Rivista "IBC" XXVII, 2019, 3
Dossier: Il Sistema Museale Regionale
musei e beni culturali, biblioteche e archivi / interventi
Il patrimonio culturale è storicamente inquadrato da definizioni giuridiche, soprattutto in Italia: 'cose' e 'beni' popolano gli articolati legislativi dal XX secolo. Al di là del bisogno di stabilizzare concetti e oggetti, tuttavia, non molta attenzione, di solito, viene riservata alla temperie culturale in cui il patrimonio, indipendentemente dalla norma, si trova calato. E non tanto (o non solo) dal punto di vista istituzionale: poiché il patrimonio è strettamente avvinto alla percezione della "memoria culturale" ( 1), lo "stato di salute" di questo dispositivo biologico e sociale, le sue evoluzioni così come le sue patologie non sono ininfluenti sulla percezione di che cosa sia, in effetti, il carico materiale e immateriale da portare con noi verso il futuro.
Si vive in un’epoca fortemente autocentrata, nonostante l’apparente allargamento d’orizzonti indotto dagli strumenti di comunicazione della globalizzazione. Già nel lontano 1976, Tom Wolfe, in un saggio pionieristico e assai discusso, The 'Me' Decade, si era soffermato a descrivere l’incipiente "età del narcisismo" ( 2). Il narcisista 'culturale', ai suoi occhi, era colui che aveva perduto "l’antica fiducia umana nell’immortalità seriale": non sentendosi vincolato ad una catena generazionale, non sentiva il problema di raccogliere eredità provenienti dagli antenati, né era assillato dalla preoccupazione di lasciare qualcosa ai posteri. Lo schiacciamento sul presente, un processo ben noto agli studiosi già dagli anni Ottanta − Novanta ( 3), era l’effetto immediato di questo restringimento di visuale. Ulteriore corollario: l’autodeterminazione assoluta, affermata dal narcisista come esigenza di uno "spazio vitale" non negoziabile, avrebbe spinto verso una inevitabile privatizzazione del tempo. Ciascuno, in altre parole, avrebbe finito per voler gestire il proprio in via del tutto autoreferenziale. Da qui sarebbe derivato il senso dell’eterno presente in cui viviamo e la percezione costante di non avere tempo, che comincia fin da bambini e che si dilata fino a toccare livelli inusitati di frenesia e di frustrazione da adulti.
Ma perché soffermarsi su queste considerazioni? Perché a far le spese della presentificazione sono in primo luogo le istituzioni create per sopravvivere nel tempo alle generazioni: gli oggetti custoditi da biblioteche, archivi e musei. L’obsolescenza di questi contenitori, salvo i casi di maggior successo, non sta solo nei processi di degrado materiale delle cose, se non vi sono risorse e non le si restaura; sta nell’invecchiamento che li ha colpiti a causa di una condizione umana tutta sbandata sul 'qui e ora'. Ciò contribuisce a spiegare perché è più facile trovare fondi per l’attività puntuale di un museo (una mostra) che per la ben più decisiva attività di mantenimento (catalogazione, restauro, deposito, ecc.).
La percezione del tempo, quindi, sta cambiando in fretta. La stessa Storia, come disciplina, è sempre più difficile da insegnare, venendo meno la struttura prospettica che, per secoli, ha collocato l’individuo all’interno di un flusso − cumulativo o disgiuntivo che fosse − scandito, anche biologicamente, dalla sequenza passato/presente/futuro. I mutamenti generazionali (
4), indotti da tale nuova articolazione del tempo, hanno influito sulla percezione del patrimonio. In che senso? I segnali sono in apparenza contraddittori, ma in realtà ben connessi fra loro.
In primo luogo, rispetto al 'patrimonio selettivo' di una volta, destinato a durare in ipotesi per sempre, assistiamo ad una crescente 'patrimonializzazione' di cose, oggetti virtuali, pratiche: un nuovo 'paesaggio patrimoniale', molto dipendente dal contesto sociale puntuale. La variabile "distanza temporale", decisiva, come scriveva Pomian (
5), per capire se una tal cosa, decaduta dal suo uso originario e abbandonata, potesse essere recuperata e risemantizzata per i posteri, per l’intrinseco "valore di civiltà". La sequenza "chose/déchet/sémiophore" non viene più percepita se non dagli addetti ai lavori. Il patrimonio odierno non è frutto di un atto fortemente (e inevitabilmente) selettivo, ma espressione di una volontà di durare che, di per sé, legittima chi se ne fa carico rispetto alla collettività. L’
aura patrimoniale dispensata dall’
atto patrimoniale ha la precedenza sul "che cosa?", "dove?", "perché?". La moltiplicazione della domanda di musealizzazione discende direttamente da questa postura mentale di natura
attivistica.
