Rivista "IBC" XXV, 2017, 3

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / leggi e politiche, mostre e rassegne, interventi, pubblicazioni

Cercare di conoscere il passato e mantenerne memoria richiede impegno e attenzione, ma anche un’inquietudine che spinga a uscire di casa e a mettersi in cammino.
Ricordare stanca

Vittorio Ferorelli
[IBC]

Due grandi occhi in bianco e nero che guardano lontano, non si sa verso dove. Stanno là in alto, sempre aperti, sul viale a doppio senso che porta fuori città oppure al suo interno. Non si curano delle automobili che sfrecciano. Restano lì perfettamente immobili, dentro la cornice che di solito racchiude l’immagine a colori di qualcosa da comperare. Sono due degli sguardi inseriti da Christian Boltanski nell’installazione diffusa realizzata per “Anime. Di luogo in luogo”, lo speciale progetto espositivo con cui Bologna, durante l’estate 2017, ha reso omaggio all’artista francese divenuto celebre per la sua ricerca sugli oggetti della memoria.( 1)
Quegli occhi sono presi da uno dei tanti ritratti fotografici che compongono il Sacrario dei partigiani, il monumento spontaneo nato per accumulazione sul muro di piazza del Nettuno grazie all’iniziativa di chi amava le donne e gli uomini fucilati proprio lì da fascisti e nazisti, e non si rassegnava ad averli persi. Ricordare qualcuno presentando a tutti gli altri il suo sguardo è una scelta di campo impegnativa. Eccola, sembra si voglia dire: la persona che avevo così cara è tutta qui, come la vedete, e vi guarda negli occhi con una domanda. Per sentirla, però, questa domanda, occorre ascoltare la sua storia, non basta guardare l’immagine.

