Rivista "IBC" XXIV, 2016, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / convegni e seminari, inchieste e interviste, progetti e realizzazioni
Quest’anno “Vivi il Verde”, la rassegna dedicata dall’Istituto regionale per i beni culturali alle aree verdi della nostra regione, è stata inaugurata il 23 settembre 2016 dal professor Eugenio Riccomini con una conferenza a Palazzo Hercolani. L’incontro, seguito dalla visita alla stanza “boschereccia”, è avvenuto nell’ambito della presentazione di Giardini nel tempo, il volume edito dall'IBC, in occasione dell’edizione 2015 della manifestazione. La scelta del luogo non è casuale perché, trattandosi di giardini, nessuna ambientazione poteva prestarsi meglio del palazzo di strada Maggiore. Qui si trovava, un tempo, un giardino splendido, quello del senator Filippo Hercolani. Il vecchio conte lo aveva allestito nel 1808 mandando il suo giardiniere su e giù per la Futa a comprar piante in Toscana. Era un’area vastissima, e il progetto, che si conserva ancora, nell’archivio della famiglia, era di Angelo Venturoli, l’architetto del palazzo. Nel disegno si vede qualche reminiscenza italiana ma la moda è quella del giardino inglese. C’erano vialetti, dislivelli, macchie di bosco, un rustico e poi antri, rocce e una grotta che si vede ancora, sul lato di ponente, sbirciando dalle finestre della Facoltà di Scienze Politiche. Qualche traccia è rimasta di quest’isola verde nel centro storico di Bologna, aperta ai visitatori in occasione della manifestazione (dal 23 al 25 settembre). Ma ciò che più è straordinario è che su quell’oasi nascosta si apre una camera tutta dipinta come se fosse un giardino vero, e così quando ne varchiamo la soglia e ci troviamo all’aperto non sappiamo più se siamo nella finzione o stiamo entrando nel paesaggio reale. I bolognesi erano maestri nel dipingere questi scenari: la “boschereccia” di Palazzo Hercolani, affrescata da Rodolfo Fantuzzi nel 1810, è la più famosa tra le tante che dalla fine del '700 e per mezzo secolo trasformarono gli ambienti chiusi in luoghi all’aperto. Quella camera, decorata con alberi e rampicanti come se fosse un’anticipazione, o uno specchio di quel paradiso, è il “giardino” di Bologna più affascinante e il punto di arrivo di un dialogo tra arte e natura intrecciato attraverso i secoli nel nostro territorio: un territorio a ridosso dell’Appennino e, si direbbe, “amico dei giardini”.
Lo ha dimostrato Giardini nel tempo: il volume, a cura di Carlo Tovoli e introdotto da Angelo Varni, raccoglie saggi che illustrano la civiltà del “verde” e l’attenzione per il paesaggio – nella regione e oltre – riprendendo argomenti e spunti di riflessione tratti dalle rassegne precedenti. Si comincia con un excursus sull’idea moderna del giardino, da noi al panorama internazionale (Carlo Tovoli, Il giardino del mondo). Di qui, si ripercorre una storia secolare passando Dal giardino degli dei agli horti imperiali (Valeria Cicala) quando, in un tempo lontano, gli spazi verdi erano Antiche oasi di pace (Beatrice Orsini); poi si arriva all’ Architettura del giardino (Piero Orlandi) e alla decorazione d’interni, culminata, a Bologna, nel fenomeno della “stanza paese” (Elisabetta Landi, Il cielo in una stanza. Il giardino dipinto in Emilia-Romagna).
