Rivista "IBC" XXIII, 2015, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne

Una mostra al Museo civico archeologico etnologico di Modena racconta le storie di vita e di morte di una comunità dell'Età del Bronzo.
Le urne dei forti

Paolo Bonometti
[studente del Dipartimento di storie, culture, civiltà dell'Università di Bologna]

"Le urne dei forti. Storie di vita e di morte in una comunità dell'età del Bronzo" è il titolo della mostra con cui, dal 14 dicembre 2014 al 27 settembre 2015, il Museo civico archeologico etnologico di Modena presenta i risultati di una ricerca pluriennale condotta sulla necropoli dell'età del bronzo di Casinalbo, un sepolcreto individuato alla fine dell'Ottocento a poca distanza da uno di quegli abitati dell'età del bronzo, noti come "terramare", che a partire dal 1650 avanti Cristo occuparono in modo capillare la pianura padana centrale.

Il Museo civico archeologico etnologico si configura come la sede più naturale per ospitare questa esposizione, dato che proprio questo ente ha avuto il merito di promuovere, fra il 1994 e il 2009, la ricerca di cui si parla. Ancor più emblematica si dimostra la scelta della sala espositiva, dedicata ad Arsenio Crespellani (1828-1900), il quale, oltre che archeologo e regio ispettore degli scavi della provincia di Modena, dal 1894 fu direttore del Museo e si interessò alla prosecuzione delle ricerche presso Casinalbo, ricerche iniziate nel 1880 da Carlo Boni, fondatore e primo direttore dell'istituzione. In queste stesse sale, non a caso, nel 1997 fu allestita anche la mostra su "Le Terramare. La più antica civiltà padana", che di fondamentale importanza risulta essere ancora oggi per gli studi della protostoria italiana ed europea.

Curata da Andrea Cardarelli (Dipartimento di scienze dell'Antichità dell'Università La Sapienza di Roma) e da Cristiana Zanasi, curatrice del Museo civico archeologico etnologico, la mostra è stata realizzata grazie al contributo della Fondazione Cassa di risparmio di Modena, con la collaborazione delle soprintendenze per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna, del Veneto e del Piemonte.


La prima parte dell'allestimento, come un vestibolo antecedente il nucleo espositivo principale, accoglie il visitatore presentando in maniera puntuale, attraverso un numerosissimo apparato scritto, la storia delle ricerche, proponendo una selezione dei materiali relativi all'abitato della Terramara di Casinalbo (Età del Bronzo Media e Recente, 1600-1150 avanti Cristo). Materiali che furono il frutto della stagione paletnologica ottocentesca e dei primi del Novecento, in particolar modo a opera proprio del Crespellani: le sue planimetrie e sezioni, infatti, figurano in uno dei pannelli.

Fra i materiali esposti in questa prima parte compare il celebre disco in lamina aurea, chiaramente confrontabile con altri rinvenuti in territorio italiano ed europeo, da porre in relazione probabilmente con l'esistenza di un culto solare; gli altri materiali offrono una panoramica delle produzioni artigianali tipicamente terramaricole, tra cui la lavorazione dell'osso e del corno, e la fusione del metallo, oltre che naturalmente quella relativa alla ceramica.

L'ingresso, così preannunciato, risulta d'impatto, accompagnando assialmente il visitatore all'interno del mondo funerario di Casinalbo. Con l'aiuto di riproduzioni fedeli di oggetti e contesti, ma anche con l'ausilio di proiettori che riproducono le fiamme ardenti di una pira e una voce esterna che canta alcuni versi tratti dai Libri XXIII e XXIV dell' Iliade, si possono ripercorrere le tappe fondamentali del rituale crematorio, così come i correlati archeologici ci dimostrano, o quantomeno ci suggeriscono.

Superati i cippi funerari, si assiste dapprima alla preparazione del corpo, poi alla sua esposizione al di sopra di una piattaforma (la cosiddetta  próthesis del mondo greco), quindi alla sua cremazione con la deposizione di oggetti e/o offerte animali sulla pira, e a una serie di rituali successivi all'incinerazione.

