Rivista "IBC" XXI, 2013, 2

Dossier: Un racconto che si rinnova - Verso il 70° della Resistenza e della Liberazione

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Agire, raccontare, resistere, testimoniare: il ruolo del teatro

Micaela Casalboni
["Compagnia del Teatro dell'Argine", San Lazzaro di Savena (Bologna)]

Micaela Casalboni è tra i fondatori della "Compagnia del Teatro dell'Argine", nata nel 1994. Dal 1998 la Compagnia ha la direzione artistica dell'ITC Teatro, il teatro comunale di San Lazzaro di Savena (Bologna). Attualmente è composta da circa 30 fra registi, drammaturghi, attori, tecnici, organizzatori e amministratori. La direzione artistica è affidata a Nicola Bonazzi, Pietro Floridia e Andrea Paolucci.


Nel gennaio 2012 John Mpaliza Balagizi, 40 anni, esule della diaspora congolese, ci dice che di lì a pochi mesi lascerà il lavoro di ingegnere informatico che ha presso il Comune di Reggio Emilia e partirà per un viaggio incredibile: percorrerà a piedi 1600 chilometri, farà tappa in alcuni dei luoghi simbolo della memoria, della fondazione e della cittadinanza d'Europa (la Torino di Primo Levi, la Ginevra dell'Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, la Strasburgo delle istituzioni, la Maastricht dell'omonimo Patto), per arrivare infine a Bruxelles, sede del Parlamento Europeo.

Qui, nella capitale d'Europa, John ci dice che si farà testimone della condizione di estrema violenza, sfruttamento, ingiustizia, silenzio, che, dopo aver fatto oltre sei milioni di morti, sta ancora dilaniando il suo paese, la Repubblica Democratica del Congo.

Ci dice che sarà portavoce di tutti coloro che voce non hanno per farsi sentire, né trovano orecchie che vogliano intendere.

Ci dice anche, più o meno testualmente: "Non ho soldi, non ho potere, non ho influenza. Una sola cosa ho della quale posso disporre liberamente: il mio corpo. E quello userò per farmi sentire".


La notizia di questo gesto, queste parole, questi numeri ci sconvolgono.

Come esseri umani, come europei, come cittadini del mondo. Come artisti che nel 1994 decidono di dar vita a una compagnia teatrale che non si limiti a creare spettacoli, ma che lavori a stretto contatto con le persone, le associazioni, le istituzioni del territorio sul quale opera; che apra le porte del suo teatro non solo agli artisti o agli spettatori teatrali tipo, ma anche alle scuole, ai bambini, agli anziani, insomma ai cittadini, e poi, andando oltre, anche ai non-cittadini, a coloro che tutti i giorni lottano per i loro diritti, agli abitanti delle periferie, ai migranti, agli esclusi.


Prima di tutto quel gesto, così forte, così archetipico, così da eroe greco, che subito ci viene voglia di diventare il coro di quell'Oreste, di aiutare quel messaggio a emergere e a diffondersi grazie agli strumenti che ci sono propri: laboratori, letture, spettacoli da realizzare nei piccoli paesi e nelle grandi città lungo il cammino congolese.

Attività che non hanno certo la risonanza della televisione, ma in compenso sono dal vivo e sono corali, dunque esercitano sulle persone che vi prendono parte una forza molto grande, quella del coinvolgimento diretto, del venire, letteralmente, toccati e attraversati da quelle testimonianze e da quelle memorie.

Inoltre, cosa non secondaria, la mediazione dell'arte, che trasfigura in un'opera una storia, è un mezzo straordinario per guardare dentro queste e altre storie, spesso terribili, senza venirne sopraffatti, in modo indiretto e mediato ma non compromissorio ed eufemistico, un modo che non sminuisce l'orrore né l'importanza di quella testimonianza, ma che, elevandola all'universale attraverso il riconoscimento, l'adesione emotiva e il respiro fisico dell'azione, ce la porta vicina, ce la fa sentire nostra, ci fa sentire che tutto questo ci riguarda, non è solo l'ennesima triste storia sull'Africa che qualche telegiornale (pochi, per la verità) passa.

Il teatro è come lo specchio attraverso il quale soltanto Perseo può guardare la Medusa senza timore di rimanerne impietrito.


Secondo elemento che ci colpisce nel racconto di John: le parole, una in particolare: anche il teatro mette al centro del suo fare il corpo, il corpo dell'attore, il suo respiro, la sua voce, il corpo nel quale si traducono i significati, le parole, le storie.


