Rivista "IBC" XXV, 2017, 1

musei e beni culturali / corrispondenze, mostre e rassegne

La "pittura a olio" di Ludovico Ariosto

Francesco Ferretti
[Università di Bologna, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica]

Quando si indagano i rapporti tra testo e immagine nella letteratura rinascimentale, è opportuno non perdere di vista la distinzione tra cultura figurativa, fortuna figurativa e stile figurativo. Chi si concentra sulla prima esplora i rapporti di un poeta con la cultura artistica del suo tempo, indagando le possibili influenze che il poeta in esame può aver ricevuto dai linguaggi plastici, decorativi o pittorici coevi, tutt’uno con l’esito che tali influenze presentano in ambito letterario. Chi si concentra sulla fortuna artistica – vale a dire, sulle molteplici trasposizioni figurative di un testo – ha a che fare con una vera e propria interpretazione visiva e dunque è indotto a riflettere, tra le altre cose, sui diversi gradi di fedeltà o infedeltà rispetto al testo visualizzato, nonché sui problemi legati alla trasposizione da un linguaggio a un altro (anche in relazione alle distanze temporali che corrono tra il testo e le sue raffigurazioni). L’ultimo approccio, infine, è quello più squisitamente letterario e, per metterlo a fuoco, è bene ricordare che nell’estetica cinquecentesca pittura e poesia sono ‘arti sorelle’ e che la poesia buona è quella che maggiormente somiglia alla pittura, come vuole il canone che si è soliti compendiare nella formula oraziana ut pictura poësis. È evidente che si tratta di una pittura metaforica, ottenuta attraverso mezzi stilistici e retorici: essa consiste, essenzialmente, nell’arte del poeta di suscitare o, come si diceva nel Cinquecento, ‘dipingere’ nella mente del lettore immagini mentali vivide, precise ed efficaci.

L’ Orlando furioso, negli ultimi tempi, è stato spesso sottoposto ai primi due approcci ermeneutici. Nonostante gli importanti contributi di Marco Praloran circa l’evidenza e l’efficacia del poema ariostesco, tuttavia, si è prestata minore attenzione alla natura figurativa del Furioso, ossia alle qualità ‘pittoriche’ dello stile ariostesco in quanto tale. Eppure, se il Furioso ha una fortuna artistica tanto ampia e variegata (come dimostrano, in particolare, le ricerche condotte da Lina Bolzoni) e se è possibile rintracciare nel poema alcune fonti figurative almeno in parte simili a quelle adunate nella mostra ferrarese Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi (a dire il vero non sempre secondo una ratio filologicaperspicua), ciò accade anche perché il Furioso, di per se stesso, è un poema che ha una fortissima vocazione figurativa, ossia mira a produrre nel lettore una moltitudine di immagini mentali, sapientemente variegate.

