Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, leggi e politiche

Centralismo o decentramento? Continua la riflessione innescata dal dossier "IBC" su federalismo e beni culturali...
La tutela scomoda

Carla Di Francesco
[direttrice generale per i Beni culturali e paesaggistici dell'Emilia-Romagna, Ministero per i beni e le attività culturali]

L'argomento "decentramento-federalismo" o "centralismo" è materia che a partire dall'inizio dell'ondata riformistica della metà degli anni Novanta pervade i beni culturali, alimentando un dibattito non nuovo ma ancor oggi attuale, che viene alla luce con il Decreto legislativo 112-1998 e la successiva modifica del titolo V della Costituzione, e si perpetua nei provvedimenti di legge che in diverse forme e momenti sono stati conseguenti al tema, inclusi il Decreto legislativo 42-2004 e le riforme organizzative del Ministero per i beni e le attività culturali.

Che bilancio possiamo fare degli ultimi dieci anni? Il decentramento è attuato, o solo avviato, o niente di tutto questo? Ci piacerebbe tornare indietro con la macchina del tempo, e ricominciare a lavorare usando la Legge 1089, che ci dava più certezze, perché massima espressione della visione centralista della tutela? Ci piacerebbe tornare a usare la parola "tutela" con il significato onnicomprensivo che aveva fino al 1998, quando si affacciò alla nostra attenzione la valorizzazione e la diversificata potestà legislativa concorrente in capo alle Regioni? Ci piacerebbe annullare le riforme del Ministero per i beni e le attività culturali che dal 2001 ci tormentano? Con la nuova struttura organizzativa ministeriale siamo diventati adeguati per dare le risposte delle quali mondo esterno, amministrazioni, enti e privati hanno bisogno?

E poi: dopo le esperienze dei dieci anni trascorsi possiamo pensare che le nuove concezioni normative abbiano prodotto orientamenti condivisi e reali benefici al patrimonio culturale? Cioè, nel suo complesso, alla tutela? E/o alla gestione, fruizione, valorizzazione?

Ci sarebbe moltissimo da dire, ma mi propongo solo qualche riflessione dalla selezione di alcuni temi, che mi servono per esemplificare atteggiamenti e pensieri abbastanza condivisi all'interno delle strutture periferiche del Ministero per i beni e le attività culturali: la tutela, nel caso dei beni architettonici, perché qui si leggono al meglio pregi e difetti, ambiguità, equivoci e diversi significati del decentramento; la valorizzazione, ovvero lo stato dei musei e dei luoghi della cultura, l'attuale dibattito, e le possibili convergenze per un "decentramento reale"; il nuovo assetto del Ministero in attuazione della riforma organizzativa, e la sua visione dall'interno.


Taluni vorrebbero interpretare il decentramento, anche in materia di beni culturali, in modo estremo, come una delega, alle Regioni, di competenze che lo Stato esercita non sempre riscuotendo la soddisfazione di amministrazioni e cittadini: per esempio, la tutela dei beni architettonici; questa concezione ha un importante e illuminante precedente in quanto è avvenuto negli anni Settanta nella tutela del paesaggio, delegato appunto alle Regioni con il Decreto del Presidente della Repubblica 616-1977, a seguito (quasi come corollario) del trasferimento delle competenze in materia urbanistica.

Se la storia ci insegna qualcosa, quello della tutela del paesaggio è un utile monito per chi pensi ancora di invocare, semplicemente e rozzamente, una diversa distribuzione di competenze, poiché è sotto gli occhi di tutti che dal Decreto 616-1977 alla cosiddetta Legge "Galasso", dal Codice "Urbani" al suo sostanzioso correttivo del Decreto legislativo 63-2008, è il sistema di delega dallo Stato alle Regioni, e soprattutto dalle Regioni ai Comuni, il vero cuore di un grave problema; quello che ha devastato interi territori e continua a farlo senza che si possa realmente intervenire, tanto meno le soprintendenze con il residuo potere di annullamento, foglia di fico per le coscienze dello Stato che ci lascia sostanzialmente impotenti. È pur vero che c'è Regione e Regione, che sono stati prodotti anche dei piani paesaggistici attenti, ma è altrettanto vero che la materia urbanistica è soggetta a influenze e a spinte locali tanto più irresistibili quanto più la sede decisionale è vicina al territorio. Dalla lezione del paesaggio impariamo che non è un'azione di decentramento che potrebbe apportare cambiamenti migliorativi alle modalità di esercizio della tutela dei beni architettonici: anzi, esattamente il contrario.