Chissà se anche Savina Reverberi avrà pensato a Boltanski, o al Sacrario bolognese, quando ha scelto per la copertina del suo libro la foto che riporta il viso di sua madre, Gabriella Degli Esposti. Fatto sta che, a loro volta, gli occhi di una giovane donna ci guardano e riguardano da questa immagine, scuri e profondi. Diritti davanti a sé, con una forza tranquilla che sembra venire da altri tempi.( 2)
Gabriella era nata il primo giorno di agosto del 1912 a Calcara, una frazione di Crespellano poco distante dalla Via Emilia. Finite le scuole elementari, “Balella”, come la chiamano a casa, inizia a lavorare in una fabbrica di salumi. Qui, ancora ragazza, conosce il casaro Bruno Reverberi. Si piacciono e si innamorano, anche perché condividono la stessa passione politica, il sogno del comunismo e del suo ideale di giustizia.
Negli anni Trenta, mentre la dittatura di Mussolini chiude sempre più spazi alla libertà di pensiero e affascina molti italiani con la prospettiva di un impero al di là del mare, i caseifici che Bruno e Gabriella gestiscono insieme diventano punti di raccolta segreti dei dissidenti locali, non solo comunisti, anche liberali, socialisti e cattolici. Negli incontri serali organizzati dalla coppia, a Piumazzo e poi a Riolo, vengono diffusi i giornali clandestini, si rafforza la rete di chi si oppone al regime e si raccolgono fondi per aiutare i prigionieri politici incarcerati nel Forte Urbano di Castelfranco Emilia, molti dei quali di passaggio, in attesa di essere mandati lontano, al confino. La loro casa ne ospita anche alcuni, rilasciati o fuggiti dal Forte; tra questi ci sarà anche Umberto Terracini, futuro presidente dell’Assemblea da cui è nata la Costituzione.
Tutto questo attivismo finisce per dare fastidio. Nella primavera del 1938, Bruno e Gabriella vengono minacciati dal gerarca locale e costretti a lasciare il loro caseificio ad altri gestori, persone di provata fede fascista. Bruno sparisce dalla circolazione per un po’ ma poi ritorna, e in via Larga, a Castelfranco, nel nuovo stabilimento preso in gestione dai due coniugi, tutto continua come sempre. Si fanno burro, formaggio, ricotta e politica.
Nel luglio del ’43, terzo anno della guerra mondiale scatenata da Hitler e Mussolini, Gabriella partecipa in prima fila, con altre donne, a una manifestazione pubblica per protestare contro la scarsità di pane, e si guadagna nuove minacce. Dopo l’8 settembre e la capitolazione dell’esercito italiano, a Castelfranco i fascisti spadroneggiano come non mai, forti della presenza minacciosa dei tedeschi, che ora hanno occupato l’Italia. A questo punto, per trasformare il loro latte, sono costretti ad avere la tessera del fascio. Decidono di smettere l’attività, ma non per questo rinunciano alla lotta. Si impegnano a sabotare in ogni modo il passaggio delle truppe hitleriane. Seminano chiodi sulle strade, spostano cartelli segnaletici, danno assistenza ai partigiani che si vanno organizzando.
Ai primi di ottobre del ’44, quando viene ucciso uno di loro, Roberto Moscardini, il suo cadavere viene appeso per i piedi davanti all’entrata della scuola, perché anche i bambini lo vedano e imparino a rigare diritto. È Balella a farsi avanti per chiedere che il corpo sia sepolto. Qualche giorno dopo, tocca al suo Bruno: viene picchiato a sangue dai soliti ignoti, dopodiché si decide ad andare sulle montagne, verso Montefiorino, dove raggiunge i compagni di resistenza.
Gabriella resta da sola, con due bambine piccole e un’altra creatura in arrivo. Il 13 dicembre, nella loro casa, irrompe un reparto di SS. Sono paramilitari nazisti, fanatici, violenti. Quando le urlano addosso il suo nome e quello di suo marito, Balella raccoglie il suo sangue freddo e risponde che i proprietari di casa non ci sono, che lei è sfollata lì con le piccole, e li convince a cercare in un’altra località. Ma poco dopo le SS ritornano e mettono a soqquadro la casa. Il comandante la picchia senza ritegno davanti alle figlie terrorizzate e la fa portare via.
La rinchiudono nell’Ammasso della canapa, un edificio alle porte di Castelfranco, insieme a molte altre persone, rastrellate come lei su indicazione di alcuni fascisti del posto. Viene torturata, ma non parla. Ogni volta che le portano davanti altri, perché li riconosca come partigiani, finge di non riconoscere nessuno.
Il 17 dicembre del 1944, a Ca’ Nova, nei pressi di San Cesario, Gabriella viene fucilata insieme ad altre dieci persone sul greto del fiume Panaro. È l’unica donna del gruppo. Per le SS merita un trattamento speciale. Prima di finirla le tolgono gli occhi, i seni e la creatura che portava dentro di sé, mai più ritrovata.( 3)

In un paese normale, finita la guerra, Bruno Reverberi e le sue due figlie, Savina e Lalla, avrebbero avuto ciò che spettava loro: giustizia, gratitudine, rispetto. Invece no. Bruno, nel ’46, viene accusato di aver fatto da complice nell’assalto a un deposito di armi e munizioni a Ponte Ronca. Il Partito comunista lo disconosce. L’“Unità”, il giornale che per tanti anni lui e la moglie avevano diffuso a rischio della vita, lo diffama. I magistrati lo chiudono in carcere per più di un anno. Poi lo rilasciano, perché è innocente.
Non basta. Alla memoria di Gabriella viene assegnata la medaglia d’oro della Repubblica italiana, ma a casa Reverberi le 1500 lire annue di indennizzo non arrivano mai perché la legge, fatta per i militari, prevede che l’assegno venga riscosso solo da una vedova, anziché da un vedovo.
E non basta ancora. A Castelfranco e dintorni, gran parte di quelli che li avevano umiliati al tempo delle camicie nere restano tranquillamente dove sono, senza subire conseguenze. In paese, per giunta, si insedia Silvestro Cau, un maresciallo dei Carabinieri che si fa vanto di perseguitare i comunisti con ogni mezzo, anche calcando sulla faccia degli arrestati una maschera antigas imbevuta di acqua salata, in modo da soffocarli.

