Rivista "IBC" XVIII, 2010, 2

musei e beni culturali / progetti e realizzazioni, leggi e politiche, storie e personaggi

Ogni oggetto, anche il più dimesso, ha una storia da raccontare. E chi lo cataloga deve saperla ascoltare, per poi riportarcela. Questa storia inizia nel museo della Rocca di Dozza e porta con sé un'aroma inconfondibile...
Macinando caffè

Lorena Bianconi
[catalogatrice museale]
Gian Domenico Mazzocato
[scrittore]

"Bastavano pochi gesti semplicissimi. [...] Spesso, quando lo spettacolo era così orribile da sentirsi accapponare la pelle, ecco che cosa faceva: si sedeva, si metteva il macinino tra le gambe e cominciava a macinare il caffè. Istantaneamente, l'uomo o la donna cessavano d'essere cani".1 Già, macinar caffè. Nel testo di Jean Giono (un frammento dell'Ussaro sul tetto) l'atto di girare la manovella del macinino ha qualcosa di sacerdotale. È una sorta di evento sacro: grazie a esso la suora entrata in una casa colpita dal colera esorcizza il maleficio che incombe sui corpi senza vita. Mentre la polvere nera cade nel cassettino, il profumo si spande nell'aria e promette una bevanda calda e forte, da godere insieme. E così l'umanità torna a essere tale. Riscatta la condizione di ferinità a cui l'hanno condannata l'epidemia e la conseguente dissoluzione sociale.

La capacità di fabbricare il proprio cibo, trasformando culturalmente la natura grazie a un sapere maturato nel tempo, distingue l'essere umano dalla bestia. Il caffè, inteso come bevanda, non esistendo, di per sé, in natura, è in questo senso un prodotto culturale, cioè il frutto di una serie di operazioni complesse che, attraverso l'uso di una specifica tecnologia, trasformano il chicco verde, staccato dalla pianta, in alimento. L'atto del macinar caffè, parte del processo produttivo della bevanda, rappresenta quindi un momento fondamentale di questo rito di passaggio dalla Natura alla Cultura, la cui forza simbolica, evocata da Jean Giono, è in grado di ricondurre i malati di colera dalla condizione di abbrutimento a una temporanea parvenza di civiltà.2

Probabilmente, questa è anche una delle ragioni per cui il macinino da caffè, presente in quasi tutte le case tra Ottocento e Novecento, era considerato uno status symbol da esibire ed enfatizzare. Spesso troneggiava sulla credenza o in mezzo al tavolo della cucina. Un messaggio per gli ospiti: qui si respira agiatezza, si beve caffè. Esistono esemplari lavorati e abbelliti in modo incredibile, diventati ambìti oggetti da collezionismo: come il macinino di area lombarda, forse ottocentesco, dotato di una tramoggia in lamierino ondulato, una sorta di gonna plissettata rivolta verso l'alto. Scovato in un mercatino della bergamasca, strappato al venditore dopo un'estenuante contrattazione, restaurato con cautele infinite. In sé è un oggetto poverissimo, persino imbarazzante nel suo essere disadorno: ma con quanta pazienza e, verrebbe da dire, con quanto affetto è stata curata la tramoggia. Una sorta di trofeo.3

La storia del macinino come status symbol è di fatto sconfinata. Le cucine di Luigi XIV, il Re Sole, si avvalevano di una batteria preziosissima di macinacaffè: monoblocchi di legno pregiato e parti metalliche lavorate da artigiani abilissimi. Il più antico (con data incisa) è del 1702. Diderot e D'Alembert dedicano al macinino una tavola dettagliatissima della loro Enciclopedia. Quando la marchesa di Pompadour muore, il 15 aprile 1764, tutto il suo patrimonio viene ereditato dal fratello che lo aliena: in un atto di vendita del 24 gennaio 1765 viene inventariato un macinino in oro, con incisioni pure in oro e diversamente colorate. La francese collezione Malongo conserva il macinino personale di Napoleone, sopravvissuto al disastro di Waterloo. Il macinino era responsabilità diretta di Roustan che, come ci racconta anche Fëdor Dostoevskij, era il mamelucco guardia del corpo e cameriere preferito del Generale. Il macinacaffè imperiale era in metallo, di foggia orientale, probabilmente acquisito durante la campagna d'Egitto.

