Rivista "IBC" XX, 2012, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / interventi, leggi e politiche, storie e personaggi

Addio a Guido Fanti. Già sindaco di Bologna e primo presidente della Regione Emilia-Romagna, a lui si deve la nascita dell'Istituto regionale per i beni culturali.
Anni Settanta: le ragioni di una scelta

Guido Fanti
[già sindaco di Bologna e presidente della Regione Emilia-Romagna]

Nella notte del 10 febbraio 2012, mentre infuriava una nuova nevicata, si è spento Guido Fanti. Prima sindaco di Bologna e più tardi presidente della Regione Emilia-Romagna, Fanti aveva lungamente studiato ed elaborato inedite tecniche di decentramento territoriale. Insieme a Pier Luigi Cervellati, Fanti - ancora sindaco - aveva varato nel 1969 le norme che tutelavano la conservazione della collina di Bologna, tuttora valide, come pure quelle relative al centro storico della città: le stesse che recentemente sono state rese inutili dalle decisioni della ex giunta Cofferati-Merola, e che hanno provocato demolizioni nel centro storico di Bologna, come quella attuale e ben visibile di Piazza VIII Agosto.

Fanti aveva avuto l'intelligenza politica e il deciso rispetto per la storia che lo avevano indotto a realizzare la mostra "Bologna Centro Storico", la stessa che nel 1970 proponeva il vincolo ambientale per la sua città. Alla sua decisione avevano contribuito anche le cosiddette "Campagne di rilevamento", indagini di studio del paesaggio che, nel corso di quattro anni, si erano spinte sull'Appennino e nella pianura, per studiare la forma delle campagne e l'orizzonte di quelli che già si intuivano essere i "beni utili", i quali costituivano, come oggi e più che mai, un prezioso patrimonio comune. Un vero contributo a questi anni venne da Paolo Monti, forse il maggior fotografo europeo di paesaggio e di ambiente urbanistico.

Guido Fanti, con la collaborazione particolare di Cervellati, di Giuseppe Guglielmi, di Lucio Gambi (un grande geografo dell'uomo, coordinatore della Storia d'Italia dell'editore Einaudi, che veniva diffusa proprio in quegli anni) e di Andrea Emiliani, fondò l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, uno tra i quattro istituti di valore conoscitivo e sociale ancora oggi fortemente attivo con la presidenza di Angelo Varni, da poco succeduto a Ezio Raimondi. L'IBC, come correntemente oggi si chiama, aveva il compito di indagare le ragioni di una intelligenza dei problemi storici ed ambientali, al di là delle leggi di tutela e di conservazione dello Stato, un'intelligenza che oggi sta riprendendo vigore anche di fronte alla necessità dei giovani, per la gran parte stanchi della dimensione ideologica e partitica eccessiva. Valori della città storica come tradizione della forma agricola e necessaria conoscenza delle origini erano le proposte di un lavoro che allora parve ed è ancora moderno quanto impegnativo. Sono questi i beni immateriali ai quali è necessario oggi rivolgere la nostra attenzione.

È importante ricordare il suo impegnativo colloquio con Giovanni Spadolini, nel 1974 ministro per i beni culturali, che nel fondare il ministero stesso pubblicava il suo libretto intitolato Una politica per i beni culturali. Dal suo punto di vista, Fanti rispondeva con la creazione dell'IBC e con la pubblicazione di una ricerca intitolata Una politica dei beni culturali, che nella sostanza divulgava lo statuto stesso dell'Istituto bolognese ancor oggi decisamente attivo tra le scarse istituzioni di valore culturale di nascita e di attività regionale in Italia. A quello statuto è oggi ancora necessario rifarsi per conoscere livello e qualità, certamente non soltanto politiche, del lavoro e della ricerca.