In realtà, la “stanza paese” o, dall’800, il “giardino d’inverno”, è un genere figurativo antichissimo, del quale si trovano i precedenti negli horti picti dell’età età romana: dai giardini a tutta parete della Casa del Bracciale d’oro, a Pompei o, a Roma, a quelli del viridarium dell’imperatrice Livia, la moglie di Augusto (20 a.C.): un complesso pittorico straordinario, e quasi un antenato della “boschereccia” Hercolani. L’affresco fu dissotterrato nel 1863, è vero, ma è molto vicino alla sensibilità degli artisti del neoclassicismo. Una sensibilità più vicina a noi di quanto non si creda. Furono i bolognesi che, grazie alla tradizione della scenografia emiliana, avevano rilanciato questo tipo di decorazione che, transitando per i paesi affrescati di metà '500, si era trasformata in uno stile che una volta si chiamava “all’antica”, o “alla moderna”, a seconda di come si intendevano le cose, e che aveva prodotto le “boscherecce”. Non c’è dubbio che l’idea di dipingere un ambiente chiuso come se fosse un bosco e di farlo dialogare con la vegetazione che si vedeva fuori dalle finestre presupponesse l’amicizia con la Natura, e alla fine un atteggiamento mentale nuovo del quale, per molti aspetti, è figlia, o “nipote”, l’ecologia.
È importante sottolineare come, a Bologna, la modernità, o un’idea moderna della Natura, nasca proprio qui, a Palazzo Hercolani, con questa stanza che se da una parte ci ricorda il Pincio per la presenza dei pini e delle scalinate con le sfingi (il Fantuzzi era stato a Roma, e conosceva benissimo l’opera del Valadier), dall’altra ci fa sognare il giardino inglese con il laghetto, i salici e quel naturalismo in plein air che ci fa sentire subito in campagna, e ci fa pensare che, alla fine, “vivere il verde” è una “scoperta della libertà”.
Abbiamo chiesto a Eugenio Riccomini di raccontarci questa “stanza paese” e di spiegarci come, attraverso la storia di questo dipinto straordinario e del suo committente, si ripercorra il mutare dei tempi.
Elisabetta Landi:
“Professore, nei suoi numerosi studi sulla boschereccia Hercolani ( 1) lei ci ha dimostrato come, più che con la pianura padana, questa stanza dipinta abbia “a che fare con la campagna del Kent”. Quindi, con un sentimento della natura completamente nuovo, e di conseguenza con l’inizio della modernità. Quando e come avviene questo cambiamento?”
Eugenio Riccomini:
“Il cambiamento avviene negli ultimi anni del XVIII secolo e precisamente con l’arrivo dei francesi.
Era una mattinata di tarda primavera dell’anno 1796. Un messo comunale bussò alla porta del palazzo del senator Filippo Hercolani. "Signor conte, si affretti, in senato la stanno aspettando!". Il conte stava sorvegliano il cantiere del suo palazzo; la sua famiglia abitava lì da sempre, ma nel 1793 aveva incaricato Angelo Venturoli, il miglior architetto della città, di costruirgli una bella dimora, degna di un gonfaloniere e con un grande scalone: l’ultimo degli scaloni senatori di Bologna; uno spazio scenografico, decorato con le statue del De Maria. Il nobiluomo attraversò il cantiere, sorvegliato dal Venturoli che si aggirava tra i muratori per controllare che eseguissero correttamente i lavori. Scavalcando i mattoni e i bigonci di calcina che il capomastro Gibelli aveva fatto arrivare, quel giorno come tutti gli altri, si fece strada in mezzo agli operai che andavano e venivano, spingendo le carriole. "Signor conte! Stia attento! Non si può passare!". Finalmente, tutta inzaccherata, ecco che arriva la carrozza. Il senatore sale e via, di corsa verso piazza Maggiore. Quel giorno, Filippo Hercolani andava ad assumere la carica di gonfaloniere. E tuttavia, nessuno sfarzo, contrariamente al rituale seguito dalle famiglie aristocratiche di Bologna nei secoli precedenti, quando il neo eletto saliva su un cocchio con i colori della sua casata e si avviava con una solenne parata, seguito dai servi in livrea, dal corpo dei cavalleggeri e dalla banda che suonava inni di gloria. Poi, tutti a Palazzo Comunale. Il neo eletto giurava solennemente, e in piazza si faceva festa con la porchetta. Questa volta, invece, niente accorrere di servitù e di popolo, niente guardie svizzere in bragoni a strisce e tanto di alabarde, niente trombe per fare strada al corteo; e quella sera non ci sarebbero state luminarie.
