Rivista "IBC" XXIII, 2015, 4
territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, progetti e realizzazioni
Uno dei volumi più importanti tra quelli più recenti che figurano nel catalogo editoriale dell'IBC, l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, a parer mio, è quello dedicato a Lucio Gambi, Uno sguardo lento. Lontano dalla semplice commemorazione e dalla retorica dell'omaggio, questo volume racchiude le riflessioni più profonde e più sentite di tanti che hanno condiviso oltre un trentennio di ricerca vicina all'esperienza accademica, ma allo stesso tempo da essa chiaramente distinta: una ricerca spassionata, non competitiva né motivata neppure alla lontana da ambizioni accademiche (nessuno dei colleghi dell'IBC autori dei saggi nel volume è transitato all'insegnamento universitario). In questo senso il nostro è stato in effetti un lavoro "lento", in un'accezione paradossalmente positiva rispetto a un contesto sì dinamico, ma anche frenetico e teso a ottenere risultati immediati a tutti i costi.
Dunque la lentezza, intesa come scrupolosa accuratezza dettata dal piacere del lavoro ben fatto, è la cifra principale del lavoro svolto in IBC, che lascio quest'anno: pazienti indagini su fonti fragili come quelle orali, seguendo gli insegnamenti di Carlo Poni, Bernardo Bernardi, Tullio Seppilli, Roberto Leydi, Fabio Foresti; sui documenti museali, archivistici e bibliotecari con la guida di Andrea Emiliani, Vito Fumagalli e Lucio Gambi e di altri ancora dai quali ho imparato molto, come Franco Farinelli, Massimo Montanari e Giorgio Pedrocco; e, infine, sulla memoria del lavoro industriale, secondo il magistero di Louis Bergeron, Eugenio Battisti, Renato Covino, e le preziose suggestioni di tanti amici e colleghi.
Scopo della ricerca è stata la "lenta" ricostruzione di contesti storici, di ambienti tecnologici e stratificazioni sociali in ambito agricolo, artigiano e industriale, a cui ha fatto seguito la presentazione al pubblico dei risultati tramite mostre, pubblicazioni, audiovisivi. E, come filo conduttore sotterraneo, il lavoro più lento: il catalogo; da un lato, quello degli strumenti di lavoro e delle suppellettili dei contadini, dall'altro quello dei siti, dei manufatti e dei macchinari dell'industria. Un catalogo che ha consentito di mettere in luce tante attività umane classificabili come "storia della cultura materiale".
Durante il primo incontro che, ancora studente, ebbi con Andrea Emiliani, il professore mi fece cadere in un trabocchetto di quelli che restano impressi nella memoria: mi mostrò una fotografia in bianco e nero e mi chiese cosa rappresentasse. Io, senza esitare, vidi nell'immagine un prezioso tessuto. La mia visione era influenzata dal pregiudizio: mi trovavo di fronte a un celebre storico dell'arte che certamente mi stava mostrando il tesoro di qualche museo. Si trattava invece dell'immagine aerea di un campo arato! Ancora oggi vedo nell'episodio una lezione esemplare sull'ubiquità della bellezza, che un paesaggio trasformato dall'intervento umano può racchiudere al pari di un dipinto, di una scultura o di un'architettura, e sulla conseguente opportunità di cercare quella bellezza in un terreno ancora non molto esplorato, come appunto era il mondo agricolo, artigiano e industriale.
Trentacinque e più anni di lavoro sono tanti, tanti anche gli obiettivi raggiunti, soprattutto parlando di conoscenza e di presentazione al pubblico di indagini certamente nuove rispetto alla consolidata, ma talvolta polverosa, tradizione storico-artistica e documentaria. Penso alla fabbricazione tradizionale delle scope, tema di uno dei primi volumetti dedicati a un piccolo aspetto della vita quotidiana di una comunità che oggi non esiste più, se non nelle tracce materiali consegnate a un museo. Penso, ancora, alle centinaia di mugnai che facevano funzionare i mulini della valle dell'Enza; alla navigazione nel fiume Po, nei suoi affluenti e alla relativa cantieristica navale, al mondo "a parte" rappresentato dal Delta, al lavoro dei minatori che estraevano zolfo dal bacino romagnolo-marchigiano, alle ferriere dell'alta valle del Reno, al sistema idraulico artificiale della città di Bologna.
L'elenco potrebbe continuare. Ma, al di là dell'importanza più o meno grande di questo o quel tema, ciò che conta è, per lo meno mi auguro, che una direzione sia stata indicata con sufficiente chiarezza, e che chi verrà in seguito possa continuare a seguirla e a programmare il proprio lavoro in questa prospettiva.