Guido Fanti, politico particolare di quegli anni, ha vissuto i tempi nei quali un grande soprintendente come Cesare Gnudi e un critico d'arte di straordinaria intelligenza come Francesco Arcangeli diedero un sensibile contributo all'intera regione e all'Italia. Per non parlare della fondazione, nel campo degli studi, del DAMS e della sua proposta di riforma del lavoro universitario.

[Andrea Emiliani]


Insieme al messaggio che Andrea Emiliani ci ha affidato a poche ore dalla scomparsa di Guido Fanti, per unirci al suo ricordo, abbiamo scelto di riproporre un articolo che Fanti scrisse nel 1993 per la rivista "IBC".1


Il campo culturale si presenta come pochi altri storicamente predisposto all'intervento regionale e locale perché solamente riconducendo la responsabilità politica direttamente alle istituzioni territoriali si può rianimare l'interesse e la partecipazione popolare alla vita culturale del territorio.

La tutela separata dalla fruizione in campo culturale non ha senso alcuno, non si può tutelare efficacemente il patrimonio storico, artistico e ambientale senza riconoscere il preminente interesse per la collettività, la funzione di pubblico servizio attivo e non solo mera conservazione dei beni, ma risorsa anche economica che va messa in valore.

Agli inizi degli anni Settanta il problema centrale di ogni politica culturale era di essere consapevoli che solo affrontando globalmente in ogni aspetto il patrimonio culturale si poteva cercare di salvaguardarlo e di usufruirne per limitare i danni della degradazione ambientale e territoriale raggiunta dal Paese.

Lo sviluppo dell'attività regionale nel settore della tutela e catalogazione dei beni culturali e naturali fu all'origine della nascita dell'IBC, cui si dedicarono fin dall'inizio a idearne finalità e assetti istituzionali, assieme all'assessore della cultura di allora Angelo Pescarini, Pier Luigi Cervellati, Andrea Emiliani e Alberto Predieri.

La discussione che si aprì con molta ampiezza pose in evidenza l'esigenza di un generale intervento pubblico sui gravi problemi del settore, la cui dimensione era e rimane quella nazionale, tale da richiedere, ancora oggi, nuove misure legislative che tardano ormai da oltre cinquanta anni.

La Regione Emilia-Romagna cercò allora di convolgere i diversi soggetti del campo culturale, come associazioni, enti, istituti, organizzazioni e operatori culturali nel dibattito sull'intervento pubblico, stimolando una discussione generale che affrontasse globalmente i problemi non solo di settore.

Nelle sue linee programmatiche si venne a delineare un istituto che intendeva privilegiare la conoscenza della realtà regionale e delle sue condizioni storico-culturali, attraverso il potenziamento in ampiezza e profondità di un intervento pubblico rinnovato nei metodi e nei contenuti.

Si trattava di definire, sulla base di una metodologia rigorosamente scientifica, un'azione conoscitiva propedeutica e direttamente funzionale alla politica di piano della regione e degli enti locali, superando la vecchia visione della conservazione come momento settoriale e puntando a una conservazione globale del patrimonio storico e naturale che permettesse una valorizzazione e anche un uso più accorto dei servizi culturali offerti al pubblico.

L'impegno politico di fondo fu quello di favorire l'acquisizione e l'utilizzo sociale del patrimonio, catalogandolo e difendendolo con una politica di programmazione che indicasse nel territorio il punto essenziale di riferimento e il momento edificante di ogni scelta di investimenti nel rispetto delle singole identità.

Regione, comuni, province e comprensori dovevano partecipare direttamente alla vita e alla direzione dell'istituto, con una proposta tesa a trasferire le scelte culturali nelle mani delle assemblee democratiche elette e sorrette dalla collaborazione e dall'apporto ideale e pratico del mondo della scuola, dell'università e della cultura in modo sostanziale.

L'istituto doveva seguire metodi interdisciplinari per poter conoscere globalmente e in modo analitico la realtà del Paese e attuare una politica di pianificazione che incidesse nella realtà culturale e politica delle comunità locali.

