Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4

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Un libro può salvare la vita. O almeno aiutare a capirci qualcosa. È questa la consapevolezza che guida "Hamelin", l'associazione che da quindici anni promuove la lettura tra i ragazzi italiani. Intervista a Emilio Varrà.
Salvo chi legge

Evaristo Sparvieri
[giornalista]

La lettura come strumento per la costruzione della propria identità. È la convinzione alla base delle molteplici attività di "Hamelin", associazione culturale nata a Bologna nel 1996 per promuovere la lettura tra gli adolescenti (www.hamelin.net). Una prospettiva pedagogica e culturale che restituisce alla funzione narrativa, intesa nelle diverse forme della letteratura, dell'illustrazione e del fumetto, uno scopo propriamente umanistico: la formazione del lettore e, conseguentemente, dell'uomo del domani.

Mostre, convegni, seminari, laboratori. Una rivista quadrimestrale che alimenta spunti e riflessioni. Tra le tante e belle iniziative, il "Festival internazionale di fumetto", che elegge annualmente Bologna a capitale delle storie a strisce, e il progetto "Xanadu. Comunità per lettori ostinati": una serie di incontri nelle scuole di diverso grado, durante i quali viene offerto ai ragazzi un ventaglio di titoli che possano attrarre la loro curiosità. L'obiettivo è aprire uno spiraglio di riflessione su di sé e sul mondo e, attraverso la lettura, accompagnarli verso l'età adulta. Il progetto è capillare, a stretto contatto con professori e bibliotecari. "L'idea fondamentale" - spiega Emilio Varrà, una delle anime pensanti di "Hamelin", studioso e autore di numerosi libri sulla letteratura per ragazzi - "è che la rappresentazione dell'infanzia e dell'adolescenza sia in qualche modo uno specchio privilegiato per la comprensione del tempo e della realtà che si sta vivendo".


Emilio Varrà, perché "Hamelin"?

Eravamo un gruppo di laureandi del professor Antonio Faeti, che a Magistero insegnava Letteratura per l'infanzia. Ci incontravamo nei ricevimenti. È lì che è nata l'idea di continuare a lavorare sui libri per bambini. Col tempo ci siamo strutturati. I settori nei quali operiamo ora sono la letteratura per ragazzi, l'illustrazione e il fumetto. Ciascuno di noi ha una propria professionalità, ma manteniamo sempre una visione di insieme. Il nome? È un riferimento alla fiaba del pifferaio magico, ambientata nella città di Hamelin, invasa dai topi e salvata dal suono magico del piffero. Una fiaba con una conclusione controversa: per punire il borgomastro che si rifiuta di pagarlo, il pifferaio getta i bambini in un precipizio. Abbiamo pensato che il nome "Hamelin" rendesse bene l'idea che una città che perde l'infanzia rischia di raggiungere un grado zero.


Cosa si intende oggi con "letteratura per ragazzi"?

La definizione esiste dalla fine del Settecento. In quel periodo si è cominciato a pensare a una letteratura per ragazzi: romanzi, raccolte di racconti, fiabe, libri per istruire dilettando. Alcuni esempi sono Il principe e il povero di Mark Twain o le avventure di Tom Sawyer. Ma anche i libri della giungla di Kipling e l'Alice di Carroll. Sono grandi autori che hanno voluto indirizzare parte della loro produzione ai ragazzi. Opere importanti, leggibilissime anche dagli adulti, perché ogni etichetta rischia di essere limitativa. Poi ci sono i libri per gli adulti che i ragazzi eleggono a loro letture. È ciò che è accaduto con il Gulliver di Swift, che non era pensato per ragazzi, ma tra i ragazzi ha avuto grande diffusione. Per un periodo, anche Stephen King è stato molto apprezzato dai giovanissimi. Ma il discorso va affrontato su due piani.


Ovvero?

Un conto è una letteratura rivolta a questo pubblico, un conto è una letteratura che rappresenta questa fascia di pubblico. Sono due cose diverse, ma non si possono dividere. Respirano insieme. L'idea fondante deve restare la consapevolezza che la lettura sia uno specchio privilegiato di conoscenza. In questo momento, adolescenza e infanzia sono target commerciali privilegiati. Ma non sempre a quest'attenzione corrisponde un'altrettanto adeguata offerta culturale.