Dico questo con la consapevolezza che i risultati positivi del passato non cancellano la sottile amarezza di molte dichiarazioni di intenti, di tanti propositi virtuosi che hanno vissuto stagioni troppo brevi o sono semplicemente rimasti sulla carta. È vero che il compito dell'Istituto non era e non è la tutela attiva e puntuale del patrimonio, ma la sua conoscenza, congiunta con la trasmissione e la diffusione di tale conoscenza; tuttavia troppe indagini, che hanno messo in luce manufatti, siti, contesti architettonici e ambientali in pericolo, non hanno avuto un riscontro concreto da parte di chi aveva il potere reale di proteggerli e di evitarne il degrado.
Annota Andrea Emiliani: "L'incidente più grave mi sembra l'avvenuto abbandono della conoscenza del paesaggio rurale, ultimo vero capolavoro dell'uomo in questa pianura padana come anche nelle alture appenniniche. La scomparsa radicale della piantata ha ridotto le aree emiliano-romagnole in luoghi di desertificazione progressiva, di disastro idrogeologico, di inespressività paesaggistica, di demolizione del paesaggio come umanità e come storia. Non è un bel risultato per molti enti locali, a cominciare dalla Regione, che si sono segnati per anni e anni nel nome sacro di Emilio Sereni".
Ho sempre pensato che la costante carenza di mezzi finanziari per la protezione del patrimonio culturale, e in particolare delle testimonianze materiali del lavoro, non sia l'unica, ma neppure la principale causa del deterioramento e dell'abbandono di tanta parte di quel patrimonio. Le cause profonde vanno ravvisate nelle battaglie condotte con scarsa convinzione, nella mancata definizione di un motivato elenco di priorità, nell'incapacità di formare una coscienza diffusa e un consenso abbastanza forte da smuovere la pigrizia, combattere la disattenzione o, nel peggiore dei casi, opporsi alla corruzione istituzionale, che le cronache denunciano sempre più spesso; in una parola, nell'insufficiente grado di "indignazione": "L'apatia dei cittadini è la migliore alleata di chi distrugge l'ambiente", ha scritto Salvatore Settis.
Il mio percorso di ricerca nei trentacinque anni passati all'IBC è caratterizzato da un passaggio che può essere sintetizzato in una frase: dai musei al territorio. Nella prima fase, infatti, il mio interesse si è concentrato essenzialmente su oggetti e manufatti in qualche modo già salvati, prelevati dal loro contesto originario tanto con finalità decisamente collezionistiche, quanto per una riappropriazione culturale pubblica, e poi collocati, con diversi gradi di consapevolezza, in un deposito o in un museo; nella seconda fase il focus si è spostato sul territorio. Citando ancora Settis: "Nel nostro Paese, i musei contengono solo una piccola minoranza dei beni culturali, che sono viceversa sparsi in chiese, palazzi, piazze, case, strade, ma anche nelle campagne lì intorno, per valli e colline [aggiungerei all'elenco i siti industriali] : questa diffusione capillare fa il carattere speciale del patrimonio culturale italiano, e non essendo riproducibile ne assicura l'assoluta unicità".
Questo passaggio ha rappresentato un mutamento importante nel mio lavoro: se infatti, nella prima fase, gli oggetti e i materiali conservati nei musei ponevano a me - funzionario dell'IBC, tra i cui compiti non figurava direttamente la gestione e l'amministrazione - problemi e temi di natura essenzialmente culturale e scientifica, sollecitando le mie competenze di ricercatore, nella seconda fase, invece, mi sono trovato di fronte a manufatti concreti, ben visibili, presenti nel paesaggio tanto urbano quanto rurale (o ciò che di tale paesaggio resta nella nostra regione). Un paesaggio per lo più oggetto di discussione, quando non di acceso conflitto, tra interessi privati e istanze popolari, tra comitati di cittadini dissenzienti e concessioni delle soprintendenze competenti talvolta troppo generose nei confronti di proprietari ansiosi di realizzare profitti.
In altre parole, non si trattava più, puramente e semplicemente, di censire e studiare, ma anche di preoccuparsi del destino di un sito, di un opificio, di una macchina. Questo fatto ha modificato profondamente il mio approccio, anche se, nei fatti, in modo ambiguo e caratterizzato da una impotenza di fondo: come ho detto, all'IBC non competono la tutela e la salvaguardia a parte l'esile accenno legislativo al compito di "curare il concorso regionale all'esercizio della tutela") ma solo la conoscenza e la "valorizzazione".
