Rivista "IBC" XXIII, 2015, 1

Dossier: Veli di seta, venti di guerra - Il restauro dello stendardo della Beata Vergine di Fontanellato

musei e beni culturali, dossier / restauri

Il Mediterraneo e la guerra di corsa

Davide Gnola
[direttore del Museo della Marineria di Cesenatico (Forlì-Cesena)]

Lo stendardo conservato nella Rocca di Fontanellato, aldilà della sua effettiva appartenenza alla galea dei Cavalieri di Malta capitanata da Stefano Sanvitale, ha il potere di condurci per richiami e suggestioni nel cuore della storia del Mediterraneo in epoca moderna: un universo estremamente ricco e articolato in cui le "macrostorie" - i movimenti e le tendenze di lungo periodo - si intrecciano con le "microstorie" personali e cittadine; e che ha come teatro il mare, un luogo ancora molto poco esplorato nella sua dimensione culturale. 1 Può essere quindi interessante, a contorno dell'importante intervento di recupero e riallestimento di questo manufatto, gettare uno sguardo sul contesto storico evocato dalla sua presenza e dalla sua committenza, che rimanda appunto al ruolo svolto dai Cavalieri di Malta nel secolo centrale di quella contrapposizione che caratterizzò il Mediterraneo tra la fine del XVI e l'inizio del XIX secolo.


La battaglia di Lepanto, il 7 ottobre 1571, insieme alla definitiva conquista musulmana di Tunisi nel 1574, consolida un nuovo ordine nel quale le coste del Mediterraneo sono suddivise tra gli "stati cristiani" a nord-ovest e l'Impero Ottomano a sud-est, con l'isola di Malta in mano agli omonimi Cavalieri. La vittoria cristiana a Lepanto, nonostante il suo enorme valore simbolico, non provoca tuttavia la cessazione delle ostilità, ma le trasforma in qualcosa di diverso. È una "guerra inferiore", secondo la definizione di Fernand Braudel, 2 che si svolge in modo esteso ed endemico con attacchi e incursioni ai danni dei commerci marittimi e di siti e popolazioni costiere, attacchi che avvengono da parte di navi provenienti da porti sotto il dominio Ottomano, che da quel governo ottengono una legittimazione in grado di trasformare le loro azioni da rapine in mare a opera di "pirati" in atti di guerra condotti da "corsari", nonostante la confusione tra questi due termini. 3

In questa guerra hanno un ruolo primario le cosiddette "Reggenze Barbaresche", cioè Tripoli, Tunisi e soprattutto Algeri (il Nord Africa era un tempo chiamato Barberia), reggenze di fatto autonome anche se sottoposte all'autorità del Sultano; ma nel conflitto sono molto attivi anche i corsari di base nei porti e nei rifugi naturali della costa adriatica sudorientale, come Valona o Dulcigno. Anche prima del periodo considerato, comunque, il Mediterraneo aveva visto le azioni di corsari famosi come Khayr al-Din Barbarossa e suo fratello Aruj, Dragut, Kemal Raìs detto Kamalì, Gaddalì, Kurdoglu, ampiamente presenti nelle cronache e nel folclore: corsari che a volte concludono la loro carriera come ammiragli del Sultano.

La guerra di corsa, a ogni modo, non è prerogativa esclusiva dello schieramento ottomano: in un periodo in cui, dopo Lepanto, nessuno sente più l'esigenza di un confronto diretto e risolutivo, questa diventa la modalità "normale" della contrapposizione, affiancata peraltro da molteplici e complicati accordi che i singoli stati stringono con il Sultano per garantire i propri commerci, e che fanno meritare per esempio ai veneziani, da parte di Braudel, la qualifica di "mezzi Turchi" proprio per la loro politica di alleanze.

È un'ambiguità che, in definitiva, investe il "motore" stesso dello scambio economico: sono sempre i diplomatici veneziani, molto ben informati e molto spregiudicati nelle loro analisi, a notare come "il dispaccio delle prede è il vero fomite del corso, altrimenti le robbe predate marcirebbero in Barbaria, et il Corsaro, in bottini inutili, si raffredderebbe. [...] Però in Algeri et in Tunesi risiedono mercanti Livornesi, Còrsi, Genovesi, Francesi, Fiaminghi, Inglesi, Giudei, Venetiani e d'altri stati [...]. Questi comperano tutte le robbe predate". Sono le parole di una corrispondenza scritta nel 1625 dal veneziano Gabriele Salvago, che conclude poi squadernando un campionario della varietà di merci mediterranee: "succheri, droghe, spetiere, stagni, piombi, ferri, vettovaglie, munitioni, legnami, telami, lane, cotoni, sete, pannine, et altre merci preziose: oro, argento, gioie [...] et in somma quanto naviga è, una volta o l'altra, trasportato in Barbaria".


