Rivista "IBC" XIX, 2011, 1

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi

Una ricerca su scala regionale conferma e rafforza il valore degli indicatori di biodiversità: uno strumento di base per conoscere, decidere, informare.
Misure per la biodiversità

Stefano Corazza
[IBC]

La biologia della conservazione (conservation biology) è nata nella seconda metà del Novecento come disciplina, o meglio come insieme di apporti interdisciplinari, che oltre alla biologia comprende anche l'ecologia, la sociologia, l'economia, la scienza dell'educazione e infine, più recentemente, la scienza e le nuove tecnologie dell'informazione: apporti che, nel complesso, sono orientati ad affrontare la crisi della biodiversità.

La Dichiarazione di Rio (1992) e la Convenzione per la diversità biologica hanno spinto la conservazione della biodiversità a divenire una priorità globale e hanno evidenziato come gli strumenti messi a punto con la conservation biology siano essenziali per disegnare politiche pubbliche, strategie, piani d'azione, e per affrontare a differenti scale (globale, nazionale, locale) la crisi della diversità biologica e i suoi impatti sulla natura, sulle economie e sulle culture di tutto il pianeta.

Si può dire che la ricerca finalizzata a individuare caratteri e parametri per tracciare e comunicare un'identità della diversità biologica meno inafferrabile di quella contenuta nella sua definizione sia iniziata già alla fine degli anni Sessanta, da quando ne è stato formulato il concetto, poi entrato nell'uso comune durante gli anni Ottanta del secolo scorso. La biodiversità, infatti, è un concetto estremamente complesso, che tra l'altro ha sfumature interpretative diverse, ed è difficile immaginare che possa esistere un'unica misura in grado di quantificarne lo status e la dinamica. Si deve poi riconoscere che la conoscenza dei legami ecosistemici fra le componenti della biodiversità è ancora generalmente bassa.

Da queste premesse derivano la necessità e l'utilità di selezionare e sviluppare dei "set di indicatori" in grado di misurare singoli aspetti della biodiversità e di rispondere, così, in maniera tanto più approssimata quanto più rispondente a specifici definiti propositi, sia alla domanda di conoscenza che alla richiesta di supporto nelle decisioni. Una fondamentale motivazione per lo straordinario sviluppo della ricerca e della crescita di interesse anche mediatico nei confronti della biodiversità e di misure che ne evidenzino lo stato di conservazione, avvenuto negli ultimi venti anni in tutto il mondo, sta nella progressiva presenza di normative che definiscono i contorni e i principi delle politiche pubbliche, e i limiti alle attività dei singoli per garantirne la conservazione. Normative che hanno generato strategie precise, articolate in tematismi e linee d'azione.

L'Unione Europea, agendo nel contesto della Convenzione per la diversità biologica, ha elaborato norme e strategie specifiche spesso più stringenti e coraggiose (la Direttiva "Habitat", la Strategia "Arrestare la perdita di biodiversità al 2010" e i relativi piani d'azione) e ha strumentato questo intervento con programmi di sviluppo che ne incorporano gli obiettivi (il VI Programma d'azione ambientale, il Programma "LIFE", i Programmi di sviluppo rurale, la Strategia per una gestione forestale sostenibile), con programmi di ricerca che ne considerano gli indirizzi (Framework Programs) e con una produzione normativa afferente a settori diversi (acque, aria, agricoltura, landscape e urban planning) e sempre più attenta a integrare la biodiversità nelle singole politiche settoriali.

Nello stesso tempo, la crisi ambientale riconosciuta a livello globale (fin dalla Conferenza ONU di Stoccolma, nel 1972) e la necessità di un crescente livello di coinvolgimento degli individui singoli e dei loro gruppi di interesse, ha prodotto una grande attenzione al tema dell'informazione ambientale e della sua disponibilità e accessibilità. Lo stesso principio 10 della Dichiarazione di Rio sullo sviluppo sostenibile (1992) fornisce una prima definizione di questa informazione come diritto esteso a tutti i cittadini e finalizzato a "partecipare" consapevolmente alle decisioni in materia ambientale, fondando così, implicitamente, la nozione di un "diritto" soggettivo a un ambiente sano e vitale.