Il fatto di essere coordinatore dell'AIPAI, l'Associazione italiana per il patrimonio industriale, mi concedeva in questo senso qualche spiraglio di autonomia, ma solo sul piano della presa di posizione, in alcuni casi della denuncia o della manifestazione di dissenso. D'altro lato, rispetto all'IBC, si poneva un problema di correttezza istituzionale: come opporsi all'amministrazione locale disposta a concedere, per di più nel pieno rispetto di leggi (sbagliate), cancellazioni o mutilazioni di importanti elementi della storia delle attività produttive, quando tale opposizione si sarebbe tradotta in un "incidente diplomatico"?
A questo proposito debbo osservare che l'IBC nel suo complesso approfitta in misura insufficiente della libertà di giudizio e di azione che la sua autorevolezza scientifica gli consentirebbe. Inoltre la scelta politica ormai consolidata di concentrare i finanziamenti principali su musei e biblioteche ha avuto come conseguenza, al di là dei buoni propositi dichiarati, di mettere in secondo piano l'idea del territorio e del paesaggio come tessuto connettivo tra i vari beni, dunque esso stesso bene culturale, che è proprio l'idea su cui l'Istituto era nato. È sul paesaggio, oggetto di tutela da parte della Convenzione europea, che storici, antropologi e geografi elaborano le idee più originali e innovative, individuando in esso le migliori basi di interpretazione della realtà in cui ci troviamo a vivere; concentrarsi invece sulle istituzioni culturali, perdendo di vista i contesti ambientali e antropologici, toglie progressivamente importanza a quegli stessi istituti che si vorrebbe valorizzare.
In questo quadro e con questi limiti penso che si debba proseguire nelle direzioni tracciate con il lavoro "lento" di cui dicevo all'inizio, un lavoro riconducibile alle ragioni fondative dell'IBC: il censimento, innanzitutto, che nel campo del patrimonio industriale offre ai visitatori del sito web una panoramica in crescita costante, sia dal punto di vista del numero dei manufatti censiti che da quello della qualità delle informazioni ( ibc.regione.emilia-romagna.it/argomenti/archeologia-industriale).
Catalogare, e prima ancora inventariare, è la premessa per operare qualsiasi tipo di intervento consapevole. Sulla base di una catalogazione scrupolosa è possibile costruire repertori di dati a partire dai quali decidere e mettere in opera interventi di recupero o di demolizione parziale o totale, e soprattutto si può prevedere un "dopo".
L'Emilia-Romagna è stata una delle prime regioni ad avviare, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, un censimento del patrimonio industriale, attraverso varie iniziative, che hanno avuto finalità differenti e incontrato le difficoltà insite nell'affrontare un nuovo ambito di studio con strumenti di indagine ancora poco discussi e certamente non formalizzati. Piuttosto che avviare campagne di catalogazione con un solo strumento di rilevamento per diverse tipologie di beni, con orizzonte "ecumenico" interregionale o addirittura nazionale, abbiamo preferito modellare lo strumento di indagine sull'oggetto di volta in volta preso in esame: così, per ogni ricerca, è stata prodotta una specifica scheda.
Ricordo, in proposito, la catalogazione del patrimonio dei musei rurali, il censimento dei mulini ad acqua della valle dell'Enza, la mappatura delle fornaci da calce e da laterizio di tipo Hoffman; la ricerca sulle ferriere dell'alta valle del Reno e, ancora, quella sui cantieri navali, sulle imbarcazioni destinate ai corsi d'acqua interni, sulle antiche fonderie di campane e sulle campane stesse, considerate non come strumento musicale ma come prodotto di abilità artigianale. A seconda della natura dell'oggetto studiato, la scheda ha caratteristiche analitiche, come nel caso di oggetti o di macchine di relativa semplicità, oppure sintetiche, quando si tratti di macchine complesse o di opifici, al cui interno magari sono ancora presenti macchinari.
Per la banca dati on line abbiamo disegnato una scheda sintetica ed essenziale, monade di un sistema-catalogo destinato a un pubblico di non specialisti, ma con notevoli possibilità di approfondimento e di intreccio tra i diversi luoghi repertoriati. La concezione che sta alla base del progetto discende dai criteri sopra accennati: in primo luogo, a dispetto di una pratica dei beni culturali obsoleta ma molto spesso riscontrabile, non estrapolare opifici e manufatti dal loro contesto storico ma, al contrario, cercare di ricomporre tale contesto, per conoscere e fare conoscere una storia che coinvolge non solo vicende imprenditoriali, soluzioni architettoniche, tecniche di lavoro, rapporti di produzione e condizioni di lavoro all'interno di questo o quell'opificio, ma, più in generale, la costruzione e le trasformazioni del paesaggio antropizzato.
