Rivista "IBC" XIII, 2005, 4
mostre e rassegne, storie e personaggi
"Bologna come Avignone". Questo il sottotitolo della mostra dedicata a "Giotto e le Arti al tempo di Bertrando del Poggetto" dal Museo civico medievale e dall'Assessorato comunale alla cultura, insieme alla Fondazione della Cassa di risparmio, alla Pinacoteca nazionale e al Ministero per i beni e le attività culturali. L'esposizione, allestita al Museo civico medievale, rimane aperta dal 3 dicembre 2005 al 28 marzo 2006 ( www.giottoeleartiabologna.it, catalogo Silvana Editoriale). Una formidabile e inedita cronistoria, degna di figurare nel libro delle ipotesi sugli avvenimenti "che potevano essere ma che non sono stati", recuperati talvolta anche dopo secoli di rimozione. Fantapolitica? Forse, ma in questo caso l'adeguamento "a città dei papi" del capoluogo emiliano costituì un capitolo importantissimo, la signoria ecclesiastica del cardinale del Poggetto (1327-1334), raccontata da una cinquantina di opere. Quei sette anni così poco frequentati dagli studi, in quanto interpretati come negazione delle libertà comunali, costituirono in realtà un periodo di grandissimo interesse, carico di conseguenze e di ricadute sull'arte e la cultura.
Correva l'anno 1327; guelfi e ghibellini si fronteggiavano nella città delle due torri. Si trattava di un gioco di potere, complice l'adesione a un sistema di alleanze che stringeva tra di loro le famiglie del ceto mercantile, cui il partito guelfo alla testa del comune garantiva collegamenti con la Santa sede, centro di vastissimi rapporti finanziari. Inoltre, se le abitudini di violenza dei gruppi emergenti rendevano insicura la situazione interna, anche oltre i confini del contado l'antica città comunale mostrava qualche cedimento, nonostante esibisse con orgoglio quella personalità decisa che in passato le aveva consentito di affermarsi. Ben presto la vulnerabilità crescente diventò attrattiva per le ambizioni di più potenti compagini territoriali. Già nel 1278 i bolognesi avevano confermato la propria opportunistica adesione all'autorità papale per riceverne protezione. La storia si ripeté quando, sconfitta a Zappolino da Passerino Bonacolsi (1325) nella campagna contro i Visconti intrapresa da Giovanni XXII, nel disegno di un grande stato pontificio allargato alla pianura padana, Bologna decise di sottomettersi al cardinale con la speranza che questi si facesse garante delle libertà comunali.
Il pericolo era alle porte. Specialmente in previsione della calata dell'imperatore Ludovico il Bavaro, dal cui potere dipendevano i governi signorili che frammentavano lo scacchiere geopolitico italiano: i Visconti a Milano, gli Scaligeri a Verona e gli stessi Bonacolsi a Mantova e a Modena. L'offerta di Bologna sembrò quanto mai propizia alla chiesa, la quale, in quel momento di esasperazione del conflitto con l'impero, necessitava di un avamposto per contrastare le signorie padane e bloccare l'avanzata dell'antagonista. Il potere apostolico richiedeva affermazione, soprattutto in quegli anni: gli anni dell'esilio avignonese, iniziato nel 1309 con il trasferimento di Clemente V e della Santa sede nella Francia di Filippo il Bello. Si parlava francese alla corte papale, dove prelati amanti del lusso si circondavano di oggetti di pregio. Del resto, francese era Giovanni XXII, il ricco borghese Jacques Duèse de Cahors, e prima di lui il suo predecessore.
Ma nonostante la "gallicizzazione" delle cariche curiali, in ambiente pontificio si sognava il ritorno a Roma. Per realizzarlo, occorreva preparare il terreno e bonificarlo dal "male" ghibellino. Al momento, il rientro appariva problematico. Il conflitto tra gli Orsini e i Colonna rendeva quanto mai rischioso il rimpatrio nella capitale, dove, di lì a un anno (1328), l'imperatore si sarebbe fatto incoronare a dispetto del pontefice, nominando antipapa Niccolò V. Radicalizzato a suon di scomuniche, il conflitto si inasprì degenerando in una battaglia combattuta senza esclusione di colpi. Ognuno dava filo da torcere all'avversario come meglio poteva. Abile diplomatico e forte accentratore, Giovanni XXII non trascurò occasione per far valere i propri diritti vicariali sul regno d'Italia. Approfittando della lotta tra i pretendenti Ludovico il Bavaro e Federico d'Asburgo, dichiarò vacante il trono imperiale e non esitò a usare a proprio vantaggio la sua arma preferita, l'accusa di eresia. Una crociata che si estendeva strumentalmente a chiunque osasse contrastarne i progetti. Ma forse, anche, una fede, se con la bolla Super illius specula aveva dato ufficialmente il via alla caccia alle streghe, condannando il pensiero razionale, restio a riconoscerne la pericolosità, e alimentando di conseguenza la superstizione popolare. Dopo tutto, i roghi erano pur sempre un deterrente.
