Rivista "IBC" XX, 2012, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, interventi, progetti e realizzazioni

Avviata la ricognizione sui danni inferti dal terremoto al patrimonio storico industriale.
Non soltanto capannoni

Massimo Tozzi Fontana
[IBC]

Gli eventi sismici iniziati il 20 maggio 2012 hanno dato luogo a un acceso dibattito sulle caratteristiche geologiche del territorio tra le province di Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia e Mantova, che già dal 2003 era stato annoverato tra quelli ad alto rischio di forti scosse; cose sacrosante sono state dette e scritte sulla necessità di formare e diffondere una "cultura del rischio", che deve entrare a fare parte della consapevolezza di tutti, al fine di ridurre al minimo gli effetti devastanti dei terremoti, almeno in termini di incolumità delle persone.

"La verità" - ha scritto di recente Francesco Mulargia in un dossier di "IBC" - "è che gran parte del territorio italiano - praticamente tutto il paese con l'esclusione della Sardegna e di piccole zone del Piemonte, della Lombardia e della Puglia - è esposto a scuotimenti potenzialmente distruttivi e la maggior parte delle costruzioni è in condizioni di vulnerabilità ignote". Inoltre: "Il patrimonio edilizio è 'vecchio' e il 90% del totale non è conforme ad alcuna normativa antisismica. Nel caso poi del patrimonio storico e artistico, questo valore arriva quasi al 100%".1

Oltre a causare perdite umane, la distruzione di abitazioni, di luoghi di lavoro e di interi centri storici dotati di capolavori architettonici e artistici di immenso valore, per non parlare dell'enorme danno economico inferto a un sistema produttivo di altissimo livello, il sisma che il 20 e il 29 maggio 2012 ha devastato il cuore dell'Emilia ha duramente colpito anche il patrimonio storico industriale.

Importanti siti, veri e propri monumenti della storia del lavoro di questa regione, fabbriche e manufatti in alcuni casi ancora in attività (pur trasformati nella destinazione d'uso), in altri casi da tempo dismessi e abbandonati, sono scomparsi, talvolta abbattuti dopo le scosse in nome della sicurezza, oppure talmente danneggiati che un loro recupero appare, se non impossibile, oltremodo difficoltoso.

Le soprintendenze e la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici dell'Emilia-Romagna hanno tempestivamente avviato l'inventario del danno subìto dal patrimonio sottoposto a vincolo, in alcuni casi indagando analiticamente lo stato delle cose e proponendo interventi immediati, soprattutto per il patrimonio librario e archivistico, a cui l'Istituto regionale per i beni culturali ha dedicato il dossier sopra citato. Tuttavia nel novero di queste necessarie iniziative è mancato, e manca tuttora, l'avvio di una ricognizione capillare del patrimonio storico industriale che, solo in minima parte vincolato, in questi frangenti è stato prevalentemente considerato come minaccia per l'incolumità piuttosto che elemento di un paesaggio da conservare e valorizzare al pari di quei manufatti architettonici e artistici la cui definizione di bene culturale è universalmente condivisa.


Così, per esempio, sono state abbattute diverse ciminiere in modo per lo meno frettoloso: quella del Molino Parisio a Bologna, un opificio di impianto seicentesco, è oggi rimpianta dai più a causa della sua visibilità (si tratta infatti di uno dei pochissimi esempi di archeologia industriale urbana) e perché il suo profilo era molto familiare a tutti i bolognesi.

Il mulino fu edificato nei pressi dell'antica località Malavolta, lungo il corso del Canale di Savena, che scorreva a una profondità di circa quattro metri sotto il fabbricato. Sino ai primi del Novecento l'impianto era dotato di due turbine con relative macine; uno sbarramento indirizzava l'acqua in un ampio invaso che assicurava un movimento costante al motore idraulico, costituito da un rullo verticale e da una serie di catini che mettevano in movimento l'asse centrale e la macina mobile. In seguito l'impianto venne modificato tramite l'introduzione di laminatoi a cilindri azionati da energia elettrica.

L'opificio ha cessato l'attività produttiva nel 1983. Nel corso degli anni è stato recuperato e trasformato, attraverso alcune sostanziali modifiche, in edificio civile, sede di un istituto di credito. La sua origine era ancora segnalata dalla presenza della ciminiera ottocentesca in mattoni, che è stata smontata dai Vigili del fuoco in vista di un'improbabile ricostruzione. Il Molino non era vincolato: era classificato come bene "documentale", non storico, e quindi non soggetto al parere della Soprintendenza. Il consolidamento sarebbe stato possibile, ma la fretta di riaprire un'arteria stradale assai importante, su cui la ciminiera incombeva, ha prevalso. L'urbanista Pier Luigi Cervellati ha dichiarato: "Le ipotesi di previsione sul Molino Parisio sono di dimenticanza, non verrà mai più ricostruito. Anche perché costa più ricostruirlo com'era prima che consolidarlo. Si è approfittato del sisma. Del resto anche in passato si è parlato di pericolosità per quella ciminiera".

Il Molino Parisio si trova in una zona semicentrale di Bologna; l'abbattimento di altre ciminiere nelle zone periferiche colpite dal sisma non ha avuto la stessa risonanza mediatica, anche se alcune distruzioni sono visibili su Youtube: basti ricordare, a Bondeno, la ciminiera della fabbrica di conserve Pandurara di viale Berselli, costruita nel 1916, abbattuta meccanicamente; o quella della Fornace da laterizi di via Borgatti, fatta esplodere dal Genio ferrovieri dell'Esercito.

