Rivista "IBC" XXVII, 2019, 2

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / interventi

Tempo, storia e tradizione cristiana nel pensiero di Agostino di Ippona
Alle origini del patrimonio

Erio Castellucci
[Arcivescovo di Modena]

Le tre nozioni di tempo, storia e tradizione sono alla base dell’idea di un patrimonio cristiano e trovano in Sant’Agostino uno degli interpreti più originali e seguiti. Il vescovo di Ippona non svolge una riflessione specifica sul patrimonio così come oggi noi lo intendiamo, ma ne pone le fondamenta riflettendo, appunto, sul tempo, la storia e la tradizione. Propongo una riflessione, innestata sui testi del Santo, attorno ai tre concetti che il titolo propone, appunto: tempo, storia e tradizione cristiana – con una premessa sul termine “patrimonio”. 

Patrimonio
La parola “patrimonio” nelle opere di Agostino ricorre alcune decine di volte, in una trentina di testi diversi, coprendo l’arco semantico che va dal significato materiale – i beni, che siano ingenti (cf. De Civ. Dei IV,3) o pochi e miseri (“patrimonium enim viduae modicum erat farinae et modicum olei”: Sermo 11,2), l’eredità (cf. Enarr. in Ps. 36,4), con frequente riferimento al Vangelo (cf. Sermo 86,11,12; Sermo 107,1,2; Enarr. in Ps. 49,13), soprattutto al figlio minore della parabola di Lc 15,11-32 (cf. Sermo 179/A,4; Sermo 112/A,12) la salute (“pauperis patrimonium sanitas est”: Sermo 359/A,6; così anche in Sermo 41,4, Sermo 306,4,4, Sermo 374 augm., 5; Enarr. in Ps. 51,14; Enarr. in Ps. 76,2) – all’insieme dei beni della sapienza e della filosofia (cf. Contra Acad. III,10,23), alla fede (“patrimonium fidei”: Enarr. in Ps. 123,9), all’innocenza (cf. Enarr. in Ps. 36,15), fino alla vita eterna, intesa come eredità eterna (cf. Sermo 286,6,5), “patrimonium regni coelorum” ( Sermo 294,6,6), “coeleste patrimonium” ( Enarr. in Ps. 139,7 e Sermo 293,10), che coincide con Dio stesso, nel quale ogni bene trova il suo compimento: “a Deo nunquam recedamus. Patrimonium nostrum ipse sit, spes nostra ipse sit, salus nostra ipse sit” ( Enarr. in Ps. 55, 20). E ancora, rivolto ai cristiani, chiede perché si preoccupino; infatti: “Habetis patrem, habetis patriam, habetis patrimonium” ( Enarr. in Ps. 84,9).

In definitiva, dunque, Agostino usa il termine “patrimonio” in diverse sfumature, mostrando di averne ben presenti il senso fondamentale e le sue possibili applicazioni. L’etimologia rimanda chiaramente al termine “pater” e, per molti, il suffisso “monium” richiama la parola “munus”, ossia compito. L’accumulo del patrimonio era infatti, nelle antiche culture e da alcune parti fino ad oggi, un compito del padre attraverso il lavoro. Alla madre invece era assegnato il compito di mettere al mondo i figli ed allevarli: di qui il termine “matrimonio”. Entrambi i termini, patrimonio e matrimonio, fanno dunque riferimento implicito al tempo e alla tradizione: il patrimonio si accumula nel tempo proprio per assicurare un futuro ai discendenti, ai quali viene trasmesso (“traditus”); e il matrimonio, dando vita alla famiglia, favorisce la continuazione delle generazioni nel tempo. Ecco perché già la semplice parola “patrimonio”, al di là delle possibili applicazioni – beni materiali, salute, cultura, fede… vita eterna – rimanda al tempo, alla storia e alla tradizione.

Tempo
Inoltrarsi nella riflessione agostiniana sul tempo, che come sappiamo occupa buona parte degli ultimi tre libri delle Confessioni, richiederebbe… tempo, ma soprattutto pazienza e competenza. Mi limito a qualche pennellata che spero colga alcuni nodi importanti della questione. Considerando complessivamente la nozione agostiniana del tempo, emergono quattro accezioni fondamentali: psicologica, fisica, morale e storica.