È questo il contesto nel quale agiscono anche le galee dei Cavalieri di Malta, per svolgere un'attività di pattugliamento e repressione in mare che si confonde con una guerra di corsa speculare a quella della controparte. A loro si aggiungono i Cavalieri di Santo Stefano, che hanno la loro base a Livorno, e le navi armate da altri importanti attori del gioco mediterraneo, come Genova e naturalmente Venezia, lo Stato Pontificio (che avrà propri guardacoste) e addirittura, nell'ultimissimo periodo, anche gli Stati Uniti d'America, che proprio contro i corsari barbareschi impiegarono per la prima volta i loro Marines.

Stefano Sanvitale ebbe il comando di una galea dei Cavalieri di Malta, conseguendo tra l'altro una vittoria su alcune navi turche, e la galea è appunto la nave che - in varianti cronologiche e locali ma in una costanza tipologica di fondo - frequenta il Mediterraneo dall'età antica, per tutto il Medioevo e l'età moderna, sino alle soglie dell'età contemporanea. Una nave che ha le massime dimensioni compatibili con il suo mare e i suoi marinai (ogni tipologia navale tradizionale è come una creatura vivente originata e condizionata dal suo habitat e dalle sue funzioni): lunga circa 40-50 metri; uno scafo semplice e sottile; un apparato propulsore che condiziona tutto l'aspetto esterno con la sovrastruttura che deve ospitare remi, rematori, banchi, corsie, aguzzini, e quant'altro; e una vela latina enorme, con un pennone ancora più grande, una vela utilizzata però solo per i trasferimenti, lasciando la parola ai remi nelle fasi in cui doveva essere garantita la massima manovrabilità e velocità.

La galea non è tuttavia l'unico tipo navale presente in questo periodo in Mediterraneo, e soprattutto non è quello più utilizzato dai corsari, che preferiscono versioni più piccole e agili, semplificate sia nel remeggio che nell'armamento velico, come le galeotte e le fuste: quest'ultimo termine è spesso usato dai contemporanei per definire le navi corsare. Sono anzi spesso proprio i corsari a sperimentare e fare evolvere i tipi navali nella direzione della semplificazione e del frazionamento velico, sino all'abbandono della propulsione a remi, potendo ormai contare su veri e propri piccoli velieri, come gli sciabecchi, in grado di sfruttare al meglio i venti variabili del Mediterraneo. 4

Come si è accennato all'inizio, l'effettiva appartenenza dello stendardo di Fontanellato a una galea è allo stato attuale un'ipotesi suggestiva, ma da verificare. Non mancano specialisti in materia di storia navale che si sono occupati in particolare delle galee e degli apparati di bordo, che assumevano un ruolo centrale in un periodo in cui la nave era non solo un veicolo di commercio o uno strumento di guerra, ma anche e soprattutto la visibile rappresentazione del potere dello stato che la armava e del rango del suo comandante. Basti pensare al Bucintoro della Repubblica di Venezia, ma anche alla magnifica peota di rappresentanza dei Savoia, ora esposta alla Reggia di Venaria Reale, o alla galea e all'ampia varietà di caicchi e barche di rappresentanza del Sultano, visibili al Museo navale Deniz di Istanbul.


Aldilà del dato storico, è interessante notare i riflessi profondi che questa plurisecolare vicenda ha provocato nella cultura dei contemporanei e soprattutto delle popolazioni costiere. Riflessi che sono ora in gran parte dimenticati nella percezione comune, nonostante siano ancora presenti ampie testimonianze materiali e immateriali di questa storia del mare nostrum (anche se il termine "corsaro", confuso con quello di "pirata", evoca ai più reminescenze romanzesche o cinematografiche di ascendenza caraibica o salgariana).

Gli archivi di tutte le città costiere, comprese quelle dell'Emilia-Romagna, sono infatti ricchi di serie dedicate a "Fuste barbaresche e contagio", ed è significativo che venissero riuniti insieme i due maggiori pericoli provenienti dal mare. Queste serie contengono notizie delle incursioni e delle azioni per prevenirle; gli archivi diocesani conservano inoltre la documentazione sulle attività svolte per il riscatto degli schiavi, come lettere di supplica, libretti dove sono annotate le elemosine, bandi e manifesti con i nomi delle persone catturate.