A rendersene conto, del resto, furono già i primi lettori, particolarmente sensibili al canone oraziano dell’ ut pictura poesis. Il veneziano Lodovico Dolce – un letterato abituato a lavorare in tipografia e dunque attentissimo al gusto del pubblico medio – già nel 1535, a breve distanza dalla terza e definitiva edizione del Furioso (1532), scriveva che Ariosto è “mirabilissimo […] a dipignerti una cosa dinanzi gli occhi, in tanto che il più delle volte mi par non di leggere ma di vedere manifestamente quello di che egli tratta”. Cinque anni dopo un testo encomiastico in terzine (attribuibile forse allo stesso Dolce) ribadiva tale lode spingendosi a esaltare, in anticipo sulla celebre formula di Italo Calvino, il Furioso come “poema del movimento”, ossia come il poema che dipinge con efficacia il vorticoso movimento nello spazio dei suoi personaggi: “Ei [ Ariosto] ti dipinge una cosa sì bene / che ti pare d’averla avanti gli occhi, / con dirti: questo va, quell’altro viene”. La più acuta, forse, tra le lodi relative alla natura figurativa dello stile ariostesco si deve però a un altro grande ammiratore di Ariosto: Galileo Galilei (non a caso ammiratissimo, a sua volta, da Calvino). In giovinezza, probabilmente verso la fine degli anni Ottanta del Cinquecento, lo scienziato ebbe agio di farsi anche critico letterario e, attraverso appunti di lettura destinati a una circolazione privata, si propose di demolire le odiate innovazioni di Tasso epico, paragonandole puntigliosamente ai passi paralleli di Ariosto, non solo prediletto a Tasso, ma considerato (come si legge nel Saggiatore) “il Poeta a niun altro inferiore”. Le note apposte da Galileo a un esemplare della Gerusalemme liberata, modernamente edite col titolo di Considerazioni al Tasso, sembrano vòlte a dimostrare un vero e proprio assioma: Tasso sarebbe un cattivo poeta imitatore della realtà e dunque, anziché a un poeta, assomiglierebbe a un intarsiatore; Ariosto, invece, sarebbe il principe tra i poeti pittori, perché la sua rappresentazione della realtà somiglierebbe a una vivida e delicatissima pittura a olio. Con parole di Galileo, mentre l’autore della Liberata per “stretteza di vena e povertà di concetti” va “rappezando insieme concetti spezati e senza dependenza e connessione tra loro, onde la sua narrazione ne riesce più presto una pittura intarsiata, che colorita a olio”, l’autore del Furioso, invece, sarebbe capace di dare alla sua rappresentazione la “tondeza” e il “rilievo” del “colorito a olio”, nel quale “sfumandosi dolcemente i confini, si passa senza crudeza dall’una all’altra tinta, onde la pittura riesce morbida, tonda, con forza e con rilievo”. Per capire le metafore critiche galileiane, dobbiamo ricordare quanto scrive Vasari sulla pittura a olio nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori. Se Vasari nei confronti della tarsia è tendenzialmente ostile, riserva, invece, parole di elogio alla pittura a olio, la quale, ai suoi occhi, “accende più i colori, né altro bisogna che diligenza et amore, perché l’olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri”. Il risultato è che i pittori a olio danno “bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che ell’eschino della tavola, e massimamente quando elle sono continovate di buono disegno con invenzione e bella maniera”.

Gli interpreti di Tasso, in particolare grazie ai fondamentali contributi di Ezio Raimondi, hanno da tempo compreso che, dietro la malevola metafora della tarsia, si cela un’acuta comprensione della rappresentazione della realtà che è propria della Liberata, fondata sulla brevitas in stile sublime e sull’accostamento straniante di alcuni dettagli eminenti poco legati tra loro (alla luce di quello che Tasso stesso, con una formula volutamente ellittica, chiama il “parlar disgiunto”). Non meno acuta, però, è la metafora della pittura a olio che Galileo adatta al Furioso e alla capacità ariostesca di “sfumare” e “tondeggiare” le azioni (ai tempi dello scienziato il primato della pittura a olio era ovvio, visto che a fine Cinquecento quella era ormai la tecnica dominante, ma la genialità della metafora critica sta nel suo essere usata in antitesi a quella della tarsia). Per rendercene conto, analizziamo almeno un paio di esempi e cominciamo dal ritratto di Alcina, visto che in questo brano Ariosto stesso suggerisce al lettore di aver voluto competere coi pittori: “di persona era tanto ben formata [ Alcina] / quanto me’ finger san pittori industri” (VII 11). Non per nulla Dolce nel suo Dialogo sulla pittura intitolato l’Aretino (1557) si spingerà a proporre la ‘pittura mentale’ di questo brano come “perfetto esempio di bella donna” per i pittori che vogliano usare il pennello reale: 

Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte;
il collo è tondo, il petto colmo e largo:
due pome acerbe, e pur d’avorio fatte,
vengono e van come onda al primo margo,
quando piacevole aura il mar combatte. (VII 14)