Meno facile, invece, impressionare quei disincantati signori che non si facevano scrupolo nell'ostacolare con ogni mezzo la politica di riordino perseguita dall'autorità papale. Si rendeva perciò necessaria l'azione congiunta di una nuova figura di parte ecclesiastica, in grado di affermarsi in Italia con maggiore incisività, muovendo le fila da una base protetta. Perché non pensare a Bologna? Centro universitario e importante nodo stradale per le comunicazioni nord-sud della penisola, era un territorio di diritto apostolico, e a ridosso dei domini imperiali. Fu così che la città delle due torri diventò centrale nel progetto del rientro in Italia della corte pontificia. Coordinatore dell'impresa fu il cardinale Bertrando del Poggetto, al secolo Bertrand du Pouget o du Poujet.
Nipote ex sorore di papa Giovanni XXII, Bertrando era nato a Castelnau-Montratier intorno al 1280. Legato "in partibus Lombardiae", diventò ben presto "signore" di Bologna, per la quale progettò una funzione di centro regionale e di sede del governo legatizio, in attesa di farne la residenza apostolica padana. Una prospettiva strepitosa per la città, che si apprestava a subentrare ad Avignone. E un evento clamoroso che l'avrebbe allineata alle più importanti capitali europee. Subito si diede inizio alla costruzione di un fortilizio per "il signor legato" e della camera apostolica con gli uffici amministrativi. In quattro e quattr'otto si tirò su un castello. In pochi anni, tra il 1330 e il '32 (ma quanti secoli occorreranno per il cantiere di San Petronio?), la "piccola Avignone" era pronta a Porta Galliera, da cui transitava il traffico per la Germania. Il baricentro della sede del potere si spostava così dalla piazza alla zona settentrionale, allo scopo di porre altrove, e in maniera strategica, le basi della "città papale".
Allo stato attuale degli studi sull'argomento, è difficile immaginare quale potesse essere l'assetto del castello, sicuramente monumentale, ma è possibile che il progetto, forse di maestranza gotica francese, proponesse un'architettura maestosa, simile a quella avignonese. Era certamente una struttura aliena, nel tessuto cittadino, ma rifletteva come in uno specchio l'immagine del potere che vi si instaurava. E il cardinal Bertrando amava segnalare anche in modo simbolico la dominazione esercitata sulla città. Gli studi di Giancarlo Benevolo hanno ipotizzato un edificio grandioso a perimetro quadrangolare, intervallato da otto torrioni. Una parte si estendeva all'esterno della circla, mentre il settore principale vi rimaneva incluso, comprendendo un tratto della strada di Galliera. Il canale delle Moline separava le due parti della fortezza, cinte da un fossato. All'interno del castello, oltre all'orto e alle strutture di servizio, sorgeva il palatium con l'appartamento del cardinale. Tre le cappelle, come sarà poi nella sede avignonese: la cappella magna, quella parva e la cappella secreta. Attorno al complesso sorgevano le livrées, le dimore dell'entourage della "città del papa", su cui convergevano cantieri urbanistici di un'ampiezza tale da far trasparire la vastità del progetto: dal completamento delle mura, alla ricostruzione del ponte di Galliera e alla previsione di una strada - mai realizzata - con la quale raccordare il castello all'area della piazza, anticipazione dell'attuale via Indipendenza.
Bologna e il mondo assistevano alla prova generale di quello che sarebbe stato Avignone. L'imperativo era sfarzo, e magnificenza ovunque. Si configurava così una corte di respiro internazionale, abituata a spendere in arredi spesso di provenienza francese, ma anche sufficientemente aperta per apprezzare le risorse artistiche della città, interlocutrice abituale, a sua volta, della cultura d'oltralpe veicolata dallo studio. Per Bologna si trattò di un'occasione spettacolare di crescita e di accelerazione culturale. Ma da capogiro furono le somme stanziate per l'impresa del cardinale: vennero raddoppiati i dazi, che gravarono ulteriormente i bolognesi, già stremati dagli obblighi a cui li costringeva la politica militare di Bertrando, sempre più protervo, autoritario e deciso a instaurare un governo di tipo signorile. Le signorie costavano, e anche le guerre: 752.624 fiorini d'oro furono messi a disposizione dai banchieri fiorentini, scelti accuratamente tra i più rinomati uomini d'affari provenienti dalle famiglie che maggiormente si erano distinte nell'ambito della committenza artistica: i Peruzzi, gli Acciaiuoli, i Bardi. Questi ultimi, per la cappella in Santa Croce, avevano da poco utilizzato nientemeno che Giotto, il quale si era trovato a lavorare per il vicino altare Baroncelli in un ambiente impreziosito dagli affreschi di Taddeo Gaddi (1327) e dalle sculture di Giovanni di Balduccio (1330). Personalità di prestigio delle quali, di fatto, si trovano testimonianze anche a Bologna.
