Rivista "IBC" XXVII, 2019, 3
musei e beni culturali / linguaggi
Com’è cambiato il lavoro di un giornalista che in redazione si è quasi esclusivamente occupato di argomenti culturali? Come si sono trasformate le riviste specializzate, i programmi radiofonici, la divulgazione stessa? E cosa, invece, non può e non deve mutare? Sono le domande poste, in un incontro promosso il 13 ottobre scorso dal Festival del Mondo Antico di Rimini, durante la tavola rotonda alla quale ho preso parte con Sergio Valzania, Marino Niola, Andreas M. Steiner: Il mestiere del giornalista tra passato e presente. Pagine di quotidiani, riviste, etere. Esperienze a confronto su come sono mutate la comunicazione e la divulgazione della cultura.
Ho lavorato per oltre trent’anni come giornalista per Repubblica, prima come redattrice e poi al deskalla redazione di Bolognascrivendo di cultura e spettacolo per le pagine nazionali.
Ho sempre pensato al lavoro in redazione come ad un lavoro al tempo stesso individuale e parte di un collettivo che riunisce colleghi redattori e collaboratori esterni, come in una grande cucina, o in un impianto idraulico. In entrambi i casi si ha a che fare con la preparazione, la distribuzione e la somministrazione. Si ha a che fare con la selezione: nel flusso di notizie e argomenti che scorrono lungo la giornata, solo una parte viene distribuita sul giornale, somministrata ai lettori. La selezione è un esercizio a un tempo arbitrario e a un tempo statistico. Siamo tenuti alla cura degli ingredienti o dei materiali, alla competenza nel trattarli e nel combinarli, alla risoluzione dei problemi, e naturalmente alla soddisfazione del cliente. Si scrive per il lettore, e l’obiettivo è far leggere dall’inizio alla fine quello che si pubblica.
Nel corso di tre decenni è cambiata la cucina, è cambiata l’idraulica, sono cambiati i giornali. La contrazione degli spazi sulla carta e del numero di giornalisti, cui fa da contraltare la contrazione del numero dei lettori ‘della carta’, è un fatto. E naturalmente, negli ultimi anni, siamo stati e siamo ancora testimoni e partecipi di una dilatazione immensa dell’informazione digitale, della comunicazione e della critica in rete, che include piattaforme istituzionali, giornalistiche, social network.
Oggi si chiede a un redattore di possedere gli strumenti per intervenire sulla carta e sul web, attraverso linguaggi diversi. Può essere esaltantema certamente è faticoso, in ogni caso non si può più farne a meno. L’informazione giornalistica non è qualcosa di dato una volta per tutte.
Jerry Saltz, Premio Pulitzer per la critica d’arte 2018, una delle voci più autorevoli della scena statunitense e con un milione di followers su diversi social media, scrivendo sul New York Magazine si definisce "un critico folk". I social media hanno cambiato la struttura dell’informazione, e ancor più della critica, che da verticale, diciamo così,è diventata orizzontale: espone il critico tanto quanto il soggetto criticato. Ma amplia enormemente la platea dei lettori. E delle lettrici.
Non ci si batterà mai abbastanza affinché il mondo che prende forma dalle pagine di carta e dalle edizioni digitali non sia un mondo monocromaticamente maschile. Non è una questione di bandiera di genere, bensì una constatazione di giustizia. Il pubblico femminile rappresenta la maggioranza dei ‘fruitori’, usiamo questa parola orribile, di cultura: è la maggioranza degli abbonati alle stagioni di teatro e di musica, è la maggioranza dei lettori di libri, è la maggioranza dei visitatori delle mostre e dei musei. È la maggioranza del microazionariato diffuso dell’industria e delle iniziative culturali. Pochissimo rappresentato nei consigli d’amministrazione.
Non ho la certezza che per un giornale, nel settore del patrimonio culturale, materiale e immateriale, i maestri siano fondamentali più che in altri settori, come la cronaca o la politica. Ma io ritengo di sì.