Il tipo di rappresentazione prediletto da Ariosto, come si desume da questi versi (minima porzione di una sequenza molto estesa), non mira a un’evidenza di tipo drammatico, ossia si guarda bene dal mettere in rilievo, in funzione enfatica, alcuni elementi a scapito di altri, come farà invece Tasso. Al contrario, il gusto figurativo del Furioso consiste in una calibratissima combinazione di precisione e continuità. Nei versi che abbiamo appena letto, ad esempio, il narratore fa in modo che l’occhio del lettore si posi delicatamente sulle diverse bellezze di Alcina, evocate in sequenza con estrema precisione, ma al tempo stesso con studiata, artificiosa naturalezza. Si noti, inoltre, che, anche in una sezione descrittiva com’è questa, non viene meno l’urgenza di rappresentare il movimento. Ariosto, infatti, si spinge a dipingere poeticamente anche quei dettagli che sono impossibili da raffigurare nella pittura vera e propria, perché si definiscono nella dimensione del tempo, anziché in quella dello spazio. Mi riferisco alla rappresentazione del movimento del seno, veicolata dalla similitudine dell’onda che va e viene sulla battigia, meravigliosamente chiosata da Galileo nelle sue Postille all’Ariosto (più sintetiche delle Considerazioni al Tasso, ma a queste complementari): “Intende di rappresentare l’alzarsi e l’abbassarsi che fanno le mammelle mediante il respirar della donna”. Del resto chi più di Galileo poteva essere sensibile a un’arte, com’è quella di Ariosto, che definisce con elegantissima precisione il moto dei corpi nello spazio?

Quella della pittura a olio non è, però, una metafora critica che dobbiamo riferire ai soli brani descrittivi del Furioso. Prendiamo allora come secondo e ultimo esempio l’ottava che dipinge il duello aereo tra l’orca marina di Ebuda e Ruggiero, che la combatte a cavallo dell’ippogrifo:

Poi che la prima botta poco vale,
ritorna [ Ruggero] per far meglio la seconda.
L’orca, che vede sotto le grandi ale
l’ombra di qua e di là correr su l’onda,
lascia la preda certa litorale
e quella vana segue furibonda:
dietro quella si volve e si raggira.
Ruggier giù cala, e spessi colpi tira (X 102).

L’ottava parrebbe un vero e proprio quadro in movimento, animatissimo e concitato, eppure nel contempo armonioso e lontano da ogni eccesso drammatico. Il narratore, in particolare, ritrae la scena da una prospettiva “a volo d’uccello”, come se la dipingesse agli occhi del lettore alla stessa altezza alla quale si trova Ruggiero: in questo modo definisce e tiene sotto controllo tutte le fasi dell’azione, collocando al centro della scena – senza però dargli un rilievo assoluto – un elemento squisitamente figurativo e in particolare prospettico, come l’ombra dell’ippogrifo riflessa sul mare. È proprio in virtù di questo dettaglio, tuttavia, che, in un poema, nel suo complesso, dedicato alla follia umana, l’ottava finisce per dipingere con distacco classicista anche la follia del povero mostro marino, il quale, come faranno i prigionieri del palazzo di Atlante, insegue l’immagine falsa, perché non vede quella vera (“lascia la preda certa litorale, / e quella vana segue furibonda”). Inutile aggiungere, anche in questo caso, che Ariosto non solo dipinge un dettaglio figurativo come l’ombra dell’ippogrifo, ma lo rappresenta in movimento, quasi per superare quell’arte, la pittura, con la quale entra in silenziosa competizione.

Bastino questi due soli esempi per rendere ragione della metafora della pittura a olio scelta da Galileo. Ma sarà bene concludere con un’avvertenza. Un’altra, celeberrima metafora critica che lo scienziato riferisce al Furioso è quella che presenta il poema ariostesco come una “galleria regia, ornata di cento statue antiche de’ più celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri, con un numero grande di vasi, di cristalli, d’agate, di lapislazari e d’altre gioie, e finalmente ripiena di cose rare, preziose, maravigliose, e di tutta eccellenza”. Con questa seconda metafora, di ancor più raffinata ascendenza figurativa, lo scienziato intese segnalare, in contrapposizione alla varietà dissonante della Liberata (subordinata allo stile sublime richiesto dal genere epico e non per nulla assomigliata a una Wunderkammer manierista), che il Furioso è, per statuto, il regno di un’armoniosa varietà ‘ben temperata’. Risulta dunque impossibile ‘ingabbiare’ dentro a questo o a quell’esempio particolare, come i due che abbiamo analizzato, l’arte ariostesca di dipingere con naturalissima, classicista precisione la continuità dell’azione e il movimento nello spazio.

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