Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / storie e personaggi

Un ricordo di Riccardo Bonavita attraverso il suo impegno per questo Istituto e per la sua rivista.
La cenere lieve del vissuto

Andrea Battistini
[docente di Letteratura italiana all'Università di Bologna]

Il tratto che più rimane nel ricordo di Riccardo Bonavita, tanto più presente ora che ha deciso di lasciarci, è la serietà e il rigore dominanti ogni suo atto, dal più impegnativo al più transitorio.1 La caparbietà con cui ha studiato il fenomeno aberrante del razzismo o la tensione conoscitiva delle opere di Leopardi non è diversa da quella con cui, lui che era lombardo d'origine, ha imparato a cucinare le tagliatelle alla bolognese, di cui si compiaceva con la stessa ingenua soddisfazione con cui salutava l'uscita dei suoi lavori di critica letteraria. Quale che fosse l'argomento di conversazione, vi immetteva una passione tutta sua, fatta di entusiasmo intellettuale e di bagliori ironici, di miti sorrisi e nitidi giudizi. La passione con cui discuteva di politica non era diversa da quella con cui parlava delle sue escursioni in barca. In tutti e due i casi il volto gli si illuminava di un fervore che comunque non abdicava mai alla razionalità delle diagnosi, formulate all'insegna di un'intransigenza che tuttavia non derogava alla pacatezza della ragione, senza alcuna indulgenza al dogma e al settarismo. Tutt'al più il suo morbido accento ancora lombardo si increspava appena quando, così vibrante nel sostenere le proprie idee, gli capitava di riferirsi a quanti non si erano mai schierati, a chi viveva di mediazioni, a chi di mestiere impiegava la sottile dialettica per tessere i compromessi. Ma anche in questo caso la sua voce non si oscurava di livore o di esecrazione, semmai il tono era quello un poco irrisorio di chi aveva capito come va il mondo, senza per questo adeguarsi ai suoi ipocriti rituali.

L'avere abbracciato con trasporto la causa del proletariato non gli aveva fatto dimenticare la buona educazione borghese che si traduceva in una gentilezza tutt'altro che cerimoniosa o di circostanza, ma istintiva, come quando, nel giorno delle nozze, ripristinando un'antica consuetudine, andò con la moglie Cristiana a deporre il bouquet della sposa dinanzi al sacrario che nel palazzo comunale di Bologna ricorda i caduti della Resistenza. Può darsi che in Riccardo la dolcezza di fondo del carattere fosse diventata nel tempo una sorta di antidoto alla violenza, all'odio che grondava dalle pagine antisemite e razziste da lui studiate. In questo àmbito aveva raggiunto una competenza unica e forse irripetibile, tanto più meritoria quanto più difficile è il reperimento di un materiale copioso ma rimosso, sia per la sua qualità scadente, sia per la vergogna, purtroppo soltanto postuma, di ciò che si è avuto l'impudenza di scrivere in anni in cui, durante il fascismo, si conseguiva un facile merito nel lanciare campagne fondate sui più vieti e brutali stereotipi.

Il catalogo della mostra "La menzogna della razza", realizzata nel 1994 con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna e del suo Istituto per i beni culturali (IBC), si deve in buona parte al lavoro di Bonavita che non solo vi compare con due saggi che spiccano per la documentazione sistematica e per l'intelligenza dell'interpretazione,2 ma anche per le soluzioni espositive dell'allestimento, che a chi scrive vennero illustrate all'ora di pranzo da un Riccardo incurante del languore che ci attanagliava, ignorato in quell'occasione nonostante lo slancio con il quale anche lui ha sempre amato i fasti della buona tavola. E la situazione si è ripetuta quando si trattò di essere da lui guidati nella visita alla mostra sulla guerra di Spagna,3 dietro suo suggerimento congegnata in modo da mettere le une di fronte alle altre, in una sorta di racconto speculare, le testimonianze fotografiche riguardanti le milizie franchiste e quelle dei combattenti repubblicani.