Le competenze relative alla tutela sono scomode, perché danno limitazioni alla proprietà dei beni, e proprio per questo devono essere esercitate dalle strutture dello Stato, che oltre tutto può assicurare uniformità della legge e omogeneità della sua applicazione su tutto il territorio nazionale. Non dobbiamo poi dimenticare che per noi la tutela costituisce una parte significativa della storia culturale di un secolo, voluta dall'ordinamento dell'Italia da pochi decenni unita per non distruggere o disperdere l'eredità del passato; che questa storia è specchio di quella via alla conservazione che l'Italia ha scelto riconoscendo il valore universale di "testimonianza di civiltà" ai monumenti, ai musei, alle chiese, alle aree archeologiche, ai castelli e alle ville: all'insieme del patrimonio. E se oggi ancora tanto patrimonio esiste, lo dobbiamo ai soprintendenti di fama, a quelli meno noti, ai funzionari, al corpo tecnico nel suo insieme delle soprintendenze, che ha fatto e continua a fare la storia della conservazione e del restauro, specialità tutte italiane.

Nonostante tutto, non ignoriamo i punti critici: il mondo esterno percepisce gli istituti che partecipano a questa parte della tutela dei beni culturali (soprintendenze per i beni arcitettonici in primo luogo, ma anche quelle archeologiche e le direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici) come una inestricabile burocrazia nelle procedure di dichiarazione di tutela, nelle alienazioni, nelle autorizzazioni ai lavori, anche nella partecipazione alle conferenze di servizi, nelle procedure d'obbligo dell'archeologia preventiva, in quelle di Valutazione di impatto ambientale, di Valutazione di impatto strategico: insomma, negli infiniti momenti sui quali siamo chiamati a intervenire ed esprimere pareri o autorizzazioni.

Siamo consapevoli delle nostre carenze, sulle quali ci si sofferma più sotto, dove si accenneranno alcune considerazioni sulle riforme e lo stato attuale del Ministero; ma dobbiamo dire subito che proprio in questi anni, e proprio in virtù delle numerose diverse procedure che oggi il Codice impone in relazione a casi complessi di tutela dei beni architettonici, nonché in virtù dell'intreccio interno delle competenze tra gli organi periferici del Ministero, abbiamo imparato a stabilire modalità di confronto del tutto inedite con amministrazioni locali e con enti. Si sono inaugurati e conclusi tavoli di lavoro capaci di trovare soluzioni tecnico-progettuali per grandi comparti cittadini, nel pieno rispetto delle necessità espresse ma anche dei princìpi di salvaguardia e dei concetti di compatibilità degli interventi. Si concludono accordi di collaborazione su temi che si svolgono insieme: collaborazione, incontro, accordo, intesa sono ormai diventate parole sempre più usate nell'ambito dei rapporti tra istituzioni, secondo modalità di partecipazione che sfumano il rapporto autorizzatorio di legge, e che diventano, nella realtà, il portato più significativo di un nuovo modo di intendere la tutela.