Tanta modestia, e una volontà così evidente di schivare il cerimoniale barocco che di norma salutava l’evento, sono forse la spia di un interno dubbio, di un timore. Da anni i giornali riferivano notizie inquietanti che venivano dalla Francia, e proprio in quei giorni si accampavano, nella pianura padana, le scalcagnate ma temibili truppe francesi.
Un bel giorno, il 18 giugno 1796, mentre il gonfaloniere camminava lungo le sale di Palazzo d’Accursio parlando con i suoi amici, arrivò un usciere: "Eccellenza, c’è un giovanotto, giù, con una divisa strana. È a cavallo. Anzi, a dire il vero ce ne sono cinque o sei, tutti a cavallo. E non sono neppure scesi. Chiedono di lei!". "Li faccia salire!". "Loro non scendono da cavallo. Anzi uno ha tirato fuori anche la sciabola. Sono soldati. Cosa devo fare? Bisogna che scenda lei, mi creda, perché di questi qui io non mi fido, e poi parlano una lingua che non capisco". Il gonfaloniere era lì da due mesi, e ormai il suo mandato stava per scadere. Ma si era abituato al comando. Tuttavia, indossò il mantello e uscì giù nel cortile. "Voi chi siete?". Il giovane ufficiale si tolse il cappello: era una persona gentile. "Je suis le colonel Verdier de l’armée de la France", rispose. "Ma cosa c’entra l’armata di Francia?". "Come!" prosegue in italiano il colonnello. "Lei non li legge i giornali? Non lo sa che tutta la pianura padana l’abbiamo presa noi? Il nostro generale (che è uno che non è neanche francese, viene dalla Corsica; era tenente, ma ha vinto tutte le battaglie e adesso è generale) verrà qui domattina; si chiama Napoleone Bonaparte". "Ma il cardinal legato lo sa?", domanda il gonfaloniere. "Quello è meglio che lo mandi via subito". Detto fatto. C’è un quadro che raffigura la partenza del cardinal legato. Il giorno prima erano stati condannati due studenti, Zamboni e De Rolandis: due ragazzini. Zamboni, un eroe, si era impiccato da solo, in carcere, con una sciarpa. L’altro invece, originario di Asti, fu impiccato con il tirapiedi nella piazza dove oggi fanno il mercato, piazza Otto Agosto. "Ma scusi!", proseguì Hercolani "Questo signor Napoleone viene qui domani?". "Sì, viene qui domani! Con tutto il suo esercito. Saremmo 30.000 persone". "E io dove vi metto?". Il gonfaloniere si torceva le mani. Era disperato "Ci pensiamo noi, stia tranquillo”. “Ah!”, respirò il conte. “Ma io cosa dovrei fare?”. “Ho l’ordine di dirle che lei continui a gestire la normale amministrazione”, rispose l’ufficiale. “Qui non verrà più nessuno. Resta sempre lei”. Filippo Hercolani era decisamente sollevato. Quasi soddisfatto. Dentro di sé pensava: “Grazie a Dio, questa volta mi è andata bene“.
Poi, i francesi andarono via. Un giorno, l’usciere, che era diventato un po' vecchio, salì faticosamente le scale: “Cittadino gonfaloniere!”, ormai, ci si chiamava così. “Ci sono dei cittadini, quaggiù, che desiderano parlare con lei. Sono sei o sette, sono a cavallo anche questi, ma hanno dei vestiti diversi”. Filippo Hercolani si mise la zimarra, scese, e si trovò di fronte lo stato maggiore dell’esercito austriaco, comandato dal generale Klenau: quello che aveva fatto fucilare Ugo Bassi. “Voi chi siete?”. Gli ufficiali si tolsero la sciabola, e con eleganza fecero il saluto. Il gonfaloniere rispose con un inchino. “Io sono il cittadino gonfaloniere”. “Cittadino non si dice”, obbiettò il generale. “Non si dice mai più! Voi conte, e non solamente conte! Per ordine di sua maestà imperiale di Vienna voi, adesso, Principe del Sacro Romano Impero!”.