Non di rado le raccolte di collezionisti, antiquari, spesso cultori della cosiddetta civiltà contadina, hanno dato vita a mostre tematiche o sono entrate a far parte del patrimonio dei musei votati alla conservazione, allo studio e alla valorizzazione delle testimonianze materiali della vita e del lavoro rurali. È questo il caso, per esempio, del Museo della Rocca di Dozza (Bologna), all'interno del quale si trovano attualmente numerosi oggetti che il Comune acquistò, a partire dagli anni Sessanta, appunto da collezionisti privati locali: mezzi di trasporto, mobilio, attrezzi da lavoro, da cucina e, non casualmente, tre macinini da caffè.

I tre esemplari conservati presso la Rocca di Dozza sono molto diversi tra loro, dal punto di vista della struttura, dei materiali, delle modalità di fabbricazione, della provenienza e del pregio. Il primo macinino, di piccole dimensioni (18 centimetri di altezza, 11,5 di larghezza, 15,5 di lunghezza), è costituito da una parte più antica in metallo (la tramoggia, il meccanismo di macinazione, l'asse e la manovella), montata su un precario supporto di legno, di fattura chiaramente domestica. L'oggetto è con ogni evidenza il frutto, quasi commovente, di un recupero: la struttura di legno, molto deperibile, veniva infatti sostituita più volte nell'arco della vita di quest'oggetto, mentre la parte metallica, "immortale", poteva restare inalterata per decenni, ed essere quindi tramandata generazione dopo generazione. Il macinino apparteneva, in qualche modo, allo stesso patrimonio valoriale trasmesso negli anni e persino nei secoli. Una rievocazione della memoria affidata al gesto di macinare, al calore trasmesso dal palmo della mano al pomello consunto della manovella.

Il secondo macinino (altezza 82 centimetri, larghezza 42, lunghezza 78,5), proveniente dall'Alta Italia (forse Piemonte o Val d'Aosta), fabbricato intorno alla metà dell'Ottocento, è invece un oggetto piuttosto raro. La parte meccanica, in metallo, caratterizzata da una boule a sfera completa, è inserita in una struttura in legno, fissata su una panca. Quest'ultima fu certo aggiunta in un secondo momento, per rendere più comoda e, come si può capire, più solenne, la macinatura del caffè. Soprattutto la boule a sfera, abbastanza rara e anche di non facilissima realizzazione, rende questo esemplare particolarmente interessante.

Il terzo macinino, fabbricato interamente in metallo, è un esemplare di un certo pregio, benché nel tempo sia stato sottoposto a interventi che lo hanno radicalmente modificato, rendendone ardua la lettura. Originariamente, infatti, il meccanismo possedeva un doppio asse: da una coppia conica fuoriusciva lateralmente l'asse orizzontale, dove ora si vede una sorta di orecchia con due fori; mentre il superstite asse verticale pare sia stato prolungato fino alla sommità con una saldatura. La manovella, non originale, manca della presa di legno e risulta erroneamente montata sull'asse verticale. Si tratta, nella fattispecie, di un esemplare proveniente dall'Alsazia, prodotto dalla Mutzig-Framont, fabbrica fondata attorno al 1880, che sorgeva appunto a Mutzig, un centro non distante da Strasburgo. Sarebbe interessante sapere come e perché, dalla lontana Alsazia dove è nato, questo macinino sia approdato alla Rocca di Dozza!

Questo modello della Mutzig-Framont fa parte di una serie di macinini molto diffusa, clonata sul modello a doppio asse che la Peugeot mise in commercio nel 1907. La Peugeot, fabbrica oggi nota per la produzione di automobili, in origine produceva carpenteria e utensileria per la casa. A Sochaux, dove ha sede la casa madre, accanto ai saloni che ospitano le moderne monoposto di Formula 1, a fianco delle antiche automobili dalle preziose modanature, ancora oggi è possibile visitare il museo dei Moulins à Café. E forse qualcuno rammenterà che lo spot commerciale della Peugeot, in visione sui media in questi mesi, parte proprio dall'esplosione di un macinino. In Germania il modello fu ripreso dalla Goldenberg, e in Italia dalla Fratelli Bertoldo FB-Tre Spade, un'azienda tuttora esistente, che, come la Peugeot, ai primordi dell'automobilismo, cercò di commercializzare un suo modello di macchina. I destini delle due fabbriche, con tutta evidenza, si sono divaricati in direzioni diverse.