C'è carenza di letteratura di qualità?

La letteratura per ragazzi in Italia ha avuto un momento di grande rinnovamento. Dalla metà degli anni Novanta, ci si è accorti che si possono avere anche risultati economici. Poi è nato il fenomeno Harry Potter, eccezionale dal punto di vista del marketing e dell'immaginario collettivo. In passato c'era più attenzione nelle pubblicazioni. Adesso siamo di fronte a un dilagare, con il rischio che le cose buone vengano sommerse e non siano notate da genitori, insegnanti e ragazzi stessi.


Di fronte a questo scenario, come avvicinare a una letteratura di qualità?

È l'attività che incanala la maggior parte del nostro lavoro: andiamo in giro per biblioteche e scuole. Incontriamo i ragazzi per promuovere la lettura. Lavoriamo soprattutto con gli adolescenti. Scuole medie e superiori. I piccoli, per fortuna, sono ancora stimolati a leggere. Ci è sembrato più urgente intervenire sui ragazzi, perché spesso vivono il periodo in cui si abbandona. È un problema di resistenza e di dispersione che arriva fino agli adulti, segnando una parabola in discesa. Ed è su questo problema che cerchiamo di intervenire.


Con quale tipo di approccio?

Non vogliamo divertire raccontando. L'aspetto ludico è una conseguenza. Il vero obiettivo è far capire che i libri hanno a che fare sempre con le nostre vite. E che le vite dei personaggi e le vite delle persone sono l'una lo specchio dell'altra. Insegniamo loro a servirsi dello specchio delle storie finte. C'è un nostro progetto, "Le storie salvano la vita", che vuol dire proprio questo: attraverso le storie, tu puoi capire di più chi sei, chi hai attorno. I desideri, le paure, le passioni. Un aspetto fondamentale è che ci siano entrambi i poli: la storia e la vita. Spesso ci troviamo di fronte a ragazzine, grandissime lettrici, che non hanno ancora fatto un salto fuori dalla loro cameretta. O davanti a ragazzi a cui leggere non importa nulla. Sono due estremi da equilibrare.


È l'idea che portate avanti con "Xanadu". Anche qui un nome evocativo.

"Xanadu" è partito sei anni fa. È una parola che ci è piaciuta perché riguarda più linguaggi. È citata da Coleridge in Kubla Khan, è la reggia di Mandrake ed è la villa di Orson Wells in Quarto potere. Dopo averla scelta, abbiamo scoperto che anche uno dei primi progetti di biblioteca telematica universale era stato chiamato Xanadu.


Le biblioteche hanno un ruolo fondamentale.

All'inizio siamo partiti dalla Biblioteca comunale Sala Borsa e dalle scuole di Bologna. Col tempo ci siamo estesi in tutta Italia. Vengono distribuiti volantini a tutti i ragazzi delle scuole, con i titoli che consigliamo. Ogni scuola e ogni biblioteca partecipante si procura i libri. Un altro obiettivo del progetto è rinnovare le proposte delle biblioteche, molte delle quali scolastiche.


Come avviene la selezione dei titoli?

Sin dall'inizio abbiamo creato un gruppo di lavoro con bibliotecari e insegnanti. Scegliamo un tema da sviluppare. Per esempio, il prossimo tema sarà la paura, intesa come emozione da controllare. Lo proponiamo agli insegnanti verso giugno. E da lì si comincia a costruire una bibliografia di circa trecento titoli che studiamo durante l'estate. Ci scriviamo milioni di mail, facendo una selezione particolareggiata, valutando l'adeguatezza del libro e le possibili destinazioni in base alle fasce di età. I libri che scegliamo non sono necessariamente per ragazzi. L'importante è che presentino ingredienti adolescenziali.


Prestate attenzione a parametri di genere e di tecnica narrativa?