I tempi erano cambiati. Velocemente, e in poco tempo. E cambiava, con sicura vittoria, anche il gusto. Lo si vede benissimo, nel palazzo del principe Hercolani: un edificio stupendo, con una facciata degna di un edificio del '500 perché Venturoli studiava i libri classici, e amava molto il Palladio. Mentre accadevano queste cose, i lavori procedevano, e ogni giorno si affrescava una stanza. Anche lì, segni del mutamento. Come in quella camera dove due divinità femminili di Filippo Pedrini, dipinte nel 1801, volteggiano sul soffitto; fluttuano, e si avvolgono in drappi leggeri che, guarda caso, o per suggerimento del vecchio principe o di suo figlio Astorre, che aveva capito come stavano andando le cose, giocano sul tricolore: sono tonalità note: bianche, rosse e blu, o bianche, rosse e verdi, come due bandiere: quella francese, di pochi anni prima, e la bandiera italiana, nata nel 1797.
Ma a Palazzo Hercolani è nella “boschereccia” che si scorge il mutamento del gusto e della sensibilità, il più significativo. In quegli anni si leggeva Pindemonte e, mentre questa stanza prendeva forma, il Foscolo pensava al primo dei suoi inni alle Grazie. Leopardi, intanto, sedendo e mirando si era innamorato di una siepe.
“…un bel posto con dell’acqua, uno sfondo e degli alberi, nel quale non si vedono delle figure, suscita di solito il desiderio di andarvi a passeggiare, di abbandonarsi in solitudine ai propri pensieri”. Così Goethe descriveva un paesaggio italiano e anche se il Fantuzzi non conosceva questa frase, scritta nel 1811, è sicuro che il giardino d’inverno del gonfaloniere fosse una tappa verso questo nuovo modo di percepire la natura, o, per così dire, di “vivere il verde”. Non ci si accorge neppure di essere al chiuso. Quando si entra lì dentro, lo stupore ti avvolge. La sorpresa, anzi, perché stupore è una parola usata per imprese più mirabolanti. Si sosta lì in mezzo, in silenzio; e si vorrebbe, che so, uno sgabello o un panchetto: perché è un posto, quello, da starci sedendo e mirando. È uno spazio che avvolge, costruito senza alcuno spigolo e dipinto interamente dal pavimento alla volta del cielo con quelle pareti scantonate agli angoli che creano un continuo che non si interrompe mai, come in un diorama; neppure nel collegamento tra il muro e il soffitto, curvato in modo che chi alza lo sguardo non veda l’attaccatura, ma sia ingannato dallo scorrere dei rampicanti e dal dispiegarsi delle fronde.
È una natura viva, nella toccante vitalità della finzione, quella che l’occhio percorre, intatta, appena varcata la soglia. E di lì compare, a porte aperte, il verde vero del giardino in un trapassare cercato, tra illusione e verità, che crea inganno; e l’inganno suscita quell’ impression douce et triste di cui già trent’anni prima s’appagava Rousseau, il passeggiatore solitario; sulle sue orme, come si sa, si avvia ogni rêverie che si aggiri anche fra le nostre campagne in rima, dal Savioli, al Vittorelli, a Ippolito Pindemonte; in luoghi simili a questo, senza passeggiare ma, semplicemente, sedendo e mirando.