Questa attenzione per la migliore fruibilità della cultura mostra un altro aspetto del temperamento di Bonavita, ossia la componente educativa, didascalica, molto familiare ai tanti amici ai quali elargiva suggerimenti bibliografici di prima mano, derivati non da una fuggevole scorsa a repertori o cataloghi ma da letture e quindi da conoscenze dirette. Lo sanno bene i giovani che da tempo si riunivano per discutere degli ultimi libri usciti, magari in vista di una recensione per la rivista "Intersezioni", o solo anche per condividere certe esperienze che meritassero uno scambio di pareri. In questi incontri Riccardo interveniva sempre, magari dopo avere preso appunti su quel suo logoro taccuino nero che lo accompagnava ovunque, insieme con quel rustico portachiavi che evidentemente gli ricordava il mare, come se lo volesse racchiudere nella custodia delle sue tasche. Non si accontentava mai di giudizi generici o di elogi convenzionali; preferiva cogliere i punti deboli, le smagliature, mettendole in luce con obiezioni fondate, a conferma dell'impegno che profondeva in ogni sua cosa.

Dalla ricerca sulla letteratura razzista del ventennio nero, molto più dilagante di quanto si potesse pensare prima delle sue ricognizioni, Bonavita non ha tratto solo studi presentati a convegni internazionali (basti dire della relazione su Les racines chrétiennes de l'antisémitisme politique (fin XIXe-XXe siècle), affidatagli dall'École française de Rome) o ricostruzioni di vicende legate all'alta accademia, come quelle riguardanti il rientro dopo le persecuzioni antisemite, di Santorre Debenedetti e Attilio Momigliano, ma anche scritti di natura più didattica, come quello raccolto a cura del liceo classico "Giosue Carducci" di Milano, dove di Bonavita compare una minutissima rassegna sul razzismo nella narrativa dell'Italia fascista che compendia in forme destinate a studenti e a cittadini una materia che non poteva restare sequestrata nelle algide scansie di una biblioteca riservata agli addetti ai lavori. E lo stesso può dirsi dell'aggiornamento del 2005 intitolato L'offesa della razza, una pubblicazione promossa ancora dall'IBC e sensibile in primo luogo alla "divulgazione pubblica".4

Di questa iniziativa Bonavita ha dato conto, insieme con altri, nel numero 1/2005 della rivista "IBC", una sede in cui la sua firma ricorre periodicamente, sempre per siglare interventi di interesse civile, ora per registrare le sue impressioni di lettore avvezzo a frequentare la Biblioteca della Sala Borsa, descritta con l'ammiccante filtro di certi film hollywoodiani (n. 4/2002), ora per ricordare ai più distratti, annegati nell'incultura televisiva, l'esistenza a Londra della Marx Memorial Library (n. 4/1997). Ma perfino i suoi studi più agguerriti e puntigliosi, a cominciare da quelli su Leopardi - protagonista di una tesi di laurea a lungo coltivata per un'esigenza di perfezione pretesa molto più dalla sua stessa severità autoreferenziale che dalle corrive richieste di un'università di sempre più facile contentatura, sciatta, accomodante e approssimativa -, hanno trovato una veste più accessibile che, senza mai cedere a dilettantesche volgarizzazioni, ha potuto incontrare dal palcoscenico di "IBC" l'interesse di un pubblico colto anche se non accademico, di cui pure Bonavita, in grado di soddisfarle, conosceva bene le pretese. Ecco così spiegato l'articolo su Leopardi a Bologna, "città di lacrime e carezze", le stesse che forse la sua residenza adottiva, collocata proprio sotto le Due Torri, ha riservato anche a Riccardo che, non diversamente da quanto ha scritto di Leopardi, a Bologna ha cercato "tra molte difficoltà di vivere del proprio mestiere di letterato" (n. 4/1998).

Per quanto si sia dedicato a scrutinare la letteratura, magari anche sotto la più stretta competenza estetica, come il ruolo dell'immaginazione nel leopardiano Discorso di un italiano, o la struttura delle raccolte poetiche di Franco Fortini, oggetto della tesi di dottorato discussa all'università di Firenze, Bonavita non ha mai scisso l'analisi letteraria dalle sue implicazioni sociali e civili. La ricezione dei poeti non è per lui meno importante della loro attività, come si dimostra percorrendo le aberrazioni della critica leopardiana al tempo delle leggi razziali, o come si rivela sottraendo alla polvere degli archivi la proposta di un consultore ottocentesco dell'Inquisizione mirante a relegare nell'Indice dei libri proibiti i Paralipomeni della batrocomiomachia di Leopardi, a riprova del carattere radicale ed eversivo di un poemetto le cui pronunzie politiche e filosofiche rischiavano di essere sottovalutate senza il rinvenimento di questo episodio dissepolto dall'Archivio per la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Forse negli anni in cui preparava con Bazzocchi l'edizione dei Paralipomeni Bonavita non aveva ancora scoperto, con la sorpresa di una folgorazione, il pensiero di Pierre Bourdieu, ma con il senno di poi si comprende bene quanto vi fosse predisposto. La consapevolezza del potere del linguaggio, la visione unitaria e sistemica della sociologia espressa nel concetto di "campo", la solida attitudine filosofica, l'attrazione per le più ampie coordinate culturali percorse in lungo e in largo senza per altro cadere nell'eclettismo perché rese interattive con un'ottica strutturale e realmente comparata: sono tutti aspetti familiari al metodo di lavoro di Bonavita, condiviso con le procedure di Bourdieu. Ciò spiega perché, trascinato dalla consueta irruenza, Riccardo si sia fatto ardente araldo di Bourdieu, pronto a fare proseliti da convertire con la lettura di Les règles de l'art o di Campo del potere e campo intellettuale, o con l'organizzazione di seminari e proposte editoriali indirizzate senza timori reverenziali a case prestigiose. Né, senza por tempo in mezzo, si era fatto scrupolo di entrare in contatto con Anna Boschetti, la più autorevole studiosa italiana di Bourdieu, che subito aveva apprezzato l'intelligenza del generoso neofita.