In sostanza la concezione organica e unitaria dei problemi culturali della regione doveva servire a collegare l'intervento pubblico, anche se variamente articolato, nei diversi settori dell'istruzione, della formazione professionale e della salvaguardia del territorio, per stabilire un piano di crescita della società civile compatibile alle esigenze e ai bisogni dei cittadini.

Collateralmente al processo di creazione dell'istituto si era venuta a delineare una complessa attività legislativa che produsse, oltre alla già citata legge per la tutela e la conservazione dei centri storici, la legge per la formazione di una cartografia regionale, per una visualizzazione di grande rilievo sul piano didattico e conoscitivo della collocazione geografica dei beni culturali e ambientali; una legge per corsi di formazione per operatori di musei e biblioteche e addetti alle attività conservative dei beni culturali; una legge per la promozione culturale volta alla promozione della cultura e dell'informazione locale intesa come servizio sociale e ciò in rapporto con il programma di estensione regionale dei consorzi di pubblica lettura e la promozione di enti culturali con la collaborazione attiva delle associazioni presenti nella regione; una legge per lo sviluppo programmato dei consorzi di pubblica lettura e delle biblioteche intese come centri culturali polivalenti direttamente legati all'IBC, e per la promozione di forme di coordinamento tra le biblioteche delle province.

Si è, inoltre, incentivata una complessa attività editoriale, si sono realizzati anche numerosi interventi nel settore dei musei con erogazioni finanziarie per l'installazione di impianti antifurto, per l'ammodernamento e il potenziamento dei servizi bibliografici e per restauri che saranno un impulso per l'intervento organico dell'IBC; parallelamente, in una concezione unificante della cultura con la natura, rientrano le iniziative per la tutela dell'ambiente e la salute degli uomini, come le prime misure adottate dalla Regione per il controllo permanente del grado di inquinamento idrico e atmosferico in tutto il territorio.

Oltre alle succitate leggi e interventi svolti dalla Regione nella prima legislatura, dobbiamo anche ricordare la decisa partecipazione, assieme alle altre Regioni, per una riforma del settore radiotelevisivo nazionale e per una nuova politica dell'informazione.

La Regione operò quindi, fin dal suo esordio, considerando come momento di rilievo decisivo, nel disegno di una politica globale rivolta in primo luogo alla crescita civile e culturale del singolo e della società, quello connesso alla cultura e alla promozione culturale.

Si voleva che il mondo politico e il mondo culturale fossero chiamati a rispondere positivamente a un bisogno sempre più pressante del nostro tempo: quello di creare nessi organici fra scienza e tecnica, fra cultura e tecnologie, fra scuola e società, fra istituzioni culturali e scuola, fra attività artistiche e di spettacolo, fra scuola ed estensione sociale della committenza, fra mezzi di comunicazione di massa e formazione di una coscienza critica dei contenuti trasmessi e quindi fra gli intellettuali e le istanze elettive dello stato democratico.

Ciò al fine di creare le premesse, le condizioni e gli strumenti di una cultura finalizzata all'uomo e alla società in cui vive, secondo una concezione nuova, armoniosa e paritaria del rapporto uomo-ambiente, sia naturale che storico, secondo una visione interdisciplinare e unificante dei beni culturali e nella prospettiva della loro effettiva fruizione sociale. In un nuovo orizzonte dove le conquiste scientifiche e tecnologiche, assieme alle inespresse potenzialità delle giovani generazioni, potessero arricchire la qualità della vita sociale e naturale, separando definitivamente i legami soffocanti fra potere economico e campo culturale, liberando dai soli vincoli di mercato l'arte e gli eventi culturali.