Documentata e accettata concordemente risulta infatti la presenza giottesca, cui sono ricondotti gli affreschi perduti della cappella magna della rocca pontificia, eseguiti credibilmente tra il 1332 e il '34 (Benati). Quando, cioè, l'artista fiorentino si intratteneva amabilmente con Bertrando, che "andando spesso a vederlo, gli giovava di ragionare col lui: et faccendo un dì un Vescovo, et facendogli la mitria, il Cardinale, per udirlo, il dimandò che volevan dire quelle due corna... Giotto gli rispose: Signore et padre reverendo, voi il sapete: queste due corna significano che chiunque tiene luogo di vescovo che porti mitria, egli debbe sapere il Testamento vecchio et il nuovo. Il cardinale, non contento a questa risposta, il dimandò che vogliono dire quelle due bende che si pongono pendenti dirietro alla mitria? Giotto, accorgendosi ch'egli l'uccellava disse: Queste due bende significano ch'e Pastori d'oggi che portono mitria, non sanno né il Testamento vecchio né il nuovo, et però l'hanno gittate diritro...".
Così un pittore del calibro di Giotto conversava con un cardinale, come ricorda quel passo del Commento dantesco dell'Anonimo fiorentino ritenuto dalla critica un'attendibile conferma dell'intervento personale del maestro nella rocca. Una presenza da scalarsi in anni prossimi all'attività napoletana per Roberto d'Angiò, documentata a partire dal 1328 e protratta sicuramente fino al 1332. Questo non contraddice l'avventura bolognese, che Massimo Medica, curatore della mostra, situa in tempi immediatamente successivi all'impresa, e cioè entro il 1333, quando il castello, che di lì a un anno sarebbe stato distrutto a furor di popolo, doveva risultare già compiuto. Oltre tutto l'artista poteva contare sull'ausilio di una bottega ben collaudata, né re Roberto, in stretti rapporti con il papa, avrebbe avuto difficoltà a congedarlo per qualche tempo. Da qui prende le mosse il progetto della mostra, con la quale si è intesa centrare la situazione figurativa bolognese a partire dalla presenza di Giotto nel cantiere di Bertrando del Poggetto. Luogo di incontro, e di scambio, per maestranze di diversa provenienza.
Ma cosa c'era dentro al castello? Due le testimonianze in nostro possesso: la bolla di Clemente VI, redatta sulla base dei "cahiers de doléance" con i quali i prelati lamentavano la dispersione dei codici, degli smalti, delle oreficerie e dei preziosi paramenti perduti in seguito al saccheggio, e la Vita di Cola di Rienzo dell'Anonimo romano, che, presente all'evento, poté redigerne la rassegna. Erano dipinti, e suppellettili mai viste, ispirate credibilmente a un gusto transalpino di cortese eleganza. Certamente, è pensabile che nelle stanze che si aprivano all'interno del fortilizio si profondessero i segni di una cultura cosmopolita, e spiccatamente filofrancese: vetrate variopinte, arazzi, boiseries? Così si chiede Daniele Benati, valutando le conseguenze dei modelli d'oltralpe sulla produzione artistica locale. Un esempio che contribuì non poco all'accelerazione gotica riscontrabile in gran parte delle scuole padane. Ma non è tutto. Perché a quella estrosa componente "straniera" si sommava il grande esempio toscano, tra Giotto e Giovanni di Balduccio. E Giotto significava un modello formale comprensivo della nuova concezione prospettica e "spaziosa" che si estendeva, grazie alla sua presenza, fino ai codici del "Maestro del 1328". Ma offriva anche il prototipo di un'abilissima organizzazione di bottega, ricca di spunti imprenditoriali imparati subito dai bolognesi, a partire da Vitale, col risultato di un'aumentata competitività sul mercato.