I criteri possono essere due: uno riguarda la costruzione dell'intreccio. Che deve catturare: dialoghi, tensione, ritmo narrativo. Sono elementi che guardiamo subito. Non perché un libro più "pesante" debba venire escluso, ma per indirizzarlo ai giusti lettori. Lavoriamo sul dosaggio. A un incontro con una prima superiore, il libro sarà di intreccio più forte, per attirare l'attenzione. L'altro elemento è lo spessore metaforico, nel senso che l'atmosfera complessiva di una storia o la costruzione di un personaggio devono avere una forte valenza metaforica. Spesso, per esempio, proponiamo libri noir. Alla base, la tesi che l'adolescenza è intrinsecamente noir: c'è malinconia, smarrimento, solitudine che contrasta con amori assoluti, ricerca del pericolo. Non è necessario che si rispettino i canoni di genere. L'importante è creare una sorta di lessico familiare e che ci sia una valenza simbolica sotto la patina superficiale dell'intreccio. In questo modo ci si avvicina alla modalità di lettura dei ragazzi, che è emotiva prima che cognitiva.


Li avvicinate anche a temi di attualità?

Droga, divorzio, intercultura, bullismo. Sono tutti temi che affrontiamo. Però bisogna metaforizzarli. Non ci interessano libri "ricettina". Ci interessa scavare a fondo. Mi viene in mente La promessa di Friedrich Dürrenmatt, dove il protagonista è un investigatore in pensione, divorato dall'ossessione di dare la caccia a un assassino. Con quel libro, lanciamo il messaggio che tutti possiamo diventare dipendenti da qualcosa.


E una volta selezionati i libri?

Andiamo nelle scuole. Raccontiamo le storie o ne leggiamo delle parti. Nessuna teatralizzazione. Interrompiamo in determinati punti le trame e facciamo domande: li interroghiamo su cosa dovrebbe fare il personaggio, chiediamo di riflettere sui crocevia morali che sta vivendo. Lavoriamo molto sull'educazione sentimentale: scelte, responsabilità.


Innescate meccanismi di immedesimazione.

Sì, facciamo identificare i ragazzi con il personaggio e in questo modo, pian piano, li vediamo aprirsi. Funziona pressoché sempre. Sono pochissime le volte in cui una classe non chiede di sapere il finale di una storia. Ma questo è solo il primo passo. Poi scatta il successivo: fare in modo che il ragazzo trovi da solo la volontà di mettersi davanti al libro, per leggerlo fino alla fine. Il primo passaggio è il trampolino per arrivare al secondo.


Un metodo adottato anche con fumetto e illustrazione?

Proporre insieme ai libri, con pari dignità, fumetti e illustrazioni, che raccontano storie con il supporto delle immagini, è un gesto che ancora spiazza i ragazzi. Le ragioni di questa scelta sono diverse: innanzitutto, perché queste forme narrative sono considerate sorelline povere della cultura. Uno degli obiettivi degli studi di Faeti, invece, è stato dimostrare che sono forme d'arte come le altre. Con capolavori e mediocrità. Si tratta semplicemente di una specificità di linguaggio. Non c'è gerarchia. Sentivamo il bisogno di appoggiare questa visione. L'altra ragione rientra nella pedagogia del visivo: bisogna educare allo sguardo. Piccoli e grandi [in proposito si veda, in questo numero di "IBC", il resoconto del progetto "Bologna a testa in su" di Ilaria Tontardini, ndr]. Il paradosso è che siamo immersi in una cultura dell'immagine senza avere i codici per leggerla. È un problema che si ripercuote anche sull'istruzione. C'è un crollo quasi generalizzato di professori che si occupano di cultura visiva, perché veniamo da una tradizione in cui l'immagine non è considerata all'altezza della parola. Oggi non possiamo più sostenere la subalternità del visivo. Basti pensare alle nuove tecnologie, che uniscono immagini e parole con modalità sempre diverse. Senza un alfabeto del visivo, si perde la capacità di leggere i colori, la composizione, il ritmo grafico, la gabbia di una tavola, il tratto.