C’è poi, in aggiunta, l’esperienza del grande "inverno demografico" (
6): si allunga la vita, si allunga la giovinezza, la morte "invecchia". La durata si trasferisce da ciò che ci circonda a noi stessi. Siamo noi che introiettiamo tutto il passato che valga la pena salvare,
patrimonializzandoci, cioè consegnandoci, su lungo periodo, alla conservazione, attraverso sofisticati dispositivi tecnologici. La lunga giovinezza altera ovviamente le scelte di vita. La scansione tradizionale giovinezza/maturità/vecchiaia ha subito un cambiamento rispetto alle generazioni precedenti, e il nesso eredità/patrimonio, finisce per aderire al cambiamento, consumatosi in senso biologico. Come ci ha insegnato Sant’Agostino (
7) il rapporto eredità/patrimonio sta nel tempo; se il "tempo non è più quello di un tempo", la rilevanza di ciò che proviene dal passato e può transitare nel futuro, verosimilmente non sarà più la stessa. Tutte le strutture genealogiche, a partire dalle famiglie, sono alle prese, consapevolmente o meno, con questo nodo psicologico, sociale e culturale, normato in un’epoca storica sideralmente lontana dalla nostra ma letto a fatica secondo le coordinate del presente. Infine, terzo punto: la sovrapposizione di diverse identità (personali, locali, nazionali, globali) nello stesso individuo, cumulandosi con la presentificazione, riduce lo spazio per una lettura lineare, semplificata e prospettica della propria vita. La "memoria culturale" diventa fragile, perché le
narrative sono oggettivamente complicate, e per dipanarle ci vuole pazienza e buona volontà (per le quali, manco a sottolinearlo, manca il tempo).
La nostra è un’età nella quale, a trionfare, sono la soggettività e le relazioni (
8). L’ipertrofia museale, cui si è già accennato, lo testimonia: l’incremento consistente della 'domanda' di museificazione, a partire da percorsi 'dal basso', partecipati effettivamente o descritti come tali, sta producendo un nuovo "paesaggio patrimoniale" assai diverso da quello precedente, elitario, tecnico e fortemente intellettualizzato. È vero però che a questa centralità retorica, ben testimoniata dalla pressione che una pletora d’attori esercita quotidianamente sugli enti locali, corrisponde una crescente marginalità economica. Il patrimonio non è mai stato così presente nel lessico, nel discorso pubblico e nella produzione normativa − dal Codice dei beni culturali ai documenti Unesco e UE (
9) −; e tuttavia l’investimento culturale continua ad andare in un’altra direzione (solo il 10% della spesa culturale, in media è destinata a biblioteche, archivi e musei, se ci limitiamo all’ambito dello Stato e delle Regioni).
Altra aporia: la performance dei musei è di solito misurata da due indicatori ormai insufficienti − visitatori e introiti da bigliettazione − dai quali si traggono elementi di valutazione quantitativi per definire l’indotto turistico. Per altro verso, però, che cosa si chiede oggi ai musei? Impegno per l’integrazione sociale (immigrazione, disabilità, accessibilità); attivazione di percorsi educativi innovativi; processi, di solito molto costosi in termini d’impegno temporale degli addetti, di solidarietà territoriale. Assistiamo quindi ad un allargamento progressivo e costante, del campo del patrimonio, dagli oggetti alle relazioni. Ciò induce a riflettere sul fatto che le istituzioni patrimoniali sono un’infrastruttura culturale a crescente valore sociale. Come tutte le infrastrutture ha un costo, ma i criteri di sostenibilità delle infrastrutture non sono, com’è noto, quelli delle imprese. Diventa quindi importante stabilire come calcolarne il valore sulla base di elementi qualitativi: se ci si limita al duo visitatori/biglietti è chiaro che lo schiacciamento sulla lettura standardizzata della contabilità aziendale è automatico ed assolutamente prevedibili ne saranno i risultati. Anche perché, per altro verso, le imprese culturali esistono davvero: sono le attività creative, i servizi, i professionisti, gli artigiani che hanno bisogno del patrimonio di biblioteche, archivi e musei per svilupparsi e per generare valore. Solo che non sono quasi mai connessi, come
output, alla "economia" delle istituzioni culturali. È curioso: i musei dovrebbero reggersi come aziende, ma le aziende che lavorano grazie ai musei non entrano di solito nel radar della rilevazione abituale del 'comparto'. Eppure, il collegamento c’è ed aiuta, fra l’altro, a comprendere che si tratta di due realtà apparentate ma diverse.