Ai musei, e più in generale ai luoghi della cultura dello Stato, si imputano mancanza di visibilità, orari di apertura ridotti, scarsi servizi e attenzione al pubblico, insufficienza di attività e mostre. Sembra persino inutile ricordare quanto siamo diversi da nazioni con cui ogni tanto alcuni (sempre di più) tentano di paragonare la nostra situazione: i musei americani non sono finanziati dallo Stato o da enti pubblici, ma hanno bilanci sostanziosissimi, in quanto dotati di patrimoni e sostenuti dai privati; altra storia, altra società, altra entità (non nazionale) del patrimonio, e altro significato a esso attribuito: condizioni, insomma, assolutamente diverse. È noto: l'Italia è fatta di piccoli e grandi musei, di monumenti-museo, di raccolte e luoghi diversi aperti alla pubblica fruizione: insomma, di un patrimonio tanto parcellizzato che non esiste comune che possa dirsi privo di un qualche sito culturale da gestire e valorizzare. Tutti questi luoghi possono essere in proprietà a diversi soggetti: lo Stato e per esso il Ministero per i beni e le attività culturali, comuni, enti religiosi, altri enti o privati; a chiunque appartengano, i musei devono in primo luogo assolvere a una funzione educativa, civile, perché sono punti di coagulo della storia del territorio e allo stesso tempo presìdi importanti della tutela.

Non c'è dubbio che molti "luoghi della cultura" appartenenti allo Stato difettino nella gestione e offrano al pubblico il loro talvolta ricchissimo patrimonio in maniera assai poco chiara e con mezzi didattici e comunicativi ormai antiquati. Dello stesso male soffrono spesso anche i musei di comuni e altri enti, per cause che vengono normalmente imputate alla mancanza di finanziamenti, ma in realtà perché si preferisce dirottare le risorse su mostre e attività culturali varie, che, al contrario dei musei, permettono un ritorno di immagine immediato. Ovvero, semplicemente, si preferisce la scorciatoia della valorizzazione piuttosto che la tutela, l'intervento straordinario, da inaugurare, piuttosto che la manutenzione e la conservazione, che non fanno notizia.

I musei statali hanno vissuto un'ondata di novità e di speranza con l'emanazione della Legge "Ronchey", quando si è creduto che un concessionario per i cosiddetti "servizi aggiuntivi" fosse semplice da reperire e costituisse la soluzione per lo sviluppo e la crescita di interesse agli occhi del pubblico (e per la verità qualcuno ancora oggi al Ministero lo crede...). L'esperienza ci ha mostrato invece che il concessionario di servizi funziona solo per musei e siti archeologici di rilevanza davvero nazionale, a fortissima affluenza, e quindi non certo per la stragrande maggioranza del patrimonio (piccole e grandi aree archeologiche, monumenti-museo, musei di non rilevanti dimensioni), che costituisce il vero tessuto connettivo del sistema dei musei italiani. Dopo un primo momento di euforia, le gare, quando esperite, sono in molti casi andate deserte, perché si è avuto da un lato un eccesso di fiducia nei confronti dell'avvento del privato, dall'altro la presunzione di fare da soli.

Se crediamo che il museo sia il presidio del territorio e che, a chiunque appartengano, siano espressione della sua storia e della sua civiltà, non possiamo pensare che i "servizi aggiuntivi" si possano suddividere per enti proprietari e addirittura per soprintendenze, così come in passato è avvenuto. Il parametro di riferimento deve essere un insieme territoriale omogeneo: il complesso dei luoghi della cultura di una medesima area ha bisogno di integrazione, deve poter vivere all'interno di un sistema che mette in comune servizi, progetti, attività scientifica e mostre, piuttosto che, come oggi talvolta accade, perseguire concorrenza o rivalità. Solo così si sarà in grado di assolvere ai compiti veri del museo, crescere e far crescere la comunità. Su queste basi è non solo opportuno, ma necessario un rapporto dialettico con le amministrazioni locali e gli enti presenti sul territorio, al di là degli slogan astratti (la tutela allo Stato, la valorizzazione alla legislazione concorrente delle Regioni) che di fatto contribuiscono ben poco alla reale soluzione dei problemi.