Usciti dal mondo delle ricostruzioni, un altro supporto audiovisivo permette un confronto etnoarcheologico con la contemporaneità, relativo all'esposizione e alla lamentazione funebre: si tratta del documentario  Stendalì. Suonano ancora, realizzato da Cecilia Mangini nel 1960 con la collaborazione di Pier Paolo Pasolini.


L'esposizione dei materiali archeologici rinvenuti (si consideri che sono state recuperate 673 sepolture) viene preceduta dalla storia dell'utilizzo della necropoli, sapientemente e dettagliatamente illustrata, oltre che dai pannelli, anche dalla fedele riproduzione di una sezione stratigrafica. L'espediente della sezione è piuttosto efficace, sia per le dimensioni in scala 1:1, sia per la sua capacità di restituire, anche ai non addetti, le sensazioni provate dall'archeologo mentre lavora sul campo.

L'insieme delle urne esposte copre buona parte del materiale espositivo relativo alla necropoli e, visto il titolo scelto, non poteva essere altrimenti; a esse sono associati, qualora presenti, gli elementi di corredo (relativamente pochi) che sono riferibili soprattutto a individui femminili e presentano evidenti tracce di esposizione al fuoco, e i materiali prelevati dalle aree rituali della necropoli. Si tratta perlopiù di oggetti in bronzo intenzionalmente frammentati e sottoposti all'azione del fuoco: quel che resta di alcuni componenti di spade (lame, codoli e ribattini), spilloni frammentati e parti di pugnali.

A guidare il visitatore lungo la serie degli oggetti mostrati sono stati predisposti, oltre ai soliti pannelli, anche due dispositivi dotati di tecnologia  touch, che consentono un maggiore approfondimento per quanto concerne i vari aspetti della necropoli: dalla distribuzione delle tombe, alla demografia, e così via.

Grande spazio è stato dedicato ai raggruppamenti di sepolture, andando a evidenziare nel corso del tempo una tendenza all'accrescimento dei vari gruppi, con una conseguente concentrazione delle tombe. Il suggerimento che ci viene dato sembrerebbe delineare la scelta di gruppi riferibili a una famiglia estesa, ma analizzando un altro gruppo di sepolture è stata anche ipotizzata la presenza di una discendenza unilineare.

Notevole, per la capacità di far comunicare ricerca e divulgazione, è anche un video che mostra in che modo sia stato effettuato il microscavo dei cinerari, preliminare alle analisi antropologiche che hanno riguardato 349 tombe. Da queste analisi, ove le condizioni dei resti lo permettevano, è stato possibile determinare sia il numero di individui (non mancano le sepolture bisome: 8 fra quelle analizzate), sia la specificazione del sesso, oltre che l'età della morte.

Appaiono interessanti i dati relativi proprio ai tassi di mortalità: si può stimare intorno ai 20 anni l'aspettativa media di vita, con un tasso di mortalità infantile del 14%, tasso che però non tiene conto degli infanti al di sotto dei 2/3 anni di vita, i quali venivano esclusi dal rituale crematorio. Ed è proprio con questa serie di pannelli e di materiali che termina la sezione propriamente dedicata allo scavo della necropoli terramaricola, lasciando parlare, a questo punto, una serie sapientemente scelta di confronti funerari e non solo, nell'ambito dell'Età del Bronzo dell'Italia settentrionale.


Si passa quindi alla necropoli a inumazione dell'Olmo di Nogara (Verona), di cui vengono esposti due individui, un guerriero e una donna di alto rango, con il loro corredo (la spada per l'uomo, la coppia di spilloni con due vaghi d'ambra per la donna), per spostarsi poi nella necropoli a incinerazione di ambito terramaricolo della Montata di Reggio Emilia, che presenta caratteri di forte affinità con Casinalbo, a partire dall'ambito cronologico. Ma sono esposti anche i materiali provenienti dai tumuli del Bronzo Antico di via Sant'Eurosia (Parma), datati fra il 1900 e il 1800 avanti Cristo, e dalla necropoli a cremazione di Alba (Cuneo), complessivamente datata fra il 1450 e il 1200 avanti Cristo.