Un'ulteriore e suggestiva traccia è quella degli ex voto presenti nei santuari costieri del Mediterraneo, testimonianze che insieme a tempeste, naufragi e altre disavventure mostrano spesso inseguimenti e abbordaggi di navi corsare, o persone "liberate da galera": una variante, questa, che si ritrova anche negli omaggi votivi delle catene (vere o rifatte) appartenute agli schiavi, corredate dall'indicazione del nome del riscattato, dell'anno, del luogo e della cifra pagata, come si può notare anche nella chiesa di San Girolamo alla Certosa di Bologna. 5 Testimonianze del genere dovevano essere un tempo numerose e pervasive, adatte a suscitare nei contemporanei ulteriori elemosine e a rafforzare la percezione dell'azione della Chiesa e delle sue organizzazioni nel non abbandonare i corpi e soprattutto le anime delle persone in schiavitù.

Le torri che sorgono pressoché ovunque, caratterizzando il panorama costiero mediterraneo, segnano l'evidenza materiale di quella frontiera che delimita il mare come spazio "ingovernabile" e pericoloso, dal quale occorre difendersi. Torri di guardia e fortezze sono presenti sulle coste sin dall'epoca medievale e anche da prima, ma nel periodo che stiamo considerando, in particolare sul litorale che appartiene allo Stato della Chiesa, divengono l'infrastruttura materiale di articolate e codificate procedure di avvistamento e di allerta.

Le tracce però più interessanti e suggestive di queste vicende appartengono alla dimensione "intangibile" di una produzione amplissima, che spazia dalle arti "ufficiali" sino a quelle popolari e al folclore. L'italiana in Algeri di Rossini è l'esempio più noto, ma non certo l'unico, di rappresentazione lirica o teatrale ispirata alle vicende corsare e alla schiavitù, una rappresentazione che, in questo caso, tra l'altro, è giocata su un tema, l' harem, capace di solleticare una forte curiosità, com' è testimoniato anche da un'ampia fortuna pittorica. Il tema degli usi e costumi turchi nutre di suggestioni figurative orientaleggianti il gusto dell'epoca, confluendo abbondantemente anche nelle stampe popolari, nella narrativa, nelle arti decorative.

Nel folclore, oltre ad alcuni proverbi (in Sicilia si dice " mentr'hai bon ventu, navica, cursali"), esistono in tutte le regioni che si affacciano sul Mediterraneo molte canzoni popolari che raccontano la paura dell'arrivo "dei Turchi": fra queste la più nota è senz'altro quella che inizia "all'armi all'armi la campana sona / li Turchi so' arrivati alla marina". Risulta curioso, però, vedere come vengano esplorate tutte le possibili articolazioni del tema, riflettendo una realtà ben più complessa della semplice contrapposizione, una realtà in cui l'ipotesi di "farsi Turco" può anche essere l'estremo atto di ribellione verso una vita grama o una delusione d'amore.


In definitiva, anche lo stendardo di Stefano Sanvitale a Fontanellato è l'ennesima prova che l'interesse del bene culturale non risiede mai esclusivamente nella sua materialità e nelle sue caratteristiche tecniche e artistiche, per quanto pregevoli, ma si estende all'universo ben più ampio e "immateriale" delle relazioni culturali che esso testimonia ed evoca: in questo caso, una pagina della nostra storia mediterranea suggestiva e interessante, ma non del tutto conosciuta al grande pubblico.


Note

( 1) Questo intervento riprende temi che sono stati oggetto, nell'estate 2014, della mostra "Corsari nel nostro mare", allestita al Museo della Marineria di Cesenatico, curata dall'autore con la collaborazione di Veronica Pari per la parte archivistica, di Marco Asta per la cartografia nautica, e di Marco Bonino per le tipologie navali: si veda in proposito il volume Corsari nel nostro mare (a cura di D. Gnola, Argelato, Minerva Edizioni, 2014), a cui si rinvia per una bibliografia sull'argomento.

( 2) F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, volume II, p. 919.

( 3) "Corsaro" - secondo il Vocabolario marino e militare (1889) di Alberto Guglielmotti, testo di riferimento del lessico navale storico - è il "capitano di bastimento privato che, in tempo di guerra, per patente lettera sovrana, scorre il mare a suo rischio contro navi, merci, e persone del nemico. Termine del diritto internazionale, che distingue il Corsaro dal Pirata, a dispetto di tutti quei sacciuti che han tentato di confondere i due concetti e le due voci, mettendo in un fascio la buona e la mala presa".

( 4) Sulle tipologie navali si veda: M. Bonino, Tipi navali usati per la guerra di corsa e per la pirateria in Adriatico, in Corsari nel nostro mare, cit., pp. 51-61, con varie illustrazioni e disegni.

( 5) Si veda: G. Ricci, Catene, figure e reperti della redenzione degli schiavi, in L'iconografia della solidarietà. La mediazione delle immagini (secoli XIII-XVIII), a cura di M. Carboni e G. Muzzarelli, Venezia, Marsilio, pp. 209-217.

 

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