Lo sviluppo normativo realizzato, da allora, sui temi dell'informazione e della partecipazione è stato considerevole, alimentato dalla stipula, a livello internazionale, della Convenzione di Aarhus (1998), a cui l'Unione Europea ha fornito un sostanziale contributo e che tuttora sostiene in via principale (19 dei 35 paesi sottoscrittori, al 2010, sono Paesi dell'Unione). Proprio nel contesto dell'Europa comunitaria sono maturate più prontamente le conseguenze applicative dei principi di quella convenzione, dapprima con la Direttiva "Aarhus" di recepimento nell'ordinamento europeo (2003), poi con la Direttiva "Inspire" (2007) e più recentemente con il lancio della strategia "Shared Environmental Information System" (2009). In questi ultimi provvedimenti normativi e programmatici entra prepotentemente in campo il tema delle nuove tecnologie per l'informazione, in quanto capaci di supportarne raccolta, organizzazione, diffusione, accessibilità e interoperabilità: prerogative che dovrebbero garantire, da un lato, una sempre maggiore fondatezza dei processi decisionali e, dall'altro, una sempre più diffusa e consapevole partecipazione del pubblico a tali processi.

L'evoluzione delle scienze e delle tecnologie dell'informazione finalizzate alla conoscenza dell'ambiente e del territorio può infatti a buona ragione essere considerata, anch'essa, conseguenza del riconoscimento di una crisi ambientale globale e della limitatezza delle conoscenze necessarie per affrontarla. Certo non è una conseguenza esclusiva, ma come negare i progressi determinati in questo campo dalla necessità (divenuta impellente negli ultimi trent'anni) di conoscere, analizzare e modellizzare i fattori responsabili del cambiamento climatico o semplicemente dell'evoluzione meteorologica? Una necessità che nasce dal bisogno di prevenire o mitigare eventi catastrofici, disegnando norme e regole per contenerne gli effetti.

Nell'ultimo quindicennio, almeno a partire dal fondamentale studio di Robert Costanza e altri pubblicato nel 1997 su "Nature", è innegabile anche l'importanza assunta dalla biodiversità come driver di nuovi temi da conoscere, nuovi dati da raccogliere e organizzare, nuovi modi di rappresentazione e comunicazione. Ne fa fede il monumentale rapporto dell'ONU pubblicato nel 2005, Millenium Ecosystem Assessment, che tratta in modo estremamente articolato e innovativo il tema dei servizi ecosistemici forniti dalla biodiversità.

Certo, fra le driving forces di questo sorprendente sviluppo, non può non essere riconosciuto un ruolo rilevante alla domanda formulata dagli apparati militari per le esigenze di controllo territoriale, o anche dagli apparati finanziari come assicurazioni, banche, grandi operatori del trading, che hanno l'esigenza di prevedere i rischi e di allocare le risorse sui mercati globali dei prodotti primari. Goodchild, che negli anni Novanta coniò il termine geographic information science, nel 2009 ha schematizzato i progressi compiuti dai sistemi e dalle tecniche di informazione geografica (progressi da lui stesso definiti sorprendenti per la rapidità con cui sono avvenuti), evidenziando come di questa informazione siano sempre più consentite:

· l'acquisizione, garantita da vettori aerei e satellitari, ma anche terrestri e sottomarini (con sistemi Radar o Lidar, sensori miniaturizzati, eccetera), senza trascurare il contributo che può essere fornito dall'informazione cosiddetta "diffusa" o spontanea, veicolata dal web 2.0;

· il posizionamento, grazie al GPS (Global Positioning System) e al RFID (Radio Frequency Identification);

· la disseminazione, soprattutto con l'evoluzione dei GIS (Geographic Information System) consentita dalla rete (GIS 2.0), la comparsa dei "geoportali" (2005) e dei "globi" Google Earth, Virtual Earth (2006);

· l'analisi, attraverso l'evoluzione dei GIS sempre più orientata all'utilizzatore (interfacce WIMP: Windows Icons Menus Pointer).


L'inquadramento normativo delle policies della conservazione a livello globale ed europeo, l'incremento delle conoscenze determinate da un impulso diretto e indiretto alla ricerca, l'accresciuta disponibilità e accessibilità delle informazioni e lo sviluppo delle nuove tecnologie per l'informazione costituiscono dunque le basi sulle quali è avvenuto lo sviluppo degli indicatori della biodiversità. Tuttavia, nonostante che il problema della misura della biodiversità interessi studiosi e specialisti da diversi anni, è solo nel nuovo millennio che il concetto di indicatore è divenuto rilevante nel mondo della ricerca come in quello della politica, nella gestione come nella comunicazione della biodiversità.

Il concetto di indicatore, l'individuazione delle caratteristiche e delle funzioni che gli vengono attribuite, i requisiti che deve possedere, sono stati oggetto di numerosi studi e ricerche, insieme al problema della scala di risoluzione degli indicatori, che costituisce un aspetto teorico rilevante ai fini dello sviluppo di una loro applicazione. Sia a livello globale ed europeo, sia a livello di singoli Paesi, sono stati proposti numerosi indicatori singoli e/o insiemi di indicatori (set), che ambiscono a fornire una narrazione approssimata ma esauriente dello stato della biodiversità, narrazione basata su dati quanto più possibile scientificamente affidabili.