Al tempo psicologico Agostino dedica una densissima sezione del libro XI delle Conf. (11,14,17 – 11,28,38). Alla ricerca di una definizione di “tempo”, Agostino arriva ad una famosa sentenza così riassumibile: se non ci poniamo la domanda su cosa sia il tempo, sappiamo cos’è; se ci poniamo la domanda, non sappiamo più cos’è. Investigando però la natura del tempo, a partire dall’esperienza che ne fa la nostra mente, possiamo dire che apparentemente ha tre dimensioni – passato, presente e futuro – ma che in realtà ne ha solo una: esiste come presente. Il passato infatti non esiste più in quanto passato e il futuro non esiste ancora in quanto futuro; tuttavia sono entrambi pensabili e lo sono nel presente. Ma nel momento in cui si volesse fissare il presente e dargli una precisa consistenza, ci si troverebbe in difficoltà, perché è già passato ed è entrato nel futuro. D’altra parte, se l’uomo vivesse in una sorta di presente continuo, sarebbe già nell’eternità, che non ha passato e futuro.

Per evitare di perdersi in questo rompicapo teoretico, alla fine Agostino decide di affidarsi all’esperienza – è interessante questo passaggio dalla speculazione induttiva, che porta ad aporie insolubili, alla induzione empirica – e di definire finalmente il tempo come “distensione dell’anima”. L’esperienza a cui il Santo fa riferimento non è dunque semplicemente il contatto con le cose, la lettura dei fenomeni esterni, ma l’introspezione, la “psicologia”, cioè lo studio dell’anima intesa come mente aperta a Dio e al mondo. Agostino richiama le immagini della sua fanciullezza, per dire che il passato esiste nella memoria presente; e il futuro esiste come eventualità del presente, come progetto attuale che non si è ancora realizzato. Tutte e tre le dimensioni del tempo sono dunque in qualche modo aspetti del tempo presente: uno, appunto, come presente, un altro come ri-presente (la memoria non è altro che presente del passato) e il terzo come pre-presente (il futuro non è altro che l’attesa del presente). Qui dunque, nell’anima, Agostino trova il vero “orologio”: non tanto gli astri con i loro movimenti, ma le tre capacità interiori dell’uomo: memorizzare, fissare e attendere.

Il tempo fisico, per il vescovo di Ippona, è fondato sulla mutabilità delle cose materiali e sul movimento degli astri (cf. Conf. 12,11,14). Come accennato, non sono però gli astri a creare il tempo, ma è il tempo creato da Dio e innestato nell’animo umano a misurare gli astri. Questi, a loro volta, con i loro movimenti regolari, restituiscono all’uomo il senso di un ritmo e costituiscono quasi un “orologio cosmico”. Diverso sarebbe se gli astri – Agostino pensa specialmente al movimento (apparente) delle stelle – si muovessero in modo irregolare e casuale. Ma poiché Dio ha creato il mondo con un ordine, gli astri segnano il corso del tempo: il sole scandisce le ore del giorno e le stagioni, la luna i mesi, le stelle il tempo della notte. Per Agostino è evidente che il tempo viene creato da Dio insieme al mondo e che non ha senso la domanda su cosa facesse Dio prima di creare il mondo, perché suppone che vi fosse un “tempo” prima dell’origine del mondo, ossia che sussista un tempo in Dio. Ma Dio è l’eterno. Il tempo dunque inizia con la creazione del mondo (cf. Conf. 11,12,1,4; 11,13,15; De Gen. ad Litt. 5,5,12). Utilizzando anacronisticamente le categorie di Einstein, potremmo dire che per Agostino non nasce prima il tempo e poi lo spazio o viceversa, ma che nasce insieme lo spazio-tempo.

Il tempo morale rappresenta un terzo aspetto della questione. È nota l’insistenza con la quale Agostino presenta l’azione del peccato nel mondo, riferendosi alla sua origine nella narrazione di Adamo ed Eva e coniando lui stesso l’espressione “peccato originale”. Buona parte della sua polemica teologica si gioca contro i pelagiani, i quali negavano la realtà storica di un peccato che invece, per Agostino, si “trasmette” di generazione in generazione. Non è un semplice “cattivo esempio”, ma una vera e propria corruzione della natura umana, che la rende una “massa damnata”. Agostino formula una definizione di peccato anche in relazione alla categoria di tempo: il peccato consiste essenzialmente nell’orgoglio e nell’auto-esaltazione, che illude la persona, facendole dimenticare che essa è mortale, è un essere temporale e che solo Dio è eterno (cf. De Civ. Dei 14,13). Ma Dio si innesta in maniera meravigliosa in questa tendenza umana, entrando lui stesso nel tempo e portandovi il flusso dell’eternità. Il Verbo eterno si fa uomo nel tempo; lui, il Verbo attraverso il quale il tempo è stato creato, entra nel tempo per rimetterlo in ordine, assegnando agli uomini, esseri temporali, una vocazione eterna (cf. Enarr. in Ps. 101,2,18).

