Rivista "IBC" IX, 2001, 2

storie e personaggi

Verdi nostro contemporaneo

Ezio Raimondi
[italianista, presidente dell'IBC]

Diceva Virginia Woolf che la paura che assale chi registra i centenari è sempre quella di trovarsi a misurare un fantasma in via di diminuzione e di essere quindi costretti a predirne la dissoluzione imminente. Ma nel caso di Verdi non c'è proprio da aver timore. Egli continua a vivere nei teatri del mondo con la forza impetuosa e perentoria delle sue invenzioni musicali, più vitale e presente che mai. Ognuno di noi si porta dentro qualcosa di suo: anche solo un gesto, una frase melodica, un'ombra lieve e stupita di ricordo. Così parlare di lui a cent'anni dalla morte significa soprattutto interrogarsi sul senso che s'incarna nella sua arte, ritornare all'origine della sua musica in azione, nel cuore del suono e del canto, dove la convenzione si unisce di colpo con la verità umana e l'evidenza trascinante del conflitto si converte nell'indagine ardita della sua passione entro lo spazio drammatico di un ardente e cupo splendore. In fondo si può dire anche di lui, di nuovo con le parole della Woolf, che la sua opera si costruisce sulla conoscenza di quanto è piu persistente, se non più seducente, nella natura umana. E di qui s'irradia il fascino di una parola scenica che poi si cala e si rinnova nel tempo, nel contesto sempre diverso della storia, così come muta, d'interpretazione in interpretazione, l'immagine del suo creatore.

Certo, il Verdi dei nostri anni non è più il vate del Risorgimento e l'eroe della leggenda contadina di un'autobiografia mitica, ma l'uomo di teatro geniale e tenace che ha sempre in mente le ragioni finali dello spettacolo e la presenza attiva del pubblico, con la consapevolezza che ciò che conta, anche nella dominante del pathos politico, è la fiamma diretta dell'emozione, il vero che scaturisce dal respiro profondo dell'anima, la tensione imposta da un insopprimibile istinto morale, da un senso aspro e austero dell'esistenza. Ma anche in questo orizzonte si ripropone alla fine il valore storicamente esemplare dell'universo verdiano come momento di una memoria colletiva. Se oggi, come è stato osservato, è l'era della commemorazione che ricostituisce un'identità nazionale attraverso la memoria e i suoi luoghi, non può esservi dubbio che il teatro di Verdi rappresenta un'esperienza unificante dell'Italia risorgimentale nella sua marcia faticata e contraddittoria verso la modernità e vale anche per essa quanto scriveva Hofmannsthal a proposito di Manzoni e della sua "italianità", che diviene appunto la "rivelazione" di "una umanità di stampo antico, vecchia e giovane a un tempo", attraverso "un'opera d'arte sorta da un ambito patrio" nelle "fibre stesse di quell'antico popolo". C'è bisogno di ricordare, tra Milano e Busseto, la suggestione segreta dell'archetipo manzoniano? Va da sé che quella di Verdi è una "italianità" padana, estroversa e sanguigna, tenera e commossa, popolare e borghese, integrata dalla funzione pubblica del rito teatrale già sulla strada di un intrattenimento di massa.

Sia pure in un'accezione positiva, un narratore saggista come Moravia ha insistito sulla "volgarità" di Verdi, che egli considera il suo "aspetto più misterioso e problematico", paragonandolo a un "palazzo illustre e antico andato in malora e abitato ormai da artigiani e operai", dove, a differenza di quanto accade in Shakespeare, "la concezione umanistica del nostro rinascimento" viene da ultimo "conservata dalle plebi e scaduta a folklore". Resta soltanto un'idea rinascimentale dell'"uomo intero", che viene attinta dalla linfa plebea della "valle del Po". È una formula brillante che sfiora l'iperbole, e volendo continuare il discorso conviene forse rivolgersi all'intelligenza sagace di Isaiah Berlin allorché, rifacendosi allo Schiller del grande saggio sulla poesia ingenua e sentimentale, definisce la "naïveté" di Verdi come un'"arte oggettiva, diretta e in armonia con le convenzioni che la governano", la quale "nasce da un'intatta unità interiore, da un senso di appartenenza al proprio tempo e al proprio milieu sociale". Non dunque la frattura, la coscienza dell'unità perduta, che è propria della condizione "sentimentale" e che può poi diventare la nevrosi, la "décadence" della fine di secolo, ma la pienezza nativa dell'essere, l'impegno gagliardo e laborioso di una creazione totale. "Vicino al centro di gravità della sua nazione", all'unisono con le "convinzioni del sentimento popolare", nel suo fondo più schiettamente paesano, Verdi appare così a Berlin "l'ultimo maestro a dipingere con colori positivi, chiari, fondamentali, a dare espressione immediata alle maggiori, eterne emozioni umane: amore e odio, gelosia e paura, indignazione e passione; dolore, furia, scherno, crudeltà, ironia, fanatismo, fede, le passioni che conoscono tutti gli uomini". Di fatto nella sua musica agisce ancora un legame profondo con la natura e il destino dell'uomo che vi prende forma, ne porta il segno indelebile nel suo stesso oscuro impulso vitale che anche tra i labirinti calcolati del melodramma può incontrarsi con il volto muto e impietrito del tragico. È un'umanità radicata da sempre nella terra, nel suo rigoglio placido e insieme crudele, e non conosce altro umanesimo che quello tenace e virile di una dura esistenza quotidiana. È una moralità terrestre, quasi un tacito principio di religione naturale, alle soglie dell'ignoto o delle nebbie sospese della grande pianura.

