Rivista "IBC" XIX, 2011, 1

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

Con una mostra a lungo sognata, Forlì ritrova il pittore quattrocentesco dell'umana bellezza. E si riscopre capitale del Rinascimento.
Melozzo a me sì caro...

Elisabetta Landi
[IBC]

"La bellezza" - scriveva Marsilio Ficino nel Quattrocento - "è principalmente assoluta perfezione e grazia della forma che per influsso della sua idea risplende nel corpo". Dell'equilibrio tra idealità e natura, riflesso e sorriso della divinità sulla terra, Melozzo degli Ambrogi (1438-1494), in arte Melozzo, fu l'alfiere. Forlivese, questo pittore "bellissimo e solare", protagonista di un percorso che in pieno Quattrocento coinvolse i più bei nomi della pittura italiana, soffiò uno spirito vitale sulla geometria della prospettiva, e collegò con un filo sottile Piero della Francesca a Raffaello, evolvendo la misura dell'Umanesimo verso la perfezione della figura, canone formale per tutto il creato. Fu un riformatore, ma non soltanto della civiltà artistica romagnola, quanto, piuttosto, di quella nazionale. "Senza Melozzo difficilmente si spiegherebbe Raffaello", scrive Antonio Paolucci. E, difatti, è nella sua produzione che si snoda la parabola dell'"umana bellezza". A questa parabola, nel nome del suo pittore, Forlì dedica oggi una grande mostra, organizzata dai Musei di San Domenico in collaborazione con i Musei Vaticani, la Galleria nazionale delle Marche e quella dell'Umbria, la Pinacoteca di Brera e le Soprintendenze di Bologna, Firenze, Napoli e Roma.1

Già in passato, Melozzo era stato oggetto di esposizioni: nel 1938 aveva conosciuto un momento di gloria nella manifestazione indetta dal regime fascista, che però, auspice un capo di Stato romagnolo, non aveva colto la centralità del maestro, limitandosi a illustrarne il genio in rapporto all'ambito locale, da Palmezzano a Nicolò Rondinelli, dagli Zaganelli a Baldassarre Carrari. E del resto, nonostante la cura scientifica di Roberto Longhi, Cesare Gnudi, Carlo Ludovico Ragghianti e Luisa Becherucci, si può dire che in quell'occasione - poco incline alla collaborazione la Santa Sede, e mancanti i famosi angeli dei Musei Vaticani - Melozzo fu il grande "assente". Poi, nel 1994, ecco un altro evento: la rassegna forlivese "Melozzo. La sua città e il suo tempo" allestita all'Oratorio di San Sebastiano e in Palazzo Albertini, e corredata, in catalogo, dal bel saggio di Stefano Tumidei.

Ma a Forlì mancava, ancora, una sede espositiva unitaria, dove raccogliere l'opera omnia del pittore, integrata in seguito da restauri eccellenti. E bisognava affrontare, per giunta, un progetto più ampio: inquadrare l'artista nella Roma di Sisto IV e dimostrarne la responsabilità nell'affermazione dell'idea centrale del Rinascimento, quella, appunto, dello splendore e del "tepore" dell'umana bellezza (Paolucci); una bellezza visibile, espressione di quella che non si vede e che però si capta, attraverso le immagini, immediatamente e intuitivamente. Per questo sfilano, nelle sale, le opere selezionate da Antonio Paolucci, Mauro Natale e Daniele Benati, curatori dell'iniziativa. Sono capolavori del Beato Angelico, del Mantegna, di Piero della Francesca, Paolo Uccello, Ghirlandaio, Donato Bramante, Perugino, Antoniazzo, Signorelli e del giovane Raffaello: quasi una sintesi della rinascenza. E, d'altra parte, l'assunto dell'esposizione è chiaro: veicolare con un linguaggio semplice ciò che accadde in quell'irripetibile congiuntura, quando i princìpi dell'Umanesimo e l'ordine stesso del creato si calarono nel tempo e nella storia, e tra il Tevere e l'Arno parve rivivere l'età dell'oro. Non è un caso, allora, che tavole del Perugino e di Raffaello giovane siano rappresentate nella sala ovale, per testimoniare, accanto all'Ebe del Canova, l'evoluzione stessa dell'idea del Bello.