Il patrimonio museale della Rocca di Dozza è stato di recente oggetto di una campagna di catalogazione informatizzata, realizzata dal Centro regionale per il catalogo e la documentazione e finanziata dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna attraverso la legge regionale 18/2000. Utilizzando il programma informatico Samira e seguendo il tracciato della scheda ministeriale per i beni demoetnoantropologici materiali (BDM) è stato catalogato circa un centinaio degli oggetti attualmente conservati all'interno della cucina e dell'antica dispensa della Rocca: diversi recipienti da cottura, numerosi recipienti per la conservazione e il trasporto dell'acqua e per la conservazione degli alimenti, attrezzi da forno e da camino, piatti, boccali, vasi per grassi, un girarrosto, alcuni mortai con relativi pestelli, una madia, un cassone da farina, un torchio da lavanderia, una bilancia, alcune stadere, brocche, fiaschi, mattarelli, un torchio da pasta, una insaccatrice per salumi, una pressa per ciccioli, un tavolo con decoro, alcune forme da formaggio, due scaldini, uno scaldaletto, due bracieri e, infine, i tre macinini da caffè di cui si scriveva poc'anzi.

Proprio nell'ambito di questa campagna di catalogazione è stato possibile recuperare tutte le informazioni relative agli esemplari che qui sono stati brevemente descritti. La compilazione delle schede è stata infatti l'occasione per l'avvio di una ricerca che, tramite imprevedibili incontri virtuali e scambi di conoscenze tra persone con professionalità e competenze diverse, ha reso possibile il recupero di importanti dati, utili per contestualizzare e ricostruire la storia di questi oggetti. Emblematico, per i tempi che corrono, lo scambio epistolare scaturito, tramite Internet, tra gli autori di questo scritto: l'una bolognese, catalogatrice, specialista in storia dell'alimentazione; l'altro trevigiano, scrittore, nonché appassionato collezionista di macinini e curatore di una mostra che ha avuto luogo a Treviso nel 2008.4

Lo scambio ha successivamente coinvolto anche i francesi Jean Louis Fontaine, presidente dell'Association internationale des collectionneurs de moulins à café (AICMC),5 e, tramite lui, Jean Philippe Aumoine, esperto del marchio Mutzig-Framont: grazie a loro sono stati recuperati tutti i dati sul terzo macinino (riportati all'interno della relativa scheda catalografica e raccontati in queste pagine). Grazie all'avvio della campagna di catalogazione e alla catena di comunicazione da essa generata, insomma, questi tre macinini da caffè apparentemente insignificanti, conservati all'interno della Rocca, da Dozza, passando per Treviso, sono giunti fino alla Francia (ovviamente sotto forma di immagini digitali, realizzate sempre nell'ambito della catalogazione). E hanno assunto, così, una dimensione d'interesse extraregionale e persino europea.

Da questa storia emerge, con singolare evidenza, l'importanza della catalogazione museale, che in questo caso, oltre a essere stata una preziosa occasione per fare ricerca sugli oggetti e per conservare la memoria di importanti informazioni a essi legate, si è rivelata un "pretesto" per allacciare nuovi contatti e avviare proficui scambi di conoscenze tra persone provenienti da realtà professionali, regionali e nazionali diverse. Ora, grazie agli esiti della campagna di catalogazione, i tre macinini della Rocca di Dozza potranno senz'altro trovare una nuova e ancor più degna collocazione nell'ambito dell'allestimento museale. Una collocazione che, partendo da una solida base scientifica, costituitasi a partire da un confronto interregionale e internazionale, potrà davvero valorizzare questo patrimonio, mettendone in luce i pregi e le peculiarità.


Note

(1) J. Giono, Le hussard sur le toit, Paris, Gallimard, 1951 (traduzione italiana: L'ussaro sul tetto, Parma, Guanda, 2007, p. 181).

(2) Si veda: C. Lévi-Strauss, Le triangle culinaire, "L'Arc", 1965, 26, pp. 19-29; Idem, Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1996; M. Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2005.

(3) L'oggetto appartiene alla collezione privata di Gian Domenico Mazzocato (www.giandomenicomazzocato.it).

(4) L'arte di macinar nero. Da Pompadour a Napoleone, da Diderot a Washington, a cura di G. D. Mazzocato, catalogo della mostra (Treviso, 15 marzo - 12 aprile 2008), [senza luogo di edizione], [senza editore], [senza anno].

(5) L'AICMC ha sede in Francia e attualmente conta un centinaio di soci in tutto il mondo (aicmc.free.fr).

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