Concludo accennando a due sfide 'rischiose', i cui risultati potrebbero essere anche regressivi, ispirate dalle nuove letture contemporanee del patrimonio. La prima: il patrimonio come magnete identitario delle comunità. In questo caso, sono in gioco concetti come stabilità e durata, come abbiamo visto reinterpretati alla luce della presentificazione. Possiamo averne una versione etnocentrica, digradante da quella tradizionale, basata sulla conservazione "assoluta" di oggetti e contesti (la difesa di un "noi" che spesso esonera dalla definizione del "noi" (
10)), fino a quella paranoica e criminale di un Brenton Tarrant (
11). All’opposto, vi è una versione "paesaggistica", dove beni e contesti riletti in armonia, tenendo conto di uno sguardo lento, non convenzionale, non stereotipato, producono senso di appartenenza (materiale/immateriale): è la linea dell’
amor loci di Paolo Pileri (
12), tanto per fare un esempio contemporaneo.
La seconda sfida: il patrimonio come espressione del nomadismo culturale di cose, idee, persone. Qui sono in gioco concetti come contaminazione e mutamento. Anche in questo caso disponiamo di una versione "cosmopolitica" estrema, segnata dalla progressiva dematerializzazione degli oggetti, dove contano solo i contesti performativi; e di una versione innovativa, dove oggetti e narrazioni, attraverso ricerca e tecnologia, rifondano una relazione inedita fra materiale e immateriale. È una linea d’azione complicata dalla tradizionale incomunicabilità dei contenitori disciplinari, ma assai promettente e suggestiva soprattutto per le
digital humanities.
Ebbene, non credo sia difficile comprendere verso quali sentieri dovrebbero indirizzarsi i musei secondo questi superficiali appunti di lettura.
NOTE
1 Cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi, 1997; A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002.
2 T. Wolfe, The ‘Me’ Decade and the Third Great Awakening, in "New York", 23 August 1976, p. 39. Cfr. inoltre C. Lasch, L’io minimo. Sopravvivenza psichica in tempi difficili, Vicenza, Neri Pozza, 2018.
3 F. Crespi (a cura di), Tempo vola. L’esperienza del tempo nella società contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2005.
4 A. Cavalli (a cura di), Il tempo dei giovani, Bologna, Il Mulino, 1985. Cfr. inoltre il classico K. Mannheim, Le generazioni, Bologna, Il Mulino, 2008.
5 K. Pomian, Musée et patrimoine, in H.P. Jeudy (sous la direction de), Patrimoines en folie, Paris, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 1990, pp. 177 −198. Già allora Pomian profetizzava, chiudendo il saggio: “ Il se peut que le rythme accéléré de la constitution du patrimoine culturel, depuis une trentaine d'années, et son caractère tout englobant témoignent qu'un changement radical est en cours du mode de vie humain sur la terre, qu'une rupture est en train de s'instaurer entre notre présent et le passé − rupture dont nous ne mesurons encore ni la profondeur ni la portée” .
6 Sulla quale cfr. A. Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, Bologna, Il Mulino, 2015.
7 Cfr. E. Castellucci, Alle origini del patrimonio, in “IBC”, 2019, 2 ( http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-201902/xw-201902-a0001).
8 L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffaello Cortina, 2017.
9 L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 61 −96.
10 Cfr., a questo proposito, M. Bettini, Radici. Tradizioni, identità, memoria, Bologna, Il Mulino, 2016.
11 L’estremista di destra australiano, fra gli autori del massacro delle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda il 15 marzo 2019.
12 P. Pileri, Amor loci. Suolo, ambiente, cultura civile, Milano, Raffaello Cortina, 2012.
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