Così, Forlì si qualifica come una città d'arte, e si allinea ai centri del Rinascimento, quelli stessi dove si svolse la vicenda artistica di Melozzo. Che cominciò in Romagna. La sua formazione è oscura, ma sappiamo che fu attratto dalle novità: a Rimini, dove studiò pittura, aveva visto le architetture di Leon Battista Alberti e aveva avuto modo di ammirare Piero. Ebbe contatti con Padova, il che voleva dire la scultura di Donatello e il Mantegna degli Eremitani, anche se quell'ambito figurativo gli era già noto, perché in area romagnola insistevano orientamenti veneti. A Imola lavorò il Pelosio, veneziano, autore dei due fondi oro che aprono il percorso della mostra (Santa Maria Maddalena, San Gerolamo), e fu un forlivese, Ansuino, impegnato nella cappella Ovetari (1451), ad aprirgli la strada nella città del Santo. Che Melozzo avesse visto le opere del Mantegna, e la Santa Eufemia proposta dall'esposizione, si intuisce nei due pannelli con l'Annunciazione (Firenze, Uffizi), dipinti, al verso, con San Giovanni evangelista e San Prosdocimo, vescovo di Padova, arricchito da un panneggio virtuosistico degno del Lendinara.

Nel 1469 eccolo a Urbino, tappa obbligata per l'aggiornamento in materia di prospettiva, ospite di Giovanni Santi, il babbo di Raffaello, che di lui scrisse: "Melozzo a me sì caro, che in prospettiva ha steso tanto il passo". Fu in Montefeltro, infatti, "tra matematica e natura", che il forlivese perfezionò l'ambientazione delle figure e scaldò con un'umanità nuova la misura di Piero. "La pittura non è se non dimostrazioni di superficie", aveva scritto nel De prospectiva pingendi il maestro di Sansepolcro. Sì, ma si trattava di un'incantevole superficie. Quella, per esempio, della Madonna di Senigallia, gioiello dell'esposizione, con il pulviscolo luminoso che entra dalla finestra, gioca sui capelli dell'angelo e cattura lo sguardo del visitatore. Se la cultura urbinate si era aperta alla Toscana - presente, a Forlì, anche con Paolo Uccello: Miracolo dell'ostia - a Urbino portarono altre novità gli intarsiatori nordici dello studiolo e i pittori di cultura fiamminga, Giusto di Gand e lo spagnolo Berruguete, ai quali Federico aveva affidato il ciclo degli Uomini illustri. Per raggiungere il Montefeltro, il Berruguete era pur transitato in Romagna, e lì era brillato un riflesso dei modi flandro-iberici, rimasti nella Madonna del Maestro di Valverde (Imola, Museo diocesano) e nella Pala Bertoni del Museo civico di Faenza, opera di un romagnolo.

Tutti questi elementi si fusero nella tavolozza del forlivese. Il quale, superata l'interpretazione matematica della prospettiva, contava su una professionalità non comune. Così, quando nel 1464 si mise in viaggio verso Roma, portava nella tavolozza i colori del Beato Angelico, la luce di Piero della Francesca e padroneggiava l'arte "la più difficile e la più rigorosa": quella, per intenderci, "del sotto in su". Cominciò nella città eterna l'avventura artistica di Melozzo, che da Melotius pictor si apprestava a diventare Pictor papalis. Sul soglio di Pietro, allora, sedeva l'uomo giusto. Sisto IV, della famiglia della Rovere, aveva in mente un progetto grandioso, una renovatio urbis nella quale a lui, il pontefice, sarebbe spettato il compito di avviare un'alleanza tra la Chiesa e la cultura, asse portante della storia artistica di Roma, e non solo. L'atto simbolico fu, nel 1475, l'istituzione della Biblioteca Apostolica Vaticana, aperta agli studiosi e diretta da Bartolomeo Sacchi, detto il Platina. Toccò a Melozzo raffigurare l'evento, e così, nella Sala Latina, eseguì un affresco spettacolare. Cuore della rassegna, La nomina del Platina lascia per la prima volta i Musei Vaticani e si presenta al pubblico delle mostre. Poche opere sono emblematiche e cariche di significato quanto questo manifesto di una politica culturale. Sfilano, nel dipinto, i protagonisti della corte papale, e tra questi Giuliano della Rovere, il futuro Giulio II, e, rappresentato postumo, il cardinal Riario. L'ispirazione è evidente: dagli invasi prospettici di Piero della Francesca al confronto con Raffaello, fino alla fedeltà "fiamminga" ai connotati reali.