Ce ne sarebbe a sufficienza per indignarsi, ma non è tutto. Benché fin dai primi giorni della liberazione, grazie alle denunce di Bruno, la magistratura avesse i nomi dei criminali nazisti che avevano massacrato Gabriella, per quasi sessant’anni nessuno li ha chiamati a rispondere. Il fascicolo della strage di San Cesario, infatti, è finito anch’esso nel famigerato “armadio della vergogna”, il mobile girato al rovescio, con le ante verso il muro, scoperto nel 1994 dal giornalista Franco Giustolisi in un archivio della Procura generale militare di Roma. Con centinaia di altri fascicoli che documentano le stragi compiute in Italia dai nazisti era stato “archiviato provvisoriamente”, ossia volutamente occultato, una trentina d’anni prima.
Nel marzo del 2004, finalmente, il Tribunale militare di La Spezia chiama a rispondere dell’eccidio di San Cesario gli ex tenenti Schiffmann e Rüdiger, e gli ex capitani Heidemann e Hinze. La corte, però, può procedere solo contro Johannes Karl Schiffmann, perché gli altri imputati ormai sono morti. È proprio l’uomo che aveva portato via Balella sessant’anni prima, ma all’inizio del processo, ultranovantenne, muore anche lui, dopo avere trascorso una vita indisturbata, tappezziere e poi pensionato in un tranquillo paesino della Bassa Sassonia. Quello stesso anno, due giornalisti tedeschi realizzano un reportage televisivo in cui dimostrano che anche la Germania non ha fatto quello che poteva per abbreviare i tempi. La strage resta per sempre senza colpevoli riconosciuti. 

Da qualche tempo, a Castelfranco, là dove sorgeva l’Ammasso della canapa è stato costruito un ipermercato. Il vecchio edificio è stato demolito. Ma non sono solo le ruspe e il cemento a cancellare le urla che venivano da quelle finestre. Oltre a farsi sempre più flebili man mano che il tempo passa, i lamenti dei seviziati rischiano di essere coperti da altre voci, quelle che negano la realtà o la capovolgono, facendo passare per criminali chi ci ha liberato e da martiri chi li tormentava. È per questo che Savina Reverberi ha pubblicato il suo libro, per raccontare la storia dal suo punto di vista e metterci di fronte agli occhi di sua madre.

Ed è anche per questo che, da più di un anno, a difesa di chi non ha più voce per dire come è andata, la Regione Emilia-Romagna si è dotata di una legge apposita, dedicata alla memoria degli uomini e delle donne che si sono opposti a ogni crimine contro l’umanità e hanno difeso i diritti, il bene comune, la libertà e la stessa vita umana. La legge 3-2016 sostiene con bandi annuali i progetti messi in atto da comuni, istituzioni, associazioni e fondazioni per far conoscere la storia del Novecento, contrastando in modo concreto la tendenza all’oblio e le insidie del negazionismo.( 4)