Infine, i numeri fanno scattare nella nostra memoria risonanze da brivido: oltre sei milioni di morti nella guerra in Congo. Sei milioni. Un numero che non può non rimandare a quell'altro numero, il numero di quegli altri poveri morti, gli ebrei "terminati" negli ingranaggi della soluzione finale senza che nessuno sapesse, credesse, vedesse. Fino all'ultimo.

Dei morti congolesi invece si sa tutto. Solo che non se ne parla. Con il risultato che non esistono, questi sei milioni, e non esistendo sono condannati a moltiplicarsi perché nulla interviene a fermare quella guerra, che va avanti inesorabilmente, anche se ora non si chiama più guerra.


Il Teatro dell'Argine, fin dalla sua fondazione, ha sentito l'esigenza di tenere gli occhi aperti sul mondo, di indagarlo per cercare di capirlo usando gli strumenti del teatro, oltre a quelli più ovvi della ricerca sul campo, della lettura, dell'informazione. Niente di nuovo sotto il sole: Aristofane nelle sue commedie non solo raccontava la sua epoca, faceva addirittura nomi e cognomi dei protagonisti che metteva alla berlina e che erano viventi e spesso presenti nei teatri dove la loro storia era raccontata.

Questo raccontare tipico del teatro non solo ha la forza di rendere vivo e corporeo qualcosa che sui libri di storia e in televisione è lontano e freddo, è un raccontare che accade qui e orae che si fa in coro: il coro degli spettatori che vivono tutti insieme contemporaneamente quel racconto, quella conoscenza mediata dall'arte eppure viva, respirante e sudata; il coro degli artisti che, in sala prove prima e sul palco poi, studiano e sudano per trasformare quel racconto in un pezzo di teatro e non in una conferenza; il coro degli uni e degli altri messi insieme, che insieme conoscono e si emozionano e, forse, saranno un po' cambiati quando usciranno da quel teatro. Magari uno solo su cento. È una magia che si realizza quando gli artisti non pensano solo all'opera d'arte ma si preoccupano anche del pubblico al quale sarà rivolta e il pubblico è assetato e pronto ad ascoltare e a dialogare con certe storie - il che non è per nulla scontato che accada, ma quando accade è atto supremo di cittadinanza e di comunità.


Noi l'abbiamo visto accadere, per questo crediamo che il teatro (l'arte, la cultura) sia tra i bisogni primari dell'uomo, come il cibo, l'acqua, la voglia/necessità di socialità, l'educazione. Qualcosa di molto concreto, di essenziale, di primordiale, come gli elementi che ci hanno colpito nel racconto di John e che costituiscono il nucleo del nostro fare teatro: i gesti, le parole, i numeri, il corpo, il coro, il farsi qui e ora, l'essere (dal) vivo e vibrante, essere testimoni e portavoce, essere dentro la città, la comunità.


Questi elementi sono il motore anche dei nostri lavori sulla memoria.

Non si tratta di raccontare in modo per dir così compilativo un pezzo di Storia, quanto piuttosto di comprendere ciò che è accaduto percorrendo un cammino alternativo a quello dei libri di storia, per poi farsi testimoni di quel cammino, condividerlo con il coro degli spettatori, in modo che acquisti significato non come memoria d'archivio ma come segno e senso per il nostro presente. Si tratta di raccontare le persone, di entrare in relazione con esse e le loro storie: "Il teatro non è mai così commovente come quando ribalta il grande nel piccolo, e fa del frammento il prisma in cui l'intero si rilegge" (Attilio Scarpellini, "Diario", dalla recensione di Tiergartenstrasse 4).


Proprio da qui, dalle persone, nasce il nostro ultimo lavoro Se non sarò me stesso. Diari e volti dalla Shoah (2012), uno spettacolo che prende i suoi testi da quel forziere di tesori della memoria personale e privata che è l'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e prova a incarnarli in sei attrici sulla scena, sei donne di oggi che prendono sul loro corpo e dentro di sé i destini narrati in prima persona da sei donne ebree italiane degli anni Quaranta, che hanno vissuto i bombardamenti e le leggi razziali, la resistenza e il lager, la privazione e la clandestinità.