Purtroppo, la perdita degli affreschi giotteschi ci priva di un testo fondamentale sul pittore e sulla sua scuola. Resta, a testimonianza di quell'attività, il celebre Polittico della Pinacoteca nazionale di Bologna, ora da rivedere nell'ottica di una committenza alta e non, come si riteneva, per un incarico destinato alla chiesetta di Santa Maria degli Angeli, dove fu trovato nel 1732. Non sembra possibile che un'opera di Giotto potesse essere richiesta per un episodio decentrato. Più probabile, invece, l'ipotesi di un disperso arredo della corte di Bertrando, forse nella cappella secreta (Medica). Convince, in questa direzione, l'iconografia del dipinto, ispirata a modalità di intimidazione ecclesiastica che rimandano alla committenza papale. Modalità che si scorgono nella ferula di San Pietro, di autorevole connotazione, raffigurata dal pittore nel polittico Stefaneschi, eseguito per la basilica vaticana. O nel terrifico Padre dell'Apocalisse che corona l'opera in Pinacoteca minacciando i nemici con le spade uscenti dalla bocca: tipologia arcaica a quelle date (qualcosa che all'epoca sembra avere a che fare più con i roghi e le campagne militari che con la devozione), strumentalizzata in questo caso a una dichiarazione di guerra. Come piaceva al collerico Bertrando, che non esitava a utilizzare per i propri scopi tutti i simboli della pittura. Fino al punto da ordinare di ritrarre l'imperatore Ludovico il Bavaro come Anticristo decapitato nel perduto Giudizio universale affrescato in Santa Maria in Porto Fuori, a Ravenna. Dove se la prendeva persino con Dante Alighieri, minacciando di bruciarne le ossa insieme al filoimperiale De monarchia.
Comunque siano andate le cose, che fosse eseguita presso la corte di Porta Galliera o venisse inviata alla città delle due torri, è lecito pensare che la tavola di Giotto non restasse senza conseguenze per il panorama figurativo locale. Come si deduce, lungo il percorso espositivo della mostra, semplicemente osservando l'eloquente sezione delle opere che evidenziano le conseguenze della presenza a Bologna del maestro fiorentino. Lo si intuisce nei frammenti Polilobi con Santi e nella Madonna col Bambino del bolognese Pseudo Dalmasio: esiti filotoscani che gli conquisteranno incarichi prestigiosi a Firenze, in Santa Maria Novella, e in San Francesco a Pistoia. Oltre a Giotto, rappresentato anche dalla pregevole Madonna di Ricorboli, testimonia del clima centroitaliano instauratosi a Bologna il pisano Giovanni di Balduccio, con i frammenti conosciuti dell'altare per il castello di Bertrando. L'unico oggetto di sicura collocazione, in quanto registrato dall'Anonimo romano. Ma soprattutto il primo polittico marmoreo della storia e un'opera di assoluta novità, che traduce l'esempio grottesco con la preziosità di un materiale trattato con effetti d'alabastro. L'influenza toscana si apprezza poi nella cospicua serie delle "ridenti carte" bolognesi, che testimoniano della città universitaria "dove il libro era re" (Castelnuovo), abbondavano editori e miniatori magistrali. In mostra alcune pagine clamorose: dalla Matricola dei Merciai del Maestro del 1328 ai capolavori dell'Illustratore, affabulatore straordinario che, per dirla col Longhi, commentava i testi giuridici "come affascinanti romanzi cavallereschi". Dei quali la città si apprestava a diventare scenario.
Questo fu il fascino di quel breve ma intensissimo momento, nel quale Bologna rischiò di diventare capitale della cristianità. Certo, qualcosa non andò per il suo verso se nel 1334 i cittadini, vessati dalle tasse e insospettiti per la svolta autoritaria impressa al governo della città, in undici giorni di assedio rasero al suolo il palazzo di Porta Galliera. Compresi gli affreschi di Giotto, per quanto ancora alla metà del Cinquecento il Lamo ne asserisse la sopravvivenza nel "dirupamento" di una muraglia; ma ben presto svanirono nel tempo. Come sparirono le opere d'arte preziose e le sfarzose suppellettili, trafugate o spartite tra le chiese del circondario. Quanto ai "francesi", messi alla gogna nella migliore delle circostanze e defraudati di ogni avere, abbandonarono la città. Con loro il cardinale, cui fu permesso di allontanarsi. Naufragato su questo insuccesso, il sogno papale venne abbandonato, tanto che da quell'anno cominciarono i lavori ad Avignone. E di Bologna non si parlò mai più. Sulla vicenda calò il silenzio. Ritegno dei vinti? Rimozione dei vincitori? Non lo sappiamo. I bolognesi dimenticarono le macerie di Porta Galliera e si consolarono delle divinità minacciose di Bertrando con l'immagine umanissima e popolare del Presepe di Mezzaratta.
Ma l'eredità culturale di quei sette anni continuò a diramare, nel terreno dove era stata immessa. Compito della mostra, oggi, scavare idealmente tra quei ruderi, e recuperare in tutti i suoi aspetti questo capitolo fondamentale. Nell'intento di segnare, con l'esposizione e con le iniziative collegate - conferenze, visite guidate, spettacoli e una giornata di studi - l'anno zero per indagini future. Che muoveranno necessariamente dagli studi dei curatori Massimo Medica e Giancarlo Benevolo, e dalle ricerche del comitato scientifico composto da Daniele Benati, Enrico Castelnuovo, Elisabetta Cioni, Franco Faranda, Carl Brandon Strelke.
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