Quanto siano pericolose queste insidie lo dimostra un caso che riguarda la versione italiana di Wikipedia, una delle fonti online più utilizzate, dai giovani e non solo. Questa risorsa così importante, che si autodefinisce “enciclopedia libera e collaborativa” ed è basata sul contributo volontario di chiunque (anche in forma anonima o sotto falso nome), è da tempo oggetto di analisi,( 5) ma l’indagine pubblicata lo scorso febbraio da “Nicoletta Bourbaki”, un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete e sulle false notizie a tema storico, ha il merito particolare di presentare il problema nella sua concretezza.( 6)
L’evoluzione di ognuna delle voci di Wikipedia può essere letta in controluce attraverso la cronologia degli “edit” con cui gli utenti coinvolti l’hanno redatta, dalla creazione della voce stessa all’ultima modifica apportata. L’indagine di “Nicoletta Bourbaki” segue in modo meticoloso le tracce lasciate dalle decine e decine di contributi di un utente che si nasconde sotto il nome di “Jose Antonio” (uno pseudonimo riferito probabilmente a José Antonio Primo de Rivera, accanito nazionalista, figlio del dittatore che dominò la Spagna dal 1923 al ’30).
Falsando i contesti di partenza, citando come fonti oggettive pubblicazioni di stampo propagandistico, cancellando o edulcorando i misfatti dei fascisti, incolpando i loro oppositori per gli effetti delle rappresaglie sui civili o addirittura calunniandoli ad arte, Jose Antonio mette a segno una precisa strategia: ridurre la complessità della guerra civile che ha dilaniato l’Italia alla parodia di uno scontro tra due bande rivali. Da una parte i rossi, tutti crudeli sovvertitori dell’ordine, dall’altra i neri, tutti innocenti costretti a difendere quell’ordine loro malgrado.
In apparenza Jose Antonio è un utente esemplare di Wikipedia, perché crea nuove voci, modifica molte di quelle già esistenti e associa alle sue affermazioni le necessarie citazioni di appoggio. In sostanza è un falsificatore seriale della storia, un roditore che di Wikipedia rosicchia e ridicolizza uno dei pilastri fondamentali: il “punto di vista neutrale”. Secondo il wiki-pensiero, infatti, un’enciclopedia libera “non adotta in via preferenziale alcun orientamento ideologico ma si propone di affrontare ogni argomento in modo equilibrato, presentando le diverse tesi su di esso con il medesimo rilievo che viene loro riconosciuto dalle fonti attendibili e verificabili”. L’obiettivo è costruire “uno specchio della cultura umana condivisa, non un luogo per dare visibilità a teorie alternative”.( 7)
Il fatto che Jose Antonio abbia potuto agire indisturbato, e persino infangare persone defunte al riparo di un alias, rivela quanto Wikipedia sia esposta alle manipolazioni ideologiche più subdole, con buona pace della “neutralità”. Solo in qualche caso (dove la falsificazione era troppo sfacciata, come nel tentativo di nobilitare il criminale di guerra Rodolfo Graziani) gli anticorpi attivati dagli interventi di altri utenti hanno fatto da argine. Ma resta il fatto che, senza l’indagine del gruppo “Nicoletta Bourbaki”, la tela del ragno sarebbe restata invisibile. E tuttavia il suo veleno resta in circolo, lì dov’è, pronto a colpire chi consulta quelle pagine.

Tutti hanno diritto di esporre il loro punto di vista. Lo aveva (per dire) persino Adolf Eichmann, il criminale nazista che fu tra i principali responsabili dello sterminio degli ebrei e che dopo la guerra, lasciata la divisa da SS per indossare abiti borghesi, fu aiutato da un prelato cattolico altoatesino a fuggire in Argentina, dove visse tranquillo (anche lui) fino al 1960, quando venne catturato dagli israeliani e processato a Gerusalemme. E lo espose senza remore, il suo punto di vista, sia di fronte ai giudici, sia nei suo scritti. Ma anche lui si impegnò sistematicamente nel tentativo di falsificare la storia, travisando i fatti e costruendo un castello di bugie perché il mondo vedesse in lui un agente passivo, la ruota involontaria di un ingranaggio manovrato da altri. Oggi sappiamo che non è così grazie al lavoro implacabile della storica tedesca Bettina Stangneth, che, analizzando la documentazione prodotta dallo stesso Eichmann negli anni argentini e finora poco esplorata, ha rivelato finalmente quale fosse il profondo odio antisemita che in realtà lo muoveva.( 8)

Fatta salva la buona fede, e mai data per scontata, la ricerca della verità storica non è altro che questo: un lavoro maledettamente impegnativo, che richiede tempo e fatica, e che non è mai finito. Per questo forse, al di là di ogni equivocata e impraticabile “neutralità”, l’aspetto più interessante di Wikipedia non è la calma apparente delle sue voci ma il subbuglio confuso da cui nascono, le animate discussioni tra gli utenti per arrivare a qualche punto di condivisione, sempre provvisorio. “Occorre uno sforzo, per controllare. Non ce n’è bisogno, per credere”: lo diceva poco più di un secolo fa Marc Bloch, che del mestiere di storico amava soprattutto il metodo critico, utile per studiare il passato, ma anche per leggere il presente.( 9) Una lettura per cui avere gli occhi non basta. Non basta neanche avere un punto di vista. Non è sufficiente neppure guardare. Bisogna uscire di casa, mettersi in cammino, farsi domande e cercare risposte, senza accontentarsi troppo di quelle già pronte.

