Rivista "IBC" XXVI, 2018, 3

Le strategie museali per raccontare le odierne migrazioni. Recensione al libro Anna Chiara Cimoli, "Approdi. Musei delle migrazioni in Europa", prefazione di Claudio Rosati, Bologna, CLUEB, 2018.  
Porti aperti

Vittorio Ferorelli
[IBC]

Si sa che gli umani amano creare oggetti, dotarli di significati e poi spostarli in lungo e in largo, come e dove vogliono. Si sa pure che i musei vennero istituiti per trattenere alcuni di questi oggetti e farli sopravvivere, più che al tempo, all’impulso che spinge i “sapiens” a distruggere con altrettanta forza. Ma cosa succede quando a spostarsi in lungo e in largo, come e dove vogliono, sono uomini e donne e bambini, e i musei cercano di trattenere le loro tracce, le loro storie, le loro cose? Da un paio di anni qualche risposta sensata a questa domanda viene dal blog “ Museums and Migration”, creato da Anna Chiara Cimoli e Maria Vlachou per raccogliere le esperienze e le idee prodotte da questo tipo così particolare di istituzioni. Ora le ricerche sul campo di Cimoli vengono raccontate in un libro pubblicato dalla casa editrice CLUEB: si intitola Approdi e fornisce un quadro ragionato dei musei delle migrazioni in Europa.

L’indagine si concentra su sette realtà, selezionate tra le più rappresentative: il MhIC - Museu d’història de la immigració de Catalunya, a Sant Adrià de Besòs, in Spagna; l’Immigrantmuseet, a Farum, in Danimarca; il Deutsches Auswandererhaus - German Emigration Center, a Bremerhaven, in Germania; il Galata Museo del mare - sezione MEM - Memoria e migrazioni, a Genova, in Italia; il Musée national de l’histoire de l’immigration, a Parigi, in Francia; il Red Star Line Museum, ad Anversa, in Belgio; il Muzeum Emigracji, a Gdynia, in Polonia.

Alla descrizione sintetica redatta dalla curatrice seguono brevi testi in cui direttori e operatori raccontano, in prima persona, come è stato costruito ognuno dei musei, quali domande ci si è posti e quali scelte sono state fatte, quali dubbi e quali contraddizioni sono stati affrontati, quali prove e quali errori hanno determinato l’esperienza in atto. L’approccio di Cimoli, infatti, è quello appassionato di chi, preso dal desiderio di esplorare, più che darsi risposte vuole farsi domande. Anche quelle più scomode: servono davvero i musei delle migrazioni? devono suscitare emozioni a ogni costo? che aiuto effettivo possono dare a chi vuole comprendere il nostro tempo? come possono mantenere aperto e intelligente il dibattito sulla realtà, in tempi in cui sembrano prevalere l’ottusità e le chiusure per partito preso?

Assodata l’impossibilità di trincerarsi su posizioni “neutrali”, soprattutto in tempi di caccia al migrante, questi musei, non solo quelli selezionati nel libro, agiscono mettendo in opera strategie differenti. La maggior parte si attesta su un’impostazione storicizzante, narrando le migrazioni in modo lineare, dai porti di partenza a quelli di arrivo, mettendo in mostra oggetti-simbolo (le immancabili valigie) ed estraendo dalle storie collettive alcune biografie significative: tutto per suscitare l’empatia del visitatore, che in qualche caso, insieme al biglietto di ingresso, riceve il facsimile di un passaporto, così da potersi “sentire migrante”. Una porzione minoritaria fa volentieri a meno di effetti speciali (a volte fa a meno anche degli oggetti) ma tenta di osare di più, cercando di interpretare “qui e ora” anche l’effetto attuale delle migrazioni in entrata, laddove chi arriva, di un passaporto reale, è per lo più sprovvisto.

Per qualsiasi operazione di questo genere, tuttavia, il rischio più grande sembra sia la retorica, con la sua tentazione di imbalsamare il passato o di imbellettare il presente, togliendo in ogni caso ossigeno al dibattito. Come è accaduto a Lampedusa, dove nel 2016 la grande mostra che avrebbe dovuto preludere all’altisonante “Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”, con l’arrivo in pompa magna di opere d’arte prestigiose (persino un Caravaggio), ha lasciato in molti una spiacevole sensazione di tanto rumore per nulla, mentre a poca distanza, con tutta la forza della loro evidenza muta, c’erano gli oggetti appartenuti ai migranti, raccolti dal “cimitero dei barconi” ed esposti dal collettivo “Askàvusa”. La mostra è finita, il museo non si è più fatto, la raccolta di “ Porto M” invece è ancora lì e continua a raccontare in silenzio le sue storie.

Anche l’autoreferenzialità, di per sé dannosa, secondo Cimoli in questo ambito può rivelarsi letale. Di conseguenza la sua indagine si apre ai contributi di altri sguardi, anche extramuseali. Voci provenienti dall’antropologia, dal giornalismo di reportage, dal cinema e dalla narrazione contribuiscono ad allargare l’orizzonte della museografa. E del resto, a suo giudizio, è proprio fuori dalle sale museali che si sviluppano spesso i progetti più innovativi ed è con queste realtà che occorre fare rete per restare vivi, siano scuole, centri di accoglienza, spazi pubblici, condomini, edifici abbandonati od occupati.

“Non sarà un museo a fermare le morti in mare;” − avverte la ricercatrice − “non basterà, da solo, a formare le coscienze politiche degli elettori; non metterà in bocca le parole giuste per far sentire a proprio agio i minori non accompagnati, a volte sperduti e traumatizzati. Ma potrà contribuire a renderci più capaci di ascoltare e a mettere in dubbio le nostre certezze”. Dedicato a chi sa andare incontro agli altri senza paura, il libro prova a introdurre nel luogo sacro delle muse una musa ulteriore, votata al dubbio, stimolata dai fenomeni complessi e niente affatto timorosa delle posizioni scomode.

 

Libro:
Anna Chiara Cimoli, Approdi. Musei delle migrazioni in Europa, prefazione di Claudio Rosati, Bologna, CLUEB, 2018.

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