Il quarto aspetto del tempo, che si potrebbe definire tempo storico, ci porta direttamente a trattare della storia nel pensiero di Agostino. 

Storia
Il tempo storico si distende per il vescovo di Ippona lungo sei grandi epoche, da lui desunte dalla Bibbia: da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da Abramo a Davide, da Davide alla Cattività babilonese, dalla Cattività babilonese alla venuta di Cristo, da Cristo alla fine del mondo (cf. Gen. adv. Man. 1,23.35-40). Conformemente alla visione biblica Agostino adotta quindi una concezione lineare del tempo, distanziandosi esplicitamente dalla concezione ciclica degli stoici, che a suo parere cancella l’unicità e irripetibilità dell’evento di Cristo (cf. De Civ. Dei 12-14). Il divino greco, che Agostino aveva conosciuto e approfondito nei suoi studi filosofici e letterari, tende a identificarsi con il fato: un volere impersonale e ineluttabile. Come una ruota che gira, il destino macina tutto: cosmo, vicende umane, decisioni degli dèi. È certo l’esperienza religiosa essenzialmente legata alla natura e ai suoi ritmi – cicli degli astri e delle stagioni – a determinare nei greci questo approccio ciclico al divino. La Moira di Omero e dei tragici, le Parche o la Dike di Esiodo, il logos stoico e in un certo senso anche la pronoia platonica, convergono in quest’unica caratteristica di fondo: il divino è una forza ineluttabile, un destino che in ogni caso si compirà. Se rimane un residuo di libertà umana, consiste unicamente nella scelta di seguire volentieri o malvolentieri ciò che comunque accadrà: così Cleante e Seneca. È difficile trovare un punto di maggiore distanza rispetto alla visione religiosa biblica, dove Dio progetta ma non impone, esprime la sua volontà ma lascia agli uomini la facoltà di accoglierla o meno. L’esperienza biblica di Dio, pur comportando una mediazione del cosmo – inteso come “creato” – passa essenzialmente attraverso la storia: Dio interviene negli avvenimenti più che nei cicli naturali, si fa presente e offre la salvezza attraverso i fatti che accadono. Perciò il mondo biblico rompe la ruota del destino ed apre invece la rischiosa partita della libertà: ciò che accade non è il risultato delle ineluttabili decisioni divine, ma della relazione tra un Dio libero e un’umanità libera. Il Dio ebraico accetta il rischio della libertà.

Agostino non è uno storico, ma è uno dei più grandi teologi della storia. L’imponente lettura da lui offerta nel De Civitate Dei, a partire dal dramma dell’invasione di Roma da parte degli Unni nel 411 – che sembra far crollare l’Impero romano – è la testimonianza più grande della concezione storica del vescovo di Ippona. Per lui l’insieme della storia è segnato dalla lotta tra due grandi città, la città terrena e la città di Dio (cf. 15,1): la città terrena prende forma dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio e la città celeste dall’amore di Dio fino al disprezzo di sé (cf. 14,28 : “Fecerunt itaque civitates duas amores duo: terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, coelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui”).

La storia universale fa dunque perno sul criterio dell’amore. Vi sono pagine bellissime, nelle quali Agostino contrappone l’arroganza dei membri della città terrena, che sembrano prevalere e vincere, alla mitezza dei membri della città di Dio, i piccoli che sanno amare e perdonare. È importante sottolineare – contro alcune interpretazioni troppo rapide – che le due città non si identificano rispettivamente con la Chiesa e con il mondo. Agostino non è un manicheo, neppure nella sua visione della storia. Chiesa e mondo, pur essendo caratterizzati e distinti, per lui comprendono entrambi membri della città celeste e della città terrena; in altre parole, bene e male, amore e arroganza, sono presenti sia nella Chiesa sia nel mondo. Con il principio dell’ amor o caritas, Agostino trova una chiave interpretativa unitaria di tutta la storia, che fonda anche la sua idea di “tradizione”.