Soprattutto, Bonavita aveva imparato rapidamente la lezione, mettendola a frutto nel suo ultimo lavoro, quella storia letteraria dell'Ottocento mandata in stampa la settimana prima che la sua esistenza si concludesse.5 Pur essendo un manuale destinato in primo luogo agli studenti, la sua sintesi, edita dal Mulino, si muove tra autonomia ed eteronomia della letteratura, tra ortodossia ed eresia, avendo sempre presente il contesto che Bourdieu ha chiamato "lo stato del campo di produzione", nella fondata fiducia che i principî di ogni opera letteraria, sia essa di Leopardi, di Manzoni, di Verga o di Pascoli, sono da cercare in uno spazio sociale che consente di intenderla più a fondo. Inutile dire che un lavoro di questo tipo è stato sfibrante, molto più diffuso e capillare di quanto fosse richiesto, fino a comportare poi riduzioni che tuttavia non ne hanno leso l'impianto originale e l'acutezza dell'indagine.

Riccardo non ha voluto condividere con chi è rimasto la gioia di questo suo successo. Qualcuno degli amici più cari lo ha rimproverato di essersene voluto andare, in un modo che ha il sapore dell'abbandono e del tradimento. In tanti, come succede in questi casi, si sono chiesti perché. Ma forse Riccardo, con la sua coerente razionalità, avrebbe trovato infondata questa domanda. E piace pensare che anche l'ultimo gesto sia stato deciso con mente serena, con quel tenue sorriso che gli conoscevamo. In uno dei suoi articoli gli era occorso di citare alcuni versi di Borges che ora, indotti dalla tragica circostanza, si riaffacciano con il monito di un presagio: "i giorni sono una rete di triviali miserie, / c'è sorte migliore della cenere / di cui è fatto l'oblio?". Le triviali miserie di ogni giorno sono più presenti che mai, ma non riescono, fortunatamente, a coprire di oblio la figura di chi ha voluto andarsene. In un altro suo scritto sul razzismo compare in esergo la dedica ad Hans Mayer, "che ora non viene più in Italia" per protestare contro una nazione che ha fatto scelte politiche per lui sbagliate. Adesso, invece, è Riccardo Bonavita che ha deciso di non venire più nei luoghi che ha tanto frequentato per discutere animatamente di letteratura e di politica. Resta però vivo nel ricordo il profilo esile e leggero di un giovane dalle balenanti accensioni, dalla dialettica pronta, dall'espressione gentile che non soltanto d'inverno si affacciava sotto una sciarpa e un berretto più grandi di lui.

 

Note

(1) Questo testo di Andrea Battistini, professore di Letteratura italiana all'Università di Bologna, sarà pubblicato, con qualche adattamento alla sede diversa, anche nel n. 1/2006 della rivista "Intersezioni", edita a Bologna da il Mulino.

(2) La menzogna della razza. Documenti e immagini dell'antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Bologna, Grafis - Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, 1994.

(3) Immagini nemiche. La guerra civile spagnola e le sue rappresentazioni. 1936-1939, Bologna, Editrice Compositori - Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, 1999.

(4) L'offesa della razza. Razzismo e antisemitismo dell'Italia fascista, a cura di R. Bonavita, G. Gabrielli, R. Ropa, Bologna, Pàtron Editore - Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, 2005.

(5) R. Bonavita, L'Ottocento, in Storia della letteratura italiana, a cura di A. Battistini, V, Bologna, il Mulino, 2005.

 

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