Ulteriori esempi relativi ad altre forme di ritualità dell'Età del Bronzo sono evidenziati esponendo materiali provenienti dal Monte Santa Giulia (Modena) e dal deposito votivo di Pila del Brancon (Verona). Il primo testimonia una moldalità rituale che prevedeva lo sfruttamento di aree votive sulla sommità delle montagne per realizzare dei roghi cultuali, al cui interno dovevano essere deposti materiali diversi, fra i quali figura una spada di tipo Cetona, esposta in mostra. Il deposito di Pila del Brancon - comprendente diverse armi, per lo più punte di lancia e di giavellotto, ma anche spade, tutte defunzionalizzate e deposte in acqua - permette invece di comprendere alcuni aspetti legati alla sfera della cerimonialità collettiva, in particolar modo quella guerriera.

Conclusosi il percorso relativo all'Età del Bronzo, viene mostrato il rinvenimento dell'unica tomba etrusca, sempre a cremazione, proveniente casualmente dalla medesima area; ne vengono esposti il cinerario e gli oggetti di corredo: vasellame ceramico, a connotazione prettamente cerimoniale, e oggetti di ornamento, con fibule a "navicella" e un'armilla.

La mostra si conclude facendo riflettere il visitatore sull'evoluzione del rituale incineratorio fino ai giorni nostri, utilizzando come supporto visivo sia scene tratte dal mondo cinematografico (tra i film citati: Good bye, Lenin!, di Wolfgang Becker;  Il Grande Lebowski, dei fratelli Coen;  Gandhi, di Richard Attenborough) sia una serie di fotografie riportanti esempi attuali di cremazione, provenienti principalmente dai paesi orientali (Bali, Cambogia, India, Nepal, Giappone, Taiwan).


Non si può far altro che spendere parole positive per questa esposizione, soprattutto per quanto concerne l'aspetto della scientificità e della comunicazione, a partire dalla scelta del museo ospitante, un contenitore storico ma anche storicizzato, in virtù della forte connotazione che da sempre lo ha contraddistinto nel campo delle ricerche, anche pionieristiche, nell'ambito della preistoria e protostoria italiana, senza tralasciare il forte legame da sempre intrattenuto con il territorio e che già fu alla base della sua nascita.

L'evocatività delle ricostruzioni rendono partecipe il visitatore all'interno del percorso, proponendo e stimolando riflessioni, chiarendo e valorizzando problematiche storiche e attuali. La stessa scelta del titolo, tratta da un passo del  Dei sepolcri di Ugo Foscolo, risulta efficace, sia come richiamo della consistente presenza del materiale esposto, sia nel riproporre una problematica storica, quella dell'Editto di Saint Cloud, che ai primi dell'Ottocento poneva in luce la difficoltà intrinseca alla "democraticizzazione" delle tombe e del rapporto fra il defunto e la comunità, fra la vita e la morte.

Vanno anche segnalate le due pubblicazioni messe a disposizione degli interessati. La prima è una vera e propria guida alla mostra, che raccoglie sostanzialmente il contenuto di tutti i pannelli esposti, e ha il pregio di proporre a un vasto pubblico un ottimo grado di scientificità, utilizzando un linguaggio accessibile. La seconda è invece una pubblicazione in due volumi dal taglio più scientifico, edita da "All'insegna del giglio" all'interno della collana "Grandi Contesti e Problemi della Protostoria Italiana": intitolata  La necropoli della terramara di Casinalbo e curata da Andrea Cardarelli, percorre in modo esaustivo ogni aspetto della ricerca archeologica.

La speranza è che questo genere di esposizioni, così sapientemente concepite, possa presto riguardare anche gli allestimenti dei musei, proponendo in maniera permanente così tanti spunti e riflessioni e facendo sentire il pubblico partecipe, non solo di ciò che si è costruito ma anche di quanto ancora si possa scoprire.

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