La fiducia del pontefice, Melozzo se l'era conquistata, qualche anno prima, con gli affreschi nell'abside dei Santi Apostoli (1472-1474): era un'impresa mozzafiato, con il Risorto in ascesa contro un cielo terso e tanto ben scorciato che, come osservò il Vasari, sembra che "buchi la volta"; tutt'intorno gli angeli musicanti. Oggi, distrutta nel 1708 l'integrità dell'insieme, i frammenti sono dispersi in più sedi: al Quirinale il Cristo benedicente con i cherubini e ai Musei Vaticani gli angeli e, appunto, i santi apostoli. È questa, certamente, la sua opera più popolare. Come gli angeli di Raffaello, finiti sulle t-shirt, gli adolescenti alati del forlivese sono diventati il simbolo di una soavità ideale, cui non manca la vivacità. Melozzo, in effetti, fu il pittore degli angeli, come il suo allievo Marco Palmezzano.2 Spetta ai messaggeri celesti, e alle figure in scorcio, costruire lo spazio, con il movimento e con la grazia della fisicità. Una fisicità, però, funzionale allo spirito. Del resto, per Ficino il bello è la grazia che "per il raggio divino si infonde negli angeli, poi negli uomini [...] e nel dilettare rapisce, e nel rapire d'ardente amore infiamma". Come dire: l'anima del neoplatonismo.

Dopo la congiura dei Pazzi, Lorenzo il Magnifico aveva inviato a Roma, come ambasciatori di bellezza, i maestri toscani, provenienti dall'ambiente neoplatonico fiorentino, rappresentato in mostra da opere celeberrime, e tra queste la Giuditta di Botticelli e il San Gerolamo del Ghirlandaio. Sisto IV se li era subito accaparrati, e a loro aveva affidato la sua impresa più importante: la decorazione della "cappella magna", la futura Cappella Sistina. Nel grande invaso si sviluppava un progetto iconografico inteso a proclamare l'autorità dell'istituzione ecclesiastica, che sarà poi tenuto presente nell'organizzazione pittorica del presbiterio della Santa Casa. È a Loreto che il forlivese lasciò un altro, impareggiabile capolavoro: gli affreschi della volta della sagrestia di San Marco (1484-1493). Sulla cupola, divisa in otto spicchi, gli angeli con i simboli della Passione (le arma Christi della tradizione medievale) scorrono sulla lucentezza dei marmi della finta architettura, un precedente imprescindibile per lo sviluppo della pittura illusiva. È un gioco abilissimo di "dentro e fuori", reso ancora più efficace dal diffondersi della luce che, sul soffitto, tiene conto della posizione delle finestre reali e stacca dal fondo le figure, che sembrano lievitare, sospese, come in un caleidoscopio. La spettacolarità potenziale dell'insieme non è sfuggita agli organizzatori della mostra, che hanno colto l'occasione per inserire l'affresco nel percorso espositivo con una suggestiva visualizzazione in 3D, ottenuta grazie a una tecnologia stereoscopica capace di restituire l'effetto di profondità e di evidenziare i particolari con rotazioni e ingrandimenti.

Non c'è dubbio che con l'impresa lauretana Melozzo si avviasse verso la "maniera moderna", introdotta in Romagna al suo rientro a Forlì, e consegnata, come in un passaggio di testimone, a Marco Palmezzano, subentratogli nel cantiere della cappella Feo (1495). Per questo, dopo un omaggio al Perugino, presenza artistica sovranazionale e primo esempio di unificazione del linguaggio visivo, il percorso della mostra prosegue con Raffaello giovane, rappresentato dal Busto di angelo della Pinacoteca "Tosio Martinengo", dal San Sebastiano dell'Accademia Carrara, e dall'Eterno e la Vergine del Museo di Capodimonte. Dipinti celeberrimi, immancabili nei manuali di storia dell'arte, questi capolavori testimoniano la raggiunta sintesi di natura e ideale, a cui la mostra ha dedicato l'ultima sala. Quella, come si diceva, dove l'Ebe del Canova addita ulteriori e possibili traguardi alla ricerca dell'umana bellezza.


Note

(1) Si veda il catalogo della mostra (Forlì, Musei di San Domenico, 29 gennaio - 12 giugno 2011): Melozzo da Forlì. L'umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello, a cura di D. Benati, M. Natale, A. Paolucci, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2011.

(2) Si veda in proposito: E. Landi, Di nuvole e d'angeli: il ritorno del Palmezzano, in Il convento ritrovato. Una stagione di restauri nel complesso di San Domenico a Forlì, a cura di L. Masetti Bitelli, Dossier "IBC", XIV, 2006, 1, pp. 78-80.

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