Tradizione
Agostino sa bene che non tutto può essere trasmesso alle generazioni successive. Gran parte del passato, afferma, non viene ricordato e non può essere nemmeno più documentato. Come accennato, per lui la storia non è ciclica ma lineare, poiché agli eventi storici corrispondono giudizi liberi (cf . De Civ. Dei 5,10). Non è dunque possibile formulare in relazione agli avvenimenti storici delle leggi, come avviene invece per gli accadimenti cosmici. Questi due dati – la consapevolezza parziale del passato a causa della frammentarietà delle fonti e la libertà umana che rende originali e imprevedibili le scelte storiche – fanno sì che non sia possibile raggiungere una vera e propria teoria della storia e che, quindi, la tradizione aggiunga elementi di novità e originalità.

Agostino ricorda l’etimologia latina di “traditio”, che significa “trasmissione, consegna”. È importante per il nostro tema un’applicazione particolare che lui fa della “traditio”, poiché riguarda proprio il patrimonio culturale, quando parla dei codici. Il vescovo di Ippona, geniale interprete delle Scritture, è attentissimo alla corretta conservazione e trasmissione dei codici: in questo senso la corretta “traditio” è la consegna fedele dei codici ai posteri; per questo essi vanno tenuti al sicuro (cf. Contra Faust. 33,6), conservati con cura e copiati scrupolosamente, senza commettere volontariamente errori o inserire variazioni; arriva a dire che l’atto di distruggere un codice della Scrittura provoca l’ira divina (cf. Epist. 76,4). Evidentemente Agostino è preoccupato non solo della conservazione, per così dire, della carta, ma della conservazione della fede, il cui deposito – la “tradizione”, appunto – non può essere adulterato. Ma è interessante che colga questo legame stretto tra il patrimonio documentario e il patrimonio dottrinale: ciò che lo avvicina ad una delle condizioni della scienza storica oggi universalmente riconosciute, ossia la ricostruzione delle fonti nella maggior fedeltà possibile all’originale. In fondo questa fu l’ispirazione che guidò tanti monasteri medievali – non dimentichiamo che Agostino fondò anche una vita monastica – e che si estese, provvidenzialmente, anche ai codici profani, permettendo così la conservazione e la trasmissione dell’immenso patrimonio classico – che gli amanuensi ricopiavano fedelmente, talvolta senza nemmeno capire alcuni passaggi – tramandato agli umanisti e poi ai contemporanei.
L’attenzione ai codici, poi, è al centro di una seconda applicazione agostiniana della “traditio”, la quale ha a che fare più con il tradimento che non con la tradizione. Il vescovo di Ippona ricorda che, sotto persecuzione, alcuni cristiani e gruppi di cristiani nell’Africa del Nord, verso la fine del III sec., caddero nella traditio codicum, consegnando purtroppo i codici delle Scritture ai nemici della fede, che li distrussero e li bruciarono. Agostino li chiama, appunto, “traditores”, cioè coloro che trasmettono e tradiscono insieme. E, quasi giocando con i termini, suggerisce che i “traditores” dei documenti e del patrimonio cristiano sono anche “traditores” della fede (cf. De Bapt. 7,2,3).

A questo punto possiamo brevemente riallacciare i fili del robusto e raffinato tessuto agostiniano. Il patrimonio, ossia le ricchezze trasmesse da una generazione all’altra, arricchisce la memoria del passato che sostanzia il tempo presente e prepara il futuro; è un movimento, quello del tempo e della storia, che percorre tutta la vicenda umana nelle sue grandi epoche, da Adamo alla fine del mondo, registrando una costante lotta tra bene e male, tra amore di sé (peccato, egoismo) e amore di Dio ( caritas). La storia non è fatta dai potenti e dai violenti, ma dagli umili e da coloro che amano. Al centro della storia si colloca l’evento di Cristo, Verbo eterno che scende nel tempo dell’uomo per recuperare la possibilità della creatura di incontrare nuovamente il Creatore. Il senso della storia, che ha Cristo al centro, non è di ripetere continuamente se stessa (concezione ciclica), ma di camminare verso il regno di Dio, la città di Dio realizzata (concezione lineare). La Scrittura è il grande libro che interpreta la storia umana: e come tale va “consegnato”, attraverso una fedeltà piena, alle generazioni future: fedeltà che implica conservazione e trasmissione rigorosa dei codici biblici, vero e proprio patrimonio dell’umanità.

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