Rivista "IBC" XXII, 2014, 2

Dossier: Storia dal "quotidiano"

musei e beni culturali, dossier /

Un fiume di pietre

Giancarlo Susini
[storico e archeologo, già consigliere dell’IBC]

Al tempo dei romani uscire per le vie principali fuori porta significava buttare l'occhio sulle famiglie di città, o passare in rassegna le professioni, arti e mestieri: a Bologna, per un lunghissimo tratto lungo la via Emilia Ponente, si allineavano infatti i sepolcreti, ciascuno con le iscrizioni dei parenti e l'immagine della bottega; pressappoco come girare per le vie del Mercato di Mezzo, a leggere le targhe di negozio. Era la necropoli più grande di Bologna: ve n'erano altre lungo la via Emilia Levante e lungo la via Ravennate (la San Vitale), ma quella che dalla porta occidentale di Bologna (su via Ugo Bassi, all'incirca all'altezza di via Testoni) portava al ponte romano sul Reno a Borgo Panigale era la più ampia e vistosa; di là si usciva verso Modena, e soprattutto l'ostentazione delle "memorie viventi" di Bologna rappresentava, per chi veniva da Milano e dall'Europa, l'antiporta o il preannuncio dell'opulenza dell'Urbe.

Così, tante stele iscritte e scolpite, alte poco meno di due metri, in pietre diverse (calcare, arenaria, più raro il marmo che veniva da fuori e costava di più), e anche aree vaste, veri campisanti per corporazioni o associazioni; davanti a ogni lotto, a fronte lungo la strada, un cippo ricordava le misure dell'area e il confine tra famiglia e famiglia. A leggere (come si può fare oggi nel grande Lapidario del Museo civico archeologico, che è tutto pieno di quelle pietre), si sapeva tutto di quelle famiglie: per esempio di Lucio Valerio Barone, con la moglie Megiste, la sorella Tyche. Loro erano liberti, di origine o cultura greca, di un certo Valerio Piperclo, forse un colono romano oppure il discendente di un'antica gente etrusca che popolava Felsina; a fare il monumento aveva provveduto una figlia, Pelagia, l'unica nata libera dopo che i genitori erano stati affrancati dalla schiavitù. Così si costruisce in modo ineguagliabile l'anagrafe della città antica, con i mestieri: c'erano calzolai (lo sappiamo, anche dal poeta Marziale, che le calzature bolognesi erano di moda), mercanti di ferramenta, sartorie, medici, commercialisti (cioè, alla latina, i tabularii), scalpellini e muratori.

Accanto alle solite decorazioni (fioroni, gorgoni, palmette, leoncini sugli acroteri) i monumenti presentano dal vivo immagini del lavoro quotidiano (ma in un caso si discute: è l'officina di un orefice o la bottega di un salumiere? quegli oggetti appesi sono bilance e prosciutti?); e poi alcuni simboli vistosi: come sulla lapide di Statorio Bathyllo, dove sono scolpiti un compasso e una squadra con filo a piombo. Era la tomba di un ingegnere, o invece si trattava delle insegne di qualche setta (massonica?), oppure - come spesso accadeva con la raffigurazione dell'ascia - della consacrazione del sepolcro a opera finita, quando ritualmente anche gli strumenti che avevano servito ai muratori dovevano venire abbandonati? In altri casi a spiegazione è più carnale, anche se enigmatica: come nelle due stele di un tale che veniva da lontano (externis natus terris), aveva lavorato sodo e si era fatta una posizione, tanto che sul monumento (lo scritto è in versi: si era rivolto a un poeta) compare da un lato un branco di maiali e dall'altro un mortaio. Ciò che mi permise, quaranta anni fa ormai, di supporre che si trattasse di un salumaio che confezionava mortadelle: il pubblico dei dotti fu allora perplesso, poi si adattò.