La legislazione, a questo proposito, appare non semplice: ma tralasciando le soluzioni che prefigurano la costituzione di soggetti giuridici ad hoc, quali fondazioni o consorzi, mi sembra che la strada aperta dall'articolo 112 del Codice indichi correttamente l'accordo tra enti sulla base di un progetto di valorizzazione: e quando il progetto è chiaro, partecipato, in grado di offrire garanzie di tutela e standard qualitativi, e solo dopo che questo sia fatto, si può pensare alla gestione dei servizi; senza una qualche forma associativa, che assicuri una forte presenza dei musei sul territorio, nessun operatore di servizi potrà mai farsi avanti ed esercitare positivamente il suo lavoro (per la crescita dei luoghi, e nel contempo con il necessario ritorno economico di imprenditore).

Nel prefigurare la stesura di un accordo con progetto di valorizzazione non c'è una soluzione predefinita: a ogni ambito territoriale corrisponde una specifica presenza di musei e di siti, e quindi uno specifico progetto, che sta alla collaborazione tra Stato, Regione, enti locali mettere a punto, sulla base di un'attenta analisi delle strutture, delle loro potenzialità inespresse, delle esigenze, degli obiettivi. Certo non si tratta di mettere insieme difficoltà per distribuire i deficit di gestione, ma di creare opportunità di crescita di qualità scientifica, occupazionale e di offerta integrata al pubblico.


Abbiamo parlato più sopra di alcuni difetti che riconosciamo alla nostra azione e, più precisamente, la mancanza di appeal delle strutture museali destinate al pubblico e la lentezza e burocratizzazione nella tutela dei beni architettonici: ci si chiedeva, all'inizio, se la riforma organizzativa sia servita ad adeguare i nostri uffici, di stampo antico, a rispondere alle esigenze del mondo esterno. Semplicemente osserviamo che se la periferia del Ministero fosse considerata per il lavoro che è tenuta a svolgere, e dotata delle risorse necessarie, sarebbe stata già da tempo in grado di risolvere questi problemi.

Le riforme organizzative del Ministero (cinque in otto anni), la modifica delle leggi di tutela che ha dato vita al Codice "Urbani" e alle sue successive integrazioni, si sono innestate su un corpo ministeriale già assai gracile, che da sempre, fin dall'istituzione degli uffici regionali per la conservazione dei monumenti del 1891, lamenta un'endemica e gravissima scarsità di risorse e di personale, soprattutto tecnico. Ma ancor più grave e colpevole appare una situazione di questo tipo ai nostri giorni, quando si è presa coscienza delle aspettative della comunità e delle potenzialità civili e di promozione sociale che i beni culturali racchiudono nel loro stesso naturale statuto. Appare paradossale che, di riforma in riforma, non sia stata data alcuna risposta al complicarsi delle procedure introdotte dalla nuova legislazione e al moltiplicarsi dei livelli decisionali, al centro come in periferia. Persino l'istituzione delle direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici avviene "a costo zero", senza alcuna dotazione aggiuntiva di personale. È scontato affermare che nessuna riforma potrà mai dare frutti positivi se non sostenuta dalle risorse umane necessarie.

Una sola ulteriore considerazione: l'unica vera novità della riforma ministeriale sono proprio le direzioni regionali, che assolvono, tra tanti altri, al compito di relazionarsi con le istituzioni del territorio e di instaurare rapporti di collaborazione sulla base di accordi e intese: un compito importante che indica una pur timida scelta di decentramento interno. Questa scelta è tuttavia contraddetta da un assetto centrale del Ministero che non è stato affatto alleggerito: convivono infatti le direzioni generali centrali distinte per materia e quelle periferiche, le regionali, distinte per ambito territoriale e competenti su più materie, dalle quali dipendono direttamente soprintendenze, biblioteche e archivi di Stato. Si assiste così a sovrapposizioni e interferenze, a duplicazioni di procedimenti, che alimentano confusione, disperdendo le poche energie disponibili. Anche questa riforma tende a essere risucchiata dal peso di un centralismo in effetti mai accettato al centro.

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