Rivista "IBC" XXVII, 2019, 1

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Recensione a "La längue di änżal" [La lingua degli angeli] di Stefano Rovinetti Brazzi.
La lingua degli angeli

Ivan Orsini
[IBC]

 

Se l’ultima raccolta di liriche da noi recensita, quella di Nevio Spadoni, regala un tripudio di immagini, cifra del suo universo poetico, questo libretto (gli si addice il diminutivo solo per il numero di pagine) di Stefano Rovinetti Brazzi si propone invece in una veste assai parca di visioni e parole.

L’autore, professore di latino e greco al liceo “L. Galvani” di Bologna e presidente del comitato regionale per la salvaguardia e valorizzazione dei dialetti dell’Emilia-Romagna, a nostro modo di vedere si è inserito in una linea poetica di ispirazione cattolica che può vantare per il Novecento insigni esponenti quali Carlo Betocchi, David Maria Turoldo e Clemente Rebora. A differenza di costoro, egli ha scelto il dialetto per dare voce alle proprie ansie ed interrogativi che accomunano pressoché tutti noi.

Il lessico adottato ‒ come dicevamo ‒ è volutamente circoscritto: il percorso di riflessione compiuto e condiviso con i lettori presenta una progressione verticale, in profondità, perché è nel profondo di se stesso che cerca non tanto delle risposte, quanto piuttosto un dialogo con il Signore, e il dialetto è percepito come il mezzo più diretto e naturale per questo dialogo, in quanto lingua dell’intimità domestica e cassa di risonanza della propria interiorità.

Uno dei temi principali, che ritorna in modo coscientemente ossessivo, è il silenzio. Ci sembra che esso sia percepito come il momento, diremmo quasi il luogo della meditazione, del ritorno a Dio e della stessa epifania divina in questo mondo. Il silenzio di cui parla il nostro autore ha un ruolo primario nella sua poetica e, sotto questo profilo, è realtà paragonabile a quella di altri poeti, tra cui ricordiamo la grande poetessa transilvana Emese Egyed (1956), per la quale il silenzio, lungi dall’essere un “tempo morto”, è l’istante in cui l’anima in certo qual modo vive più intensamente, affronta una palingenesi emotiva e spirituale che le dona lo slancio energetico per la vita a venire. Nelle poesie qui presenti il silenzio appartiene a segmenti temporali brevi, prima e dopo dei quali incombono il vociare e il rumore del quotidiano che concorrono a cadenzare ciò che costituisce l’elemento centrale nell’esistenza nostra e di tutto il creato: il tempo inesorabile. Quest’ultimo trascorre e si porta via cose e, soprattutto, persone. Certo, di esso emerge dalle parole del Nostro un’impressione negativa, ma l’amarezza è fugata da una inaspettata vena di rassegnata ironia nel momento in cui, in “Poesî, l etêran in dŏu parôl [Poesia, l’eterno in due parole]” (pagg. 30-31), definisce il tempo come “un chèlz dl etêran ind i marón [un calcio dell’eterno nei marroni]”. Si prospettano soltanto due rimedi al vortice dell’oblio: il ricordo dei defunti e la parola:

 “Ai pâse incôse / mo mé a vádd, a m arcôrd e a c’cŏrr / e in quáll ch’a dégg an i é pió al tänp
[Tutto passa / ma io vedo, ricordo e parlo / e in quel che dico non c’è più il tempo.]” (pagg. 10-11)

 Come abbiamo visto, si tratta non della parola scritta ma di quella parlata: sembra capovolgersi così la famosa massima latina “verba volant / scripta manent”. Non ci pare una preferenza anomala, perché ciò che qui importa all’autore non è la testimonianza del passato ma la ricerca di un approdo sicuro, al riparo dal flusso ininterrotto del tempo. Il ponte degli affetti con chi non c’è più salva dal disorientamento e ci offre una prospettiva di vita, ci affida una direzione cui tendere.

Compare poi, seppur in modo sporadico, la coppia dicotomica luce/tenebre, che in “Ste silänzi pén ad sŏul [Questo silenzio pieno di sole]” (pagg. 20-21) trova forse la sua interpretazione migliore nei termini: presenza del Signore / assenza del Signore.

Infine, colpisce la scelta del nostro di ritornare sui propri passi riproponendo talora qualche immagine o addirittura qualche verso precedentemente comparsi nel libro, come se si volesse evidenziare l’importanza di determinati concetti e il lavoro di rifinitura dentro al proprio laboratorio creativo.

Concludiamo con un plauso a questa raccolta poetica, esile ‒ come già detto ‒ per il numero delle pagine ma notevolissima nell’impatto emotivo che suscita nel lettore.

Volume:

Stefano Rovinetti Brazzi, La längue di änżal [La lingua degli angeli]. Poesie, Bologna, 2018. 

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