Per questo "Hamelin" ha pensato di dedicare un festival internazionale al fumetto, uno dei linguaggi più pop della cultura visiva.

I festival sono concepiti con un approccio divulgativo. Non sono occasioni riservate agli appassionati. Il discorso sotteso, però, è alzare l'asticella. Il mondo dei balloons sta vivendo un periodo di importante trasformazione. Con l'eccezione del manga, si comincia ad avvertire una crisi del fumetto seriale. Sotto questo aspetto, l'ultimo grande eroe seriale è Dylan Dog, che ha toccato profondamente l'immaginario e continua ad avere successo. Ma, tolte le eccezioni, il fumetto si sta trasformando, accostandosi sempre più alle forme del racconto e del romanzo. Non vuol dire che stia aumentando di prestigio, diventando fumetto d'autore. Ciò che cambia è l'approccio. Nel senso che si è ampliato il narrabile: si può affrontare qualsiasi argomento. Un esempio è Maus di Spiegelman, il fumetto sull'Olocausto che ha vinto il Pulitzer. Il fenomeno è partito negli anni Ottanta. Negli ultimi dieci anni è arrivato anche in Italia, attraverso nuovi editori e nuovi autori. È esplosa la consapevolezza che il fumetto non è più solo un prodotto da edicola. Da questo processo sono scaturiti anche il graphic journalism, il biografismo e l'autobiografismo a fumetti.


Non crede che così stia perdendo il suo ruolo tradizionale, legato all'infanzia e a una diffusione popolare?

Alcuni rischi ci sono. Il fumetto per bambini è in diminuzione. Il prossimo festival approfondirà proprio questa dimensione, con incontri di autori e sezioni dedicate. Un altro rischio è che il fumetto diventi un genere di nicchia, perdendo quel tessuto di lettura di massa che forse è il destino di ogni linguaggio. È un rischio che corrono anche altre forme d'arte. Penso al cinema, che negli anni Sessanta era un fenomeno sia culturale che antropologico, esattamente come leggere i fumetti.


La cultura di massa, oggi, sembra riservata a internet e ai nuovi media. Concorrenti o alleati?

Io non riesco a essere apocalittico. Da quest'anno, per esempio, "Xanadu" è su Facebook, che tra i ragazzi è un grande canale di socializzazione. Ci sono però conseguenze da affrontare. La prima è che la quantità di informazioni può portare una maggiore superficialità, sostituendo l'informazione alla conoscenza. Detto questo, il nuovo non deve essere stigmatizzato, bisogna essere aperti ai cambiamenti e mantenere la dignità del "vecchio". Un problema grave, semmai, è di tipo educativo: questi nuovi mezzi prevedono un'attività del fruitore molto forte rispetto alla lettura che, nella concezione di un ragazzo, potrebbe essere vista come un'attività passiva, perché non sa riconoscere lo sforzo impiegato per riempire i buchi del testo. Allora il timore è che la staticità della pagina scritta sia considerata inaffrontabile. È un rischio di abitudine percettiva. La soluzione è far veder che aspetti del nuovo possono esserci anche in media "vecchi", per quanto magari più nascosti e da ricercare. In altre parole, ritengo che ogni dimensione monomediale rappresenti un pericolo.


In questi anni avete trasmesso ai ragazzi insegnamenti preziosi. Cosa avete imparato?

La cosa più forte che chiedono è un senso di autenticità. Bisogna conquistarsi credibilità, che vuole dire esserci in modo autentico. Tra i ragazzi c'è un grande desiderio di trovare persone più grandi che ci siano quando occorre e che diano risposte. Anche risposte a cui opporsi. In una società come la nostra, in cui l'universo adulto sembra aver smarrito la consapevolezza dei ruoli, continuando a farsi alcune grandi domande proprie dell'adolescenza, i ragazzi ci chiedono un punto di riferimento. La sfida è dura ma entusiasmante. Ed è il nostro sprone, la cosa bella, la fatica. A volte ci si riesce, altre meno. Ma, per "Hamelin", crescere conoscendo il vero valore della lettura deve essere un'occasione alla portata di tutti.

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