Una prima ricognizione dei danni subìti dall'edilizia industriale ha permesso di constatare che i disastri più consistenti riguardano i capannoni di recente costruzione, estesi su aree importanti, le cui tettoie non erano state adeguatamente fissate ai muri portanti e dunque sono crollate causando la morte di molte persone. Si tratta di capannoni di cemento grigio, estesi in media 1.000 metri quadri ognuno; in Italia se ne contano più di settecentomila. E di questi, secondo l'ultimo rapporto dell'Agenzia del Territorio, oltre ottantamila si trovano proprio in Emilia-Romagna. Producono merci che vengono destinate per il 30% all'esportazione, tra cui quelle relative al distretto ultraspecialistico del biomedicale a Mirandola.

I capannoni all'interno dei quali la maggior parte dei processi produttivi attuali hanno luogo - spiega Bernardino Chiaia, docente di Scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino - "sono edifici molto semplici, formati da pochi pilastri e travi. Riescono a resistere solo a sollecitazioni verticali; mentre in caso di sollecitazioni orizzontali, come quelle provocate da un terremoto, possono venire giù come un castello di carte".

Se rivolgiamo l'attenzione al patrimonio storico dell'industria, costituito da opifici che ricoprono superfici più ridotte, risalenti alla fine del XIX secolo o ai primi anni del XX, constatiamo che questi edifici hanno resistito abbastanza bene. Ne è esempio il Macello comunale di Finale Emilia che apparentemente ha riportato solo pochi danni sul retro.

Questo opificio fu edificato nel 1895, in un'area periferica in seguito inclusa nel centro abitato. Come altre analoghe strutture dell'epoca, presentava delle soluzioni formali coerenti con la distribuzione funzionale delle attività di macellazione previste al suo interno. Il complesso era costituito da un corpo centrale affiancato da due corpi laterali che insieme descrivevano una corte, chiusa da un muro di cinta.

Di particolare interesse architettonico era l'edificio centrale a uso amministrativo, il cui fronte era caratterizzato da tre archi raccordati all'imposta da una cornice aggettante ed evidenziati da multipli reincassi che proseguivano nei piedritti. Dei tre archi presenti sul fronte principale, decorato da un alto frontone, solo quello centrale dava accesso all'edificio amministrativo, al cui interno era posizionata un'elegante scala che conduceva al piano superiore. I due capannoni laterali, ove venivano svolte le attività di macellazione del bestiame, erano dotati di una copertura a doppia falda, al di sotto della quale si aprivano aperture circolari e lunette con una ghiera sagomata a tre fasce e un concio in chiave. Nel corso del tempo i fronti interni alla corte dei due edifici per la macellazione sono stati notevolmente modificati da interventi che hanno parzialmente cancellato la loro struttura originaria, scandita, nelle campate terminali, da alcune lesene.

Il complesso, da tempo inutilizzato e ora in stato di abbandono, è stato dichiarato di interesse culturale nel 2006 e contestualmente ceduto dall'amministrazione comunale a un privato. Nel corso del 2011 il macello è stato oggetto di una vendita fallimentare.


In generale, l'impressione di un osservatore non specialista come il sottoscritto è che il terremoto abbia lasciato le rovine più spettacolari negli edifici abbandonati, la cui manutenzione era da tempo trascurata, per i quali le scosse telluriche hanno fornito il "colpo di grazia".

Nel caso del Salumificio Samis-Bellentani di Massa Finalese, fondato nel 1936 (ma già presente nella cartografia IGM precedente) e dismesso nel 1981, solo la parte orientale, non ancora costruita nel 1935, è crollata; mentre per lo zuccherificio mirandolese della Società italiana industria zucchero il terremoto è arrivato all'indomani della fine dei lavori di restauro dell'edificio, che dopo la chiusura, nel 1986, è divenuto sede degli uffici dell'AIMAG, un consorzio di servizi per il cittadino. Questo grande opificio era nato nel 1936 come impianto di distillazione dell'alcool, produzione assai richiesta allora, poiché, dopo l'embargo applicato all'Italia dalla Società delle nazioni, c'era la necessità di ricavare fonti di energia alternative al petrolio. Solo nel dopoguerra si trasformò in zuccherificio. Per cinquant'anni lo stabilimento ha accompagnato la vita dei mirandolesi dando lavoro, magari soltanto per una campagna saccarifera, a centinaia di persone, operai stabili e occasionali. Lo stile architettonico è marcatamente razionalista.

Molto preoccupanti sono i danni subìti dall'impianto idrovoro "Mondine", a Moglia, in provincia di Mantova. La struttura, già compromessa dalle scosse del 20 maggio, il 29 è stata resa inagibile dal crollo della torre che contiene la cabina di trasformazione. Gli alloggiamenti per le paratoie sono stati lesionati, così come i manufatti di alcune chiaviche per la regolazione dei canali.

Questa idrovora è preposta al sollevamento delle acque alte reggiano-modenesi. Come le altre che fanno parte dell'enorme complesso di canali e idrovore del consorzio interprovinciale Bonifica parmigiana Moglia Secchia, fu progettata dall'ingegner Natale Prampolini nel 1923. Lo scopo dei lavori era arrivare a una separazione delle acque basse da quelle alte, portando risorse idriche in tutti i periodi dell'anno nei campi coltivati fino all'Appennino.

La ricognizione appena iniziata, e qui riassunta per sommi capi, dovrà essere continuata e approfondita dalla sezione Emilia-Romagna dell'Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale, in collaborazione con l'Istituto per i beni culturali della Regione, con "Italia Nostra" e con gli organi di tutela dello Stato.


Nota

(1) F. Mulargia, Prevenire costa meno, in Scossa ma non arresa. L'Emilia-Romagna dopo il terremoto, a cura di V. Cicala e V. Ferorelli, "IBC", XX, 2012, 3, pp. 62-63.

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