Allo stesso modo nasce uno dei nostri più vecchi spettacoli, Tiergartenstrasse 4 - Un giardino per Ofelia (2003). In seguito a una ricerca sui meccanismi di nascita dei totalitarismi per creare lo spettacolo interattivo Cronache da un mondo perfetto, emerge dai libri di storia quella parentesi nera, a noi allora poco nota, dell'Aktion T4, il progetto nazista di sterilizzazione e sterminio dei disabili, il cosiddetto "Olocausto minore".

Cominciamo a leggere saggi, interviste a medici e infermiere del tempo, atti di processi come quello di Norimberga, poi visioniamo i film di propaganda e qualche documentario. Non vogliamo a nostra volta realizzare un documentario, non è il nostro mestiere. Nostro mestiere è trovare degli universali in cui tutti si possano riconoscere (esattamente come per le vittime congolesi); tradurre la Storia in piccole storie; creare personaggi che abbiano la credibilità delle persone realmente esistite alle quali si ispirano e al contempo la forza della verità poetica che solo la creazione teatrale può dare loro. Conoscere e inventare: così nascono i personaggi di Ofelia e Gertrud. Ofelia è la ragazza disabile che la Storia tenta di distruggere e che incarna la purezza e l'innocenza insieme alla "dolce follia" del personaggio shakespeariano di cui porta il nome; Gertrud è l'infermiera che prima tenta di salvarla, conquistata dalla simpatia travolgente di quella donna rimasta bambina, ma che poi diventa ingranaggio di quella stessa macchina di distruzione che cercava di contrastare, divenendo così il simbolo della complicità con il potere, esattamente come la regina Gertrude dell'Amleto a cui si ispira.

Al di là delle riflessioni e delle stratificazioni di senso da cui nasce, lo spettacolo è molto semplice, molto umano, ha fatto più di cento repliche nei teatri di tutta Italia, davanti al pubblico normale ma anche a tanti ragazzi delle scuole; una casa editrice napoletana lo ha voluto pubblicare e una spettatrice di Udine sta realizzando la traduzione in lingua tedesca perché vuole che la storia giri anche in Germania. Di voce in voce, di portavoce in portavoce.


Infine, lo spettacolo Mamsèr - Bastardo racconta un'altra piccola storia, quella dell'editore modenese Angelo Fortunato Formiggini. Ebreo, umorista, uomo di cultura e poeta dialettale, Formiggini fu uno dei maggiori editori del Novecento, prolifico e impegnato a far conoscere la cultura italiana nel mondo. Ma se era il più importante editore italiano, perché nessuno lo ricorda più? È troppo facile dare la colpa al velo di silenzio che il tempo fa cadere sulle cose: se uno è importante - il più importante - il tempo non è in grado di stendere alcun velo. E allora vediamo... Formiggini era ebreo, Formiggini si è suicidato, il fascismo ha imposto la rimozione di una memoria scomoda. Tutto qui. Non è molto, ma è tantissimo. Basta questo per decidere di raccontare la storia di una vita. E se poi quella vita è piena di un entusiasmo quasi ingenuo per il proprio mestiere, sentito come missione di cultura e di affratellamento, allora costruire uno spettacolo per rinnovare la memoria di quella vita, farsi portavoce, non solo è auspicabile, ma diventa addirittura necessario. Come necessario abbiamo avvertito far recitare questo copione non solo agli attori professionisti della compagnia, ma anche a diversi gruppi di allievi dai 18 anni in su, per moltiplicare le voci e i testimoni.


La lotta al silenzio e all'oblio, la necessità di dire e di resistere, fare di questa memoria qualcosa che ci riguarda oggi: è questo il filo che da Formiggini ci riporta a John Mpaliza.

Formiggini, subito dopo la promulgazione delle leggi razziali nel '38, decide di buttarsi dalla Torre della Ghirlandina come atto supremo e ultimo di protesta. Ma prima scrive a tutti, ai suoi, al Papa, al Re, al Duce, scrive poesie, lettere, epigrammi, scrive istruzioni alla moglie per la perpetuazione della sua memoria. John è stato ricevuto al Parlamento Europeo, sia a Strasburgo sia a Bruxelles, dove, alla fine del viaggio, gli è stato comunicato che finalmente, dopo quasi vent'anni, aveva ottenuto la cittadinanza italiana.

La guerra in Congo continua ancora, la Resistenza, che Formiggini non fece in tempo a vedere, pure. Spetta a noi, con costanza, un giorno dopo l'altro, dentro e fuori i teatri di tutto il mondo, costruire faticosamente il nostro ruolo attivo di cittadini d'Italia, d'Europa, del mondo.

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