L'istituto, assieme agli altri costituiti allora, si collocava in questo ampio disegno che dalla Costituzione muoveva i primi passi nella direzione di una società e di uno stato pluralistici, nel rispetto delle libertà di espressione, di ricerca, di confronto dialettico di idee e di posizioni politiche e culturali diverse, in un rapporto moderno fra lavoro, arte, scienza e territorio. La riflessione sul cammino percorso dall'IBC dovrà dire quanto di questa ispirazione iniziale abbia retto alla prova del tempo, quanto si sia dovuto e saputo modificare e adattare al mutamento dei programmi e dei contenuti dell'azione regionale.

Comunque l'IBC ha saputo dimostrare la sua vitalità, affermandosi anche come punto di riferimento non solo nazionale, contrariamente alla fine degli altri istituti nati nell'ambito di uno stesso disegno generale che nell'insieme non è certamente uscito vittorioso nell'arco di questi venti anni.


Il perché di una sconfitta

Dopo la prima legislatura (1970-1975) l'analisi del lavoro delle Regioni, dopo l'entusiasmo e la speranza dei primi cinque anni, rivelò due dati preoccupanti. Il primo riguardava la produzione legislativa delle varie amministrazioni regionali, dove apparve netto il divario qualitativo tra i vari modi di essere delle Regioni. Il secondo riguardava i risultati complessivi, con un giudizio di fondo che sottolineava il divario netto fra gli indirizzi programmatici, le volontà rinnovatrici presenti in tutti gli statuti regionali e la loro concreta traduzione in positiva e organica normazione legislativa nei vari campi d'intervento.

Ma è sul terreno dell'azione specifica di governo che il divario fra utopia statutaria e realtà operativa ha contrassegnato e contrassegna ancora più criticamente l'esperienza complessiva dell'ordinamento regionale.

Il nuovo modo di governo, alternativo a quello settoriale e frammentato fin allora seguito dai governi nazionali, significava fare della democrazia e della partecipazione il metodo e la sostanza del rapporto tra Stato e cittadini, avviando un processo nuovo di articolazione e di unità dello Stato dal centro alla periferia e viceversa, alternativo anch'esso alla logica centralistica e verticistica, che appare tuttora connaturata con la concezione stessa dello Stato.

Soprattutto cominciava a divenire esplicita la denuncia del pericolo che ormai con nettezza si stava profilando e cioè l'azione centralistica mirante a snaturare il ruolo costituzionale delle Regioni, non più considerate come enti di governo, per relegarle a divenire solo enti di pura gestione amministrativa.

I mezzi usati dall'Amministrazione centrale per soffocare le Regioni e farle diventare enti svuotati da ogni scelta o indirizzo di programmazione sono stati innanzitutto il difficoltoso e parcellizzato trasferimento delle funzioni, che continuavano così a rimanere, nella sostanza, affidate agli organi centrali dello Stato, e in secondo luogo la finanza regionale intesa come una finanza non dotata di risorse autonome, ma derivata dal bilancio statale, accentuandone così il carattere di puro e semplice trasferimento di fondi a destinazione già verticisticamente determinata, con la solita gestione del denaro pubblico "a pioggia".

Né valse a correggere la situazione e a invertire la tendenza dopo le elezioni politiche del 1976 l'attuazione della Legge 382 che affidava al governo, previa consultazione delle Regioni e della commissione parlamentare per le questioni regionali, la delega per emanare nuovi decreti per completare il trasferimento delle funzioni regionali, in modo tale da rendere organico e definitivo l'assetto regionale e per realizzare il più ampio ed efficiente decentramento amministrativo.

È oltremodo significativo che l'attuazione della Legge 382 con il Decreto 616/77 sia stata realizzata grazie a una intesa a livello parlamentare fra le stesse forze politiche che dettero vita nel 1970 agli statuti regionali, in uno scontro aperto con le resistenze centralistiche che si esprimevano nel governo dell'epoca e in particolare attorno ad alcuni ministeri e ministri.