Per espressa indicazione delle istituzioni comunitarie, e sotto la guida dell'Agenzia europea per l'ambiente, nel 2007 è stato sviluppato un set di indicatori di biodiversità costituito da 26 singoli indicatori "base" (Headline), specificamente individuati per monitorare i progressi compiuti nella regione Pan-Europea e in particolare quelli relativi all'obiettivo della Strategia "Arrestare la perdita di biodiversità al 2010".

Il set prodotto dal progetto "SEBI 2010 - Streamlining European 2010 Biodiversity Indicators" è considerato a livello internazionale il più strutturato, completo e scientificamente fondato per una scala regionale (geopolitica) e un modello da imitare. Il set è già stato testato tra il 2009 e il 2010 per valutare i progressi della strategia europea. Il sostanziale fallimento di questa strategia è stato posto all'attenzione degli organismi decisionali dell'Unione, che ne hanno formulato una revisione e una riproposizione proprio negli ultimi mesi: per la metà del 2011 è prevista la finalizzazione del processo decisionale (biodiversity-chm.eea.europa.eu/).

Rimane forte il richiamo a un impegno di tutte le istituzioni, a qualunque scala di competenza (da quelle nazionali a quelle locali), perché intraprendano una decisa azione per la salvaguardia della biodiversità e per il mantenimento dei servizi ecosistemici da essa sostenuti, costruendo una capacità gestionale mirata specificamente a tale obiettivo e dotata di strumenti di conoscenza e gestione appropriati. Tra questi, spicca in particolare l'utilizzo degli indicatori, indispensabili per supportare decisioni tecnicamente e scientificamente fondate e strutturare una comunicazione con il pubblico.

Dalla metà del 2009, con una prima conclusione dell'iter decisionale con l'approvazione da parte della Conferenza delle Regioni nell'ottobre 2010, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha realizzato una "Strategia nazionale per la biodiversità", primo vero adempimento italiano della Convenzione per la biodiversità ratificata dal nostro Paese nel 1994. La "strategia italiana" ha tra i suoi scopi anche quello di realizzare una rete nazionale per la biodiversità con finalità non solo informative ma anche di coordinamento delle iniziative realizzate alle diverse scale territoriali (locale, provinciale, regionale).


Oltre ad analizzare in dettaglio tutti i temi sopra solo accennati, la ricerca svolta dallo scrivente nell'ambito del corso di dottorato dell'Università IUAV di Venezia "Nuove Tecnologie Informazione Territorio Ambiente" ha realizzato un test di applicazione e sviluppo di indicatori della biodiversità alla scala regionale (in particolare nella Regione Marche), a partire dal riferimento costituito dal set "SEBI 2010". Tale test è sembrato il modo migliore di costituire un punto di riferimento per far partire a livello subnazionale una coerente azione di conservazione, come negli auspici delle strategie per la biodiversità che puntano al 2020 e oltre.

L'analisi svolta si articola sull'individuazione della rilevanza e della significatività del singolo indicatore nel contesto politico, istituzionale, programmatico della Regione Marche. In alcuni casi vengono sviluppati subindicatori ritenuti significativi alla scala in cui si opera e non presenti tra gli indicatori europei, ma coerenti con l'impostazione concettuale originaria. Viene inoltre esaminata la disponibilità di dati necessari al popolamento e ne vengono evidenziati i limiti. Sono infine sviluppate le elaborazioni dell'indicatore in forma grafica e/o tabellare semplificata, e ne vengono dichiarati i limiti di attendibilità e le potenzialità di sviluppo.

È stata impostata a livello metodologico, e in parte sviluppata, anche una scala subregionale di sperimentazione, che si è convenuto di individuare nelle aree protette, cioè i parchi e le riserve marchigiani, in virtù della considerazione fondamentale che la loro specifica missione istituzionale comprende esplicitamente (pur con maggiore o minore enfasi) la conservazione della biodiversità. Un ambito e una scala di lavoro che meriterebbe un lavoro a sé stante, anche per l'accento che in tutte le sedi istituzionali (da quelle globali a quelle europee, per arrivare, sembra, anche a quelle nazionali) si viene ponendo sulla dimensione "locale" dell'agire per la conservazione della biodiversità e sul ruolo rilevante che i cittadini potrebbero/dovrebbero avere.

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