Questa gioia dell’occhio è cosa nuova nella pittura italiana. A Bologna, certo, ce n’erano di simili (Vincenzo Martinelli ne aveva appena dipinta una per Antonio Aldini e un’altra bellissima nel palazzo pubblico); ma queste conservano almeno una parvenza d’architettura, o una struttura a siepe. Qui, la sola parvenza di cosa costruita è il tempietto dorico messo lì di sbieco, dove si apre la porta con le colonne scanalate appena appena sbrecciate (ma meno che in Clérisseau e in Hubert Robert) e col frontone a tratti ombreggiato dalle fronde di due, o tre grandi alberi il cui fogliame serve a mascherare il mutar di rotta della stanza, che in quel punto sarebbe stato d’angolo; poi, i plinti e le scalee che slontanano verso l’orizzonte. Rodolfo Fantuzzi era all’opera, qui, nell’estate del 1810. Era stato, quell’anno, a Roma. E il ricordo di quel viaggio affiora: nella distesa luminosa di tetti e di cupole, con la mole squadrata di Villa Medici, nelle arcate dirute, remote, dell’acquedotto claudio e con i pini italici. Quando il Fantuzzi era sceso nella capitale, se n’erano appena andati via i pittori francesi: Gauffier, Valenciennes, De Superville, gli autori di quei “paesaggi della ragione” disegnati, o dipinti, nella campagna romana con un occhio attento a Poussin, togliendo ogni eccesso. Nel tempo quella linearità si era un poco attenuata. Ma una svolta si era verificata, e il pittore, che se ne era accorto, aveva saltato il fosso e si era liberato di tutte le reminiscenze del paesaggio barocco, approdando a una classicità nuova. La “stanza paese”, o “boschereccia”, pare infatti essere un’idea tutta nata qui: soprattutto dall’esperienza di duecent’anni di decorazione prospettica d’interni in cui si fingono, entro una stanza, scalee e colonnati in fuga, e arcate aperte sul paesaggio. È appunto su quella prassi tradizionale che il Martinelli aveva innestato la sua sapienza di pittore di vasti paesi a tempera, concedendo il più ampio spazio all’aria aperta, e mantenendo però l’appoggio di una struttura architettonica che facesse da cornice; una struttura, magari, che imita qualcosa di naturale: una siepe da giardino, ad esempio, come avviene nella stanza dipinta per il palazzo, da poco tutto rinnovato, di Antonio Aldini, ed anche in quella bellissima, con putti del Valliani, negli appartamenti napoleonici del palazzo di città. Era una tradizione, quella, che il Fantuzzi aveva sotto gli occhi; e alla quale s’attiene. Con un mutamento, però; decisivo, e tale da far prototipo ad ogni altra impresa del genere (tutte bolognesi, ovviamente): come la stanza di Giacomo Savini in palazzo Davia Garagnani, ventiquattr’anni dopo, o quella di villa San Martino, dipinta da Ottavio Campedelli addirittura nel 1858. Così, l’antica tradizione dell’illusionismo scenico e decorativo bolognese si sposava con il nuovo, dolce e melanconico piacere del passeggiare in solitudine tra fronde e rovine e orizzonti lontani, luminosi.
Nel mezzo della stanza il conte Astorre Hercolani fece poi collocare nel 1821 una copia dell’ Amore e Psiche di Canova, che Adamo Tadolini gli aveva spedito da Roma. Adesso non c’è più. E forse è quasi meglio così: si sta lì in mezzo, e ci si guarda attorno, e si passeggia stando fermi. Per questo, solo per il nostro silenzioso diletto è fatta questa stanza”.
1 Eugenio Riccomini, Qualche precisazione su palazzo Hercolani, e sul mutare dei tempi, in Nazario Sauro Onofri, Vera Ottani, Paola Zanotti, Cantieri di storia. I restauri di Palazzo Hercolanie la nuova torre libraria della biblioteca di Palazzo Poggi, Crevalcore, 1993, pp. 35-59.
Eugenio Riccomini, Il “bel posto con dell’acqua, uno sfondo e degli alberi”. La boscareccia di Rodolfo Fantuzzi in Palazzo Hercolani, “Saecularia Nona”, 12, 1995, pp. 154-158.
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