Mostra:

Anime. Di luogo in luogo. Christian Boltanski, a cura di D. Eccher, MAMbo - Museo d’arte moderna di Bologna, 26 giugno - 12 novembre 2017, www.anime-boltanski.it

Libro:
Savina Reverberi Catellani, “Gabriella degli Esposti, mia madre”, Modena, Edizioni Artestampa, 2016

Note

[ 1] “Anime. Di luogo in luogo. Christian Boltanski”, a cura di D. Eccher, MAMbo - Museo d’arte moderna di Bologna, 26 giugno - 12 novembre 2017, www.anime-boltanski.it.

[ 2] S. Reverberi Catellani, Gabriella degli Esposti, mia madre. Storia di una famiglia nella tragedia della guerra, Modena, Edizioni Artestampa, 2016: www.artestampaweb.it/scheda&id=415.

[ 3] Insieme a Gabriella Degli Esposti, a Ca’ Nova di San Cesario sul Panaro, vennero fucilati: Sigialfredo Baraldi, Gaetano Grandi, Ettore Magni, Annibale Marinelli, Livio Orlandi, Roberto Pedretti, Dino Rosa, Lucio Pietro Tosi, Ezio Zagni, Riccardo Zagni.

[ 4] Legge regionale n. 3 del 3 marzo 2016, “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”: cultura.regione.emilia-romagna.it/temi/promozione/memoria-del-novecento.

[ 5] Si vedano, tra gli altri: M. Gotor, L’isola di Wikipedia. Una fonte elettronica, in Prima lezione di metodo storico, a cura di S. Luzzatto, Roma-Bari, Laterza, 2010; R. Bianchi, G. Zazzara, La storia formattata. Wikipedia tra creazione, uso e consumo, “Passato e Presente”, XXXV, 2017, 100, pp. 131-156; Wikipedia e le scienze storiche, contributi di T. Baldo, J. Bassi, C. Cenci, I. Pensa, M. H. F. Pereira, N. Strizzolo, “Diacronie. Studi di Storia Contemporanea”, 2017, 29, www.studistorici.com/2017/03/29/.

[ 6] “Nicoletta Bourbaki”, La strategia del ratto. Manomissioni, fandonie e propaganda fascista su Wikipedia: il caso “Jose Antonio”. Prima parte, “Giap”, 21 febbraio 2017: www.wumingfoundation.com/giap/2017/02/la-strategia-del-ratto-jose-antonio-su-wikipedia/; La strategia del ratto, 2a parte. Il caso «Jose Antonio» su Wikipedia: un crescendo di fonti manipolate e falsi storici, “Giap”, 28 febbraio 2017: www.wumingfoundation.com/giap/2017/02/la-strategia-del-ratto-2a-parte/.

[ 7] it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Punto_di_vista_neutrale.

[ 8] B. Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, traduzione italiana di A. Salzano, Roma, LUISS University Press, 2017.

[ 9] M. Bloch, Critica storica e critica della testimonianza (discorso pronunciato al liceo di Amiens, 13 luglio 1914) in Id., Storici e storia, a cura di É. Bloch, traduzione italiana di G. Gouthier, Torino, Einaudi, 1997, p. 13.

 

Azioni sul documento

Elenco delle riviste

    Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna - Cod. fiscale 800 812 90 373

    Via Galliera 21, 40121 Bologna - tel. +39 051 527 66 00 - fax +39 051 232 599 - [email protected]

    Informativa utilizzo dei cookie

    Regione Emilia-Romagna (CF 800.625.903.79) - Viale Aldo Moro 52, 40127 Bologna - Centralino: 051.5271
    Ufficio Relazioni con il Pubblico: Numero Verde URP: 800 66.22.00, [email protected], [email protected]