Questo rapporto intimo e organico con la natura, che non viene meno anche nell'affinamento tecnico alla sensibilità compositiva, tra disincanto e saggezza, fa sì che il teatro verdiano, come è stato detto, s'identifichi con il suo paese d'origine: un poco, forse, come il romanzo "lombardo" di Manzoni. Il luogo del cuore e dell'immaginazione è nello stesso tempo un luogo dello spazio reale, un territorio storicamente determinato, percepito e vissuto con la concretezza fisica e sensuale di un'antica schiatta contadina, con l'orgoglio imperativo ma generoso del proprietario terriero. E vi si aggiunge anche il richiamo remoto dell'origine, la volontà di una casa, l'attaccamento alle cose solidamente familiari, il senso acre di un'appartenenza e di una partecipazione a un significato di vita comune. Vero è che dietro i fondali del cosmopolitismo scenografico si sente il respiro corale della terra emiliana, s'intuisce l'aria, il colore acceso della provincia insieme urbana e rurale; ma è altrettanto certo che la musica la reinventa e la illumina, ne fa una provincia del mondo, un teatro esemplare dell'esistenza, dove è in gioco un'idea vivente dell'uomo, in un linguaggio che può parlare a tutti, sino alle corde nascoste del ritmo e delle sue coinvolgenti figure preverbali.

Nella sua realtà condivisa un luogo rappresenta anche un paesaggio umano e rimanda sempre a una storia che poi si traduce in costume, in tramando domestico di un lento, vigoroso ethos provinciale. Verdi vi resta più che mai fedele. Ma la sua drammaturgia lo proietta e lo dilata nell'orizzonte esultante di una patria italiana, accompagnando il processo dell'unificazione nazionale, interpretando gli slanci e le illusioni dell'immaginario risorgimentale, suggerendo a un pubblico non più di provincia la nostalgia dell'eroico, la retorica nuda del gesto magnanimo, la teatralità primitiva delle emozioni radicali in cui si rivela il lacerante vero del cuore. Nell'arcadia romanzesca del melodrammatico, tra kitsch e raffinatezza, irrompe ora una implacabile tensione morale, una serietà simile a quella che il De Sanctis della Storia, giunto alle generazioni dell'Ottocento, chiedeva alla nuova letteratura italiana perché essa divenisse finalmente moderna e europea. Conservatore libertario in equilibrio polemico fra tradizione e nuovo, Verdi non può che stare accanto a Leopardi e a Manzoni, anche il suo teatro è una metafora visibile del reale e della coscienza che lo riscopre nella sua contrastata interezza.

In un tempo come il nostro della globalizzazione e dell'ossessione commemorativa ricordare Verdi diviene insieme l'occasione per riflettere sul nostro Risorgimento e sulla nostra origine di nazione policentrica ancora alla ricerca di una modernità compiuta. Occorre allora non limitarsi a un "consumo identitario", a una rievocazione di immagini voluta da un anniversario, ma ragionare di nuovo sull'identità italiana, sulla memoria che essa presuppone, sulla storia che è il fondamento del suo presente. E Verdi appartiene a questo universo di valori che non possiamo ignorare. Anche se la sua forza, la "naïveté" di Berlin, sembra per sempre consegnata a un'altra epoca, ormai lontana da noi, la sua musica non ci abbandona, invita a un colloquio e a un confronto, tanto più nei luoghi che gli furono cari, dove forse si nascondono ancora le ombre della sua avventurosa fantasia padana. Sta a noi di ascoltarlo e di farne un nostro contemporaneo, partecipe del nostro futuro con la voce possente della speranza, del suono che anche nel dolore comunica vita.

 

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