Con queste più che duecento pietre siamo di fronte a un complesso incomparabile davvero unico per il mondo antico; di conoscenze del terziario mercantile e del palinsesto culturale di una città romana, come Bologna, in un periodo circoscritto a cinque o sei generazioni: i monumenti si datano tutti fra la metà del I secolo dopo Cristo, cioè l'età di Claudio, e i primi decenni del secolo seguente, cioè il tempo di Traiano. È stato un cataclisma, una serie di vicende devastanti, a portrci in luce a Borgo Panigale, poco più di cento metri a valle del Pontelungo, nel letto del Reno e non molto distante dal ponte romano (i cui resti erano stati scoperti nel 1854), un muraglione, cioè una sorta di diga antica nella quale erano stati impiegati in grande fretta i pietroni più vicini e disponibili, proprio adatti a costruzioni del genere, quelli cioè della non lontana necropoli di via Emilia Ponente. Proprio cento anni fa cominciò un ciclo di alluvioni, di piene sul Reno. Raccogliendo una notizia del 1° novembre 1893 scrive il "Resto del Carlino" del giorno dopo: "La giornata piovosa di ieri ha messo un po' in pensiero l'impresa che lavora alla costruzione del ponte [...]. L'acqua preannunciata arrivò verso le dieci, raggiungendo l'altezza di quasi un metro". I bollettini delle piene da Borgo Panigale non abbandoneranno più, per qualche anno, le pagine del "Carlino", mentre la città viveva il suo quotidiano: tre giorni più tardi, per esempio, il 4 novembre del '93, si inaugurava l'anno accademico all'Università, e il professor Manfredini, giurista, teneva la prolusione su "la giustizia in Italia, quale è ridotta per la mancanza di autonomia del potere giudiziario".

Qualche pietrone, tra i primi, venne fuori già allora, cento anni fa. Poi le scoperte più vistose accaddero negli anni seguenti: un cumulo di iscrizioni nell'ottobre 1894, altre pietre nelle estati dal '95 al '97, poi ancora nel 1902, le ultime nel 1912. Gli storici, gli archeologi si mobilitarono: nomi famosi come Edoardo Brizio, che ne diede la prima notizia ai Lincei, Gherardo Ghirardini, che mise al lavoro un allievo valoroso, don Gaetano Dall'Olio (parroco, in anni più recenti, a San Paolo Maggiore), e Pericle Ducati, che raccolse tutti i dati nel 1910 in una nutrita memoria dell'Accademia dei Lincei. Parve chiaro a tutti che la "diga" (forse costruita, secondo il Ghirardini, per smorzare la spinta delle acque verso la testata ovest del ponte romano) era stata messa in piedi sul finire dell'evo antico, forse in quella fase climatica che - sostengono oggi gli studiosi di climatologia storica - registrò molti episodi di grandi alluvionamenti e colmate: per esempio a Sarsina, quando si interrò la splendida necropoli romana che un'altra piena, negli anni Venti di questo secolo, riporterà in vista. I monumenti dell'immensa necropoli di Bologna erano stati allora "reimpiegati" (così si dice in termini tecnici), come d'altro canto accadeva di frequente nella tarda antichità, quando si costruivano in fretta nuove mura di difesa (a Verona, per esempio, a Treviri) o si rabberciavano case e fortilizi: lo si scorge ancora oggi a Narona, là dove l'Erzegovina sconfina in Dalmazia, a valle di Mostar alla foce della Neretva.

Allora, dal 1893, per gli ingegneri, gli idraulici, gli esperti della difesa ambientale cominciò un periodo di molti anni, nei quali si cercò di inalveare le acque, si costruirono prese e canali, si rafforzarono ponti. La gente conosce appunto di quei tempi soprattutto gli sviluppi e le applicazioni della tecnica idraulica: ci si appresta opportunamente a fare il resoconto del secolo trascorso, da allora, nel governo delle acque. Anche gli storici e gli archeologi hanno in cantiere un loro programma: cosa ha insegnato alla conoscenza della civiltà antica il colossale recupero della "diga" sul Reno? Certamente, il profilo sociale di una città, ma anche il sintomo dei modi profondamente mutati, sul finire dell'evo antico, di sentire e apprezzare la morte come episodio nella collettività.

È vero, c'era bisogno di pietre, le cave vicine forse non funzionavano più, le strade erano divenute poco sicure, ma non ci si pensa più di tanto a portar via le pietre dei morti (o almeno una porzione della necropoli): si è sbriciolata la fierezza della memoria, che attraverso il monumento consentiva la sopravvivenza di famiglie, di istituzioni, di mestieri. C'è gente nuova in giro, magari illetterata, le città spesso si rattrappiscono entro mura ristrette, come accadde a Bologna pur con immensi suburbi (delle "favelas"). Chi contava in città non conta più come prima, o pensa in maniera diversa: la storia volta pagina. Questo, anche questo, significa la strabiliante scoperta dei cumuli di pietre sul Reno, a partire da cento anni fa.


[articolo di Giancarlo Susini; "il Resto del Carlino", 31 ottobre 1993]



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