, il geografo greco, annota che tra Ravenna e Piacenza occorrevano - a scendere - due giorni e due notti di navigazione) oppure bordeggiando le rive dell'alto Adriatico, ma per lo più al riparo di dossi e cordoni litoranei e quindi di laguna in laguna, in direzione di Aquileia e dell'Istria. Di sicuro quel natante serviva a risalire i grandi fiumi (cambiando di pilota s'intende) ma anche a costeggiare le rive sul mare, sottocosta. Nel mondo antico la navigazione sui fiumi era assai più diffusa di quanto sia accaduto nelle età successive e sino all'Ottocento, quando in Europa si scavarono alcuni importanti canali tra fiume e fiume per facilitare le comunicazioni attraverso il continente: di fatto gli invasi fluviali erano in antico più profondi, non ancora colmati da imponenti strati alluvionali. Che molte tra le città europee vivessero di traffici su porti e attracchi fluviali distanti anche centinaia di miglia dalle foci era un fenomeno molto comune. Anche allora diversi bracci di fiume, alle foci, erano collegati da canali, le fossae.

Ciò spiega anche un'altra considerazione: se non sappiamo esattamente dove il barcone di Comacchio fosse diretto, non sappiamo neppure da dove veniva. Molta parte delle mercanzie che trasportava proveniva dalla Spagna (in particolare il carico pesantissimo dei lingotti di piombo, che forse lo sbilanciò in un momento di tempesta e lo fece naufragare), ma non siamo in grado di asserire se per esempio il natante veniva addirittura dalla foce dell'Ebro (o da uno scalo interno alla penisola iberica), se aveva poi costeggiato, per settimane e mesi, il Golfo del Leone, le rive del Tirreno, lo stretto di Messina, poi le rive dello Ionio e dell'Adriatico, oppure se - come i container in trasbordo nell'immenso porto di Rotterdam - le sue mercanzie erano state travasate da scafo a scafo una o più volte durante il tragitto, o se addirittura le merci più leggere avevano compiuto parte del viaggio per via di terra.

Perché, come si vede, quel barcone di Comacchio è prezioso per la conoscenza della tecnologia marinara mediterranea dell'antichità: infatti non è naufragato in mare aperto, e quindi non è stato svuotato dalle correnti profonde, non è una nave di apparato come quelle ben famose del lago di Nemi, non è una nave da guerra, è un grosso barcone da carico, nulla di più e nulla di meno, ma è destinato è divenire un capitolo insostituibile della grammatica della marineria antica, dove altri capitoli sono ancora da scrivere.

Andava secondo le correnti e i venti aiutandosi con le vele issate sull'albero, andava anche a colpi di remo, e lungo i fiumi fors'anche con il sistema dell'alaggio, trainato cioè da animali da trasporto lungo le rive. Se e quando navigava in mare aperto, come accadeva del resto alla maggior parte del naviglio antico, possibilmente non perdeva di vista la costa. I portolani antichi - che conosciamo con il nome di peripli, di mano greca o fenicia o romana - e gli itinerari marittimi dimostrano che il riferimento alle rive è costante. Si annotavano i promontori meglio visibili a distanza, le foci dei fiumi e gli approdi, dove era possibile il rifornimento dei viveri, a cominciare dall'acqua potabile. Ai tecnici che vi hanno posto mano (la Soprintendenza archeologica dell'Emilia-Romagna, anzitutto, poi gli istituti e i centri del restauro, infine gli esperti dei beni culturali e delle università) il barcone di Comacchio si rivela un capolavoro complesso di carpenteria, un gioiello di manovrabilità per i piloti e le ciurme dei suoi tempi. Ma non bisogna dimenticare che il tempo di Augusto segna nel Mediterraneo il traguardo maturo di plurisecolari esperienze cantieristiche, eredi delle marinerie delle grandi civiltà (la fenicia, la greca, la cartaginese) e di evoluti sistemi politici e mercantili (i reami ellenistici di Siria e di Egitto, il regno di Pergamo, le repubbliche marinare come Rodi e Samo). Indubbiamente l'analisi minuta del fasciame del barcone di Comacchio consente scoperte sulla rifinitura del legno quali sinora si erano compiute, in parallelo, solamente sulla lavorazione della pietra nell'antichità: si conoscerà dei carpentieri quanto già si conosce dei lapicidi e dei marmorari. Il recupero intatto del carico e di ogni arredo di bordo (poiché la nave fu abbandonata evidentemente poco prima che si arenasse tra i canneti, quando il suo naufragio apparve inevitabile), comprese le vesti e i calzari, compresi gli oggetti di cambusa, restituisce un'immagine impareggiabile del "quotidiano" marinaro di venti secoli or sono.

La Soprintendenza archeologica, e per essa il direttore del Museo nazionale di Ferrara, Fede Berti, il Comune di Comacchio, la Regione Emilia-Romagna e il suo Istituto per i beni culturali hanno posto mano a un'impresa eccezionale: hanno chiamato la mostra col nome di "Fortuna Maris" e molta gente finirà per pensare che quello era il nome del barcone naufragato e oggi ripescato, dopo duemila anni. Invece quel nome è un presagio di nuove ricerche. E poi: dove era diretto tanto piombo, in lingotti; verso quale officina e quale mercato? E i sei minuscoli tempietti votivi in piombo, con le immagini di Venere e di Mercurio, trovati nel carico, erano destinati alle sagre di santuari lontani, alle bancarelle per i devoti e i pellegrini, come sinora si è congetturato, o invece - come suggerisce Valeria Cicala - facevano tutt'uno con il carico dei lingotti, e servivano di modello alle officine che lavorano il piombo e gli altri metalli? Come si vede, la banca dati del barcone dà già da pensare.


[articolo di Giancarlo Susini; "il Resto del Carlino", 28 aprile 1990]



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