La battaglia per l'approvazione del decreto fu così aspra e dura da richiedere al governo la seduta del Consiglio dei ministri più lunga della storia del Paese. All'indomani dell'approvazione del decreto nell'agosto del 1977, Aldo Moro volle sottolineare in un articolo per "Il Giorno" il significato profondamente riformatore che poteva avere per lo Stato italiano la piena applicazione del decreto.

Queste giuste aspettative furono però interamente disattese da parte del governo e del Parlamento, che non dettero seguito ai precisi impegni indicati dal decreto legge. Non poté così venire sfruttata la possibilità di ottenere una reale autonomia decisionale nei confronti dei poteri centrali e della pubblica amministrazione. Nel consegnare il decreto al governo a nome della commissione parlamentare che presiedevo, lo accompagnai con una relazione redatta con il contributo del professor Giannini, allora consulente della commissione stessa, assieme ad altri giuristi come Amato, Reviglio, Bassanini e D'Onofrio.

La relazione poggiava su una tesi centrale nella quale si affermava inequivocabilmente come il lavoro di completamento del trasferimento di poteri alle Regioni fosse del tutto inutile, se non veniva accompagnato dalla riforma degli organi centrali dello Stato e dalla riforma degli enti locali.

Per la riforma degli organi centrali si rendeva necessaria l'eliminazione di alcuni ministeri, l'accorpamento di altri, lo snellimento delle procedure parlamentari e soprattutto la riforma della Presidenza del Consiglio sulla base di un affidamento al presidente stesso di compiti di indirizzo, di orientamento e di collegamento con le Regioni.

Per la riforma degli enti locali si evidenziava la necessità improrogabile di affidare tutta la gestione della parte amministrativa agli enti locali riformati e rinnovati per impedire che anche nelle Regioni si sviluppasse lo stesso elefantiaco burocratismo dello Stato centrale.

Queste due riforme essenziali non sono state realizzate ed è ben noto il fallito tentativo compiuto successivamente da Massimo Severo Giannini di applicarle nella sua qualità di ministro. Anzi, tutta la lotta per il rinnovamento e la riforma dello Stato si è di nuovo afflosciata su posizioni addirittura precedenti alla nascita delle Regioni.

Il respiro riformatore e la spinta al rinnovamento non hanno ancora trovato le forze politiche capaci di tradurli nei fatti.

La sconfitta del regionalismo è via via emersa in tutta la sua portata, mentre negli stessi partiti politici si affermavano sempre più vincenti le tendenze verticistiche e centralistiche.

Questo è avvenuto anche nel periodo successivo, contrassegnato politicamente dalla "solidarietà nazionale", quando non si è riusciti a coinvolgere né i cittadini, né i vari livelli istituzionali dello Stato e degli enti locali, nella scelta di una autonomia reale, per l'incapacità di dare forza e trarre sostegno dal decentramento.

Dagli anni Ottanta a oggi la situazione si presenta in termini ancora più gravi, se possibile, di disordine e di sfacelo sociale, di vera e propria degradazione dello Stato e di poca credibilità dei cittadini nei confronti delle istituzioni, creando seri problemi anche alla vita democratica italiana.

A maggior ragione quindi sono riproposti oggi in termini molto forti, insieme a quelli economici e sociali, anche i problemi della vita politica e istituzionale.

Nuovo modo di governare, partecipazione diffusa dei cittadini e delle organizzazioni sociali e civili a tutto il processo decisionale della gestione dell'amministrazione pubblica, sono gli obiettivi per i quali vale ancora la pena di ricercare valide soluzioni e ridare così fiato alla speranza di una cultura e di una politica sottratte alle degenerazioni che quotidianamente stiamo vivendo.


Nota

(1) G. Fanti, Anni Settanta: le ragioni di una scelta, "IBC", I, 1993, 5, pp. 34-37; ripubblicato nel volume Ma questa è un'altra storia. Voci, vicende e territori della cultura in Emilia-Romagna, a cura di V. Cicala e V. Ferorelli, Bologna, Bononia University Press - Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 2008, pp. 125-132.

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