In Emilia-Romagna non si sarebbe potuto scrivere di patrimonio culturale se figure come Andrea Emiliani, Ezio Raimondi, Anna Ottani Cavina, Eugenio Riccòmini non ci avessero guidato, anche a distanza, anche senza saperlo.
In un libro a mio parere bellissimo, Mai più senza maestri (il Mulino, 2019), Gustavo Zagrebelsky definisce la funzione culturale come una funzione di durata che implica, dunque, una trasmissione e una ricezione. Definisce inoltre il maestro, il vero maestro, come “un irregolare, fuori dalle regole”, estraneo al conformismo. “È un critico, uno che mette a nudo, un provocatore che attraverso connessioni nuove, unioni di tempi, di luoghi, di pensieri, di storie, di persone, crea continuità, contiguità, ma anche divisioni, rotture: non, però, per il gusto delle macerie”.
La funzione di un giornale, anch’essa una funzione di durata nonostante l’istantaneità del suo farsi, è anche quella di riconoscere i maestri, e i nuovi maestri, nel succedersi delle generazioni. I giornalisti sono dei tecnici, possono essere degli esperti, hanno competenze tecniche ma non esercitano un magistero. Il loro compito è scovare i maestri, e sostenere la loro voce. “Mai più senza maestri”.
E poiché un magistero è anche, o soprattutto, concretezza di pensiero, nello scrivere e dunque informare sul patrimonio culturale è stato e rimane fondamentale il rapporto con associazioni come Italia Nostra, come il Fai.
Ha scritto Mary McCarthy in Vivere con le cose belle che “Se la bellezza è buona a qualcosa, allora è un qualcosa di misterioso su cui oggi non riusciamo a mettere il dito. Oppure non è buona a nulla. È inutile. Questo potrebbe spiegare perché la stiamo lasciando sparire con così scarso rimpianto” (1974). Associazioni come Italia Nostra, come il Fondo per l’Ambiente Italiano dimostrano che la bellezza non è “buona a nulla”, né va lasciata sparire con così scarso rimpianto.
La cosa straordinaria, impagabile, dell’occuparsi di patrimonio culturale è che esso costituisce una casa comune in cui si trovano stanze e risuonano saperi diversi: i libri, la poesia e la narrativa, l’arte del passato e contemporanea, la musica, il teatro, le biblioteche, i musei, la conservazione dell’antico, il tessuto storico urbano, l’eredità paesaggistica. Se c’è una lezione che non può essere dimenticata, in nessun senso, è la lezione di Claudio Abbado, che ha irradiato questa regione da Reggio Emilia a Ferrara e Bologna. Lo rivedo, poco prima di un concerto al Teatro Comunale di Ferrara, il teatro che oggi porta il suo nome, sostenere la necessità del recupero del tessuto dei teatri storici, non solo in forza di un imperativo di tutela e conservazione, ma perché essi stessi rappresentano uno strumento vivo della musica, parte di una grande orchestra materiale e immateriale connaturata alla letteratura musicale. Con la stessa convinzione sosteneva la necessità di costruire nuovi teatri, nuovi strumenti della musica. Non c’era e non c’è contraddizione. Lo ricordo quando pose come condizione per il suo ritorno sul podio alla Scala di Milano, nel 2009, che il Comune piantasse 90mila alberi. Non era un argomento ovvio, all’epoca. I temi ambientalistici, l’emergenza climatica erano argomento di pochi, e spesso dileggiati. Oggi sappiamo che piantare alberi è la nostra salvezza. Ci sono maestri che hanno il dono, la straordinarietà, di guardare veridicamente più lontano, e Claudio Abbado, nonostante detestasse essere definito o interpellato come tale, lo è stato. Seguire il loro sguardo non sarà mai soltanto un dovere professionale, sarà sempre anche un privilegio.
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