Una prima fase del censimento ha riguardato i manufatti che, dopo un periodo di abbandono, sono stati oggetto di recupero attraverso iniziative dagli esiti diversi. In modo analogo sono stati esaminati gli stabilimenti in cui il processo di dismissione, giunto al suo epilogo, non è stato seguito da alcun intervento di recupero o riciclo, aprendo inevitabilmente la strada al degrado o alla demolizione e sostituzione. In prospettiva, l'attenzione dovrà concentrarsi sul patrimonio "minore", ovvero sui siti di modeste dimensioni produttive, come i moltissimi mulini e le innumerevoli fornaci da calce e da laterizi, di grande rilievo nella storia del lavoro della regione. Un'attenzione particolare dovrà inoltre essere dedicata alle infrastrutture paleoindustriali, come i sistemi idraulici artificiali, di enorme importanza storica.
All'avanzare della campagna fotografica della situazione attuale si affianca la ricerca, ancora in fase embrionale, di fotografie e iconografie storiche. La messa a disposizione di immagini del passato è tanto più necessaria se si pensa che molti siti od opifici storici, presenti in banca dati, oggi non esistono più. Infine un accenno alla confezione: sono necessari un miglioramento grafico del sito web e l'accesso diretto attraverso la georeferenziazione, in modo da facilitare la consultazione delle schede dedicate al patrimonio industriale.
In questa prospettiva credo che la via tracciata sia chiara, si tratta cioè di proseguire ed estendere il censimento secondo la metodologia collaudata: visita dei luoghi, interviste ai possibili informatori, esame della bibliografia e dell'eventuale documentazione archivistica, raccolta di documenti originali e di foto storiche. A tal fine, una buona prova hanno dato finora l'impiego di laureandi individuati presso le università regionali, il coinvolgimento di giovani ricercatori come stagisti e, dall'altro lato, la collaborazione con i tanti "cultori della materia" presenti tra le file di "Italia Nostra", "Legambiente" eccetera, che sono spesso notevoli fonti di informazione.
Un'altra direzione che mi pare importante seguire è quella rappresentata dalle giornate di studio che l'IBC ha organizzato insieme con l'AIPAI: la prima, organizzata il 2 dicembre 2009 e dedicata a una panoramica delle principali situazioni e dei temi regionali; la seconda, nell'aprile 2011, sulla realtà modenese; la terza, nel marzo 2013, in cui è stata protagonista la Darsena di città di Ravenna, con l'acceso dibattito sul progetto di recupero dell'ex magazzino SIR, un paraboloide chiamato "il Sigarone".
Un quarto incontro era nei miei programmi: quello dedicato al bacino solfifero romagnolo-marchigiano, un tema al quale, nel corso del tempo, è stata dedicata attenzione da parte dell'IBC con un convegno a Borello di Cesena e con il volume La miniera, del 1991, a cui aveva fatto seguito un dettagliato ma mai realizzato studio di fattibilità per un museo en plein air dello zolfo. L'ingresso dei comuni del Montefeltro pesarese nella regione Emilia-Romagna avrebbe potuto costituire un'occasione importante per coinvolgere in una riflessione comune tanto il Centro per la ricerca e lo studio della Romagna mineraria, che da decenni accarezza l'idea di dare vita a un museo della miniera, quanto il Museo dello zolfo di Perticara, nel comune di Novafeltria, un'istituzione inaugurata nel 1970, che si pone come centro di ricerca e documentazione ben consolidato.
Da storico che ha lavorato a contatto con architetti, credo che il compito dell'architettura sia oggi più che mai delicato. Mi sembra che il progetto disponga di spazi esigui al di fuori del restauro e della manutenzione dell'esistente, che costituiscono l'emergenza. Il rapporto tra vecchio e nuovo deve tendere a un equilibrio che non perda mai di vista la fragilità del paesaggio italiano. Un principio di ragionevolezza induce a pensare che, qualora la salvaguardia integrale di una testimonianza del passato industriale sia irrealizzabile, la sua memoria può essere preservata con molti altri mezzi: dagli strumenti mediatici ai modelli in scala, di cui conosciamo esempi eccellenti, come quelli conservati presso il Consorzio del Canale di Reno e presso il Museo del patrimonio industriale di Bologna. In ogni caso, spero vivamente che l'interesse dell'IBC per questo importante campo di indagine non venga meno e che il testimone teso da chi esce trovi